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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Il cielo del mattino era coperto. Ammassi di nuvole increspate e gonfie, che più di ogni altra cosa ricordavano campi su campi di grigi topi morti, incombevano bassi sull’orizzonte. Una giornata grigio topo. Di solito, al vicecommissario Wong Cheung Fai le giornate grigio topo piacevano, con il sole velato e l’aria fresca sulla pelle. Ma quella volta no.
Si era messo a correre mentre attraversava il prato verso la piscina e si fermò scivolando vicino a una sdraio, guardando il corpo della ragazza che galleggiava a faccia in giù dentro la piscina. Era nuda, probabilmente dell’Asia orientale a giudicare dalla tonalità della pelle, con i lunghi capelli neri allargati come una coda di pavone lungo la schiena. Ben fatta, anche, osservò, senza completo distacco professionale: il busto snello, le gambe lunghe e toniche. In piedi doveva essere stata almeno un metro e settantacinque, alta e flessuosa. Così diversa dalla compattezza bassa e nervosa di sua moglie; eppure nel corpo della ragazza c’era qualcosa di stranamente familiare, che però non riuscì a individuare immediatamente. Sulla spalla sinistra si avvolgeva il piccolo tatuaggio iridescente di una libellula. Galleggiava dolcemente, poco al di sotto del pelo dell’acqua; sembrava quasi che dormisse.
Un venticello leggero agitò la superficie della piscina e i capelli della ragazza si mossero; per un attimo sembrò quasi che stesse per rialzare la testa e uscire dall’acqua e Cheung Fai sentì qualcuno trasalire – lui stesso – prima di rendersi conto che era solo un effetto del vento.

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

«Non so cantare», mente Ling, anche se in realtà ha una voce cristallina e intonata.
«Ma certo che sì», risponde la donna, imperturbabile.
«In un….».
«Lounge bar. A Singapore».
«A Singapore?» ripete Ling, sbalordita. Non è mai uscita dalla Cina. È stata una volta a Pechino e a Macao e due a Shanghai. È come se la donna le avesse offerto di volare fin sulla luna.
«Ti pagherò. Molto più di quanto guadagni adesso, questo è certo. Che lavoro fai?»
«Assistente di laboratorio».
«Con il tuo aspetto… in un laboratorio sei sprecata».
«È un buon posto».
«Ma non ti basta».
«E lei come lo sa?»
«Conosco le ragazze come te».
«Ah sì?»
«Tu vuoi di più».
«Non sono uno stereotipo».
La signora Fung la guarda per un istante. «Mai detto che lo fossi».

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

Perché toccava a lei cucinare la domenica? Si era infuriata e avevano litigato. Alla fine, lui si era buttato la giacca sulle spalle ed era uscito in fretta, chissà dove era andato, e non era tornato fino all’alba. Sapeva che non gli andava per niente a genio che lei studiasse pittura, ma in realtà ciò che proprio non sopportava era che avesse contatti con altri uomini. Già non era contento che passasse una sera alla settimana a casa del maestro per la lezione, e il giorno prima, vedendola tornare a casa tardi, si era insospettito subito. Per fortuna lavorava, faceva la commessa nella cartoleria vicina, e tutto il materiale per la pittura lo comprava con i suoi soldi, così lui non poteva proibirle di continuare a studiare. Ora poi che andava a dipingere anche la domenica mattina lui era, se possibile, ancora più scontento, e aveva cercato una scusa per litigare.

Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

«È stato fantastico», dice con voce lenta, impastata di sonno. «Sei stata grandiosa».
Alle sei del mattino, nudo, il suo corpo mostra la sua età, con qualche rotolo intorno alla vita. Gli occhi sono cerchiati di nero. Q prende i pantaloni, estrae il portafoglio e tira fuori un rotolo di banconote.
«Quanto ti devo… Fa niente, prendili tutti».
Ling guarda la sua mano tesa, incredula. «Non voglio i tuoi soldi».
Q resta incredulo a sua volta. «È perché no, che diavolo?»
Lei gli volta le spalle e si avvia verso la porta. Dietro di sé lo sente esclamare: «Ma che c…? Non mi pianti in asso così….». Salta giù dal letto, con il lenzuolo intorno ai fianchi, e la segue in corridoio, urlando: «Non sono alla tua altezza?».
Le scaglia dietro le banconote e richiude la porta, sbattendola.
Ling appoggia la fronte alla parete del corridoio, e ride: Dai, dice alla vocina censoria che ha nella testa, devi ammettere che in un certo senso è divertente. Una cameriera di mezza età la supera spingendo un carrello e le rivolge uno sguardo sospettoso. Ling torna seria; tanto per cominciare, gli incipienti postumi della sbronza fanno sì che ogni risata le provochi ondate di mal di testa tipo tsunami. La cameriera, nascosta dagli spazzoloni, non ha visto il denaro sparpagliato per terra. Ling guarda le banconote e pensa: Perché no? Tanto le troverà qualcun altro e le raccoglierà, esultando per tanta fortuna. Quell’idea le arriva mista a una punta di disprezzo per se stessa, e per Q. Chiude gli occhi, fa un bel respiro. Intasca i soldi.

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

Il maestro gli disse che quel giorno avevano in programma disegno di nudo dal vero, e che avrebbe dovuto spogliarsi. Il ragazzo notò che nell’atelier c’erano anche due donne sui vent’anni – una forse anche più giovane – che lo stavano guardando.
«A-Gui mi ha detto che dovevo togliermi solo i pantaloni», balbettò Jizong, ma si accorse che l’amico era già sparito. Si guardò intorno, confuso. Il maestro percorse con lo sguardo l’intero atelier, e sorridendo disse a Jizong: «Credo che A-Gui sia andato via. In fondo che problema c’è a togliersi i vestiti? Siamo adulti, non siamo forse fatti tutti allo stesso modo? Vedrai che ti abituerai subito, prova!». Jizong non rispose, non sapeva come fare a spogliarsi davanti a quella gente. Dove si era cacciato A-Gui? Se l’era svignata. Si sentiva solo e abbandonato e in cuor suo era infuriato con l’amico. Il maestro gli spiegò che quel giorno avrebbero dipinto per tre ore: ogni quarto d’ora avrebbero fatto una pausa di cinque minuti. Poi lo invitò ad andare dietro il paravento a spogliarsi.
Jizong si tolse la maglietta e uscì dal paravento a torso nudo.
«Ti puoi togliere i pantaloni?», gli chiese gentilmente il maestro; Jizong tornò dietro il paravento, se li sfilò e comparì in mutande. A disagio, teneva le braccia tese a coprire le parti basse e in attesa di istruzioni sbirciava timidamente il maestro; non osava guardare gli altri. Il maestro gli disse di mettersi di schiena, faccia al muro, di divaricare le gambe, alzare le braccia e appoggiarle alla parete: «Così, non muoverti!».

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Qualche sera dopo, durante le sue peregrinazioni per la città, si ritrova davanti al Golden Palace Hotel, a osservare un corteo di auto di lusso superare il cancello d’ingresso. Sta per girarsi e andarsene, quando un uomo che ha appena affidato la sua coupè nera al parcheggiatore incrocia il suo sguardo e dopo un brevissimo attimo di esitazione, le si avvicina. La invita a bere qualcosa al bar dell’albergo.
Lei risponde: «Non sono vestita nel modo giusto». Indossa le solite cose che mette dopo il lavoro: jeans e un giubbotto di pelle nera liso e da pochi soldi.
Lui si mette a ridere e le dice che sta benissimo. Lei lo osserva, valutandolo. Deve aver passato i quaranta, che a lei sembrano tantissimi, ma è alto e in forma per la sua età, e tutto il suo aspetto parla di un uomo a suo agio con il denaro e se stesso, una cosa che a Mister Stufato mancava clamorosamente. Non c’è niente che la aspetta, a parte il suo minuscolo appartamento in affitto, il signor He e Celestino. Ling pensa all’acqua che sale verso il ghiaccio, che cerca le crepe, sgocciola e filtra senza sosta fino a diventare un torrente, mentre il ghiaccio si spezza e sprofonda in mare. La voce di Jiang nelle orecchie: Brutta troia. La rabbia che era rimasta lontana per giorni ora la stringe nelle sue grinfie. Accetta.

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

Il maestro si mise davanti al cavalletto di un’altra allieva, Ningfang, e iniziò a parlare con lei. Mentre chiacchierava con lui, Ningfang lanciò distrattamente un’occhiata verso Sixian che dipingeva nell’altro angolo, e si accorse che la stava fissando imbambolato. Incrociò il suo sguardo e lo ricambiò con un sorriso caloroso. A cosa stava pensando Sixian?
Nell’atelier c’erano sette persone: oltre a Jianxiong, al maestro e ai suoi tre allievi Sulan, Ningfang e Sixian, c’erano Zhang Wenzhong e un giovane che lo accompagnava. Si diceva che fosse un poeta appassionato anche di pittura, il quale faceva spesso copie a matita delle fotografie di scrittori uscite su libri e riviste e le pubblicava poi sui quotidiani. Aveva un atteggiamento un po’ arrogante, era la prima volta che faceva un ritratto dal vero e si aspettava di vedere una donna nuda; invece gli era toccato un ragazzetto ed era un po’ deluso. Ritrarre dal vero e copiare una fotografia però sono due cose ben diverse: il giovane poeta non aveva esperienza, dipingeva con grande energia continuando a correggere i contorni della figura ma, per quanto facesse, le proporzioni continuavano a essere sbagliate, la parte superiore continuava a essere troppo lunga e quella inferiore troppo corta. Il maestro, guardando il suo disegno, gli diede dei suggerimenti, ma il giovane si irritò: «Un dipinto non deve per forza essere somigliante. Se dipingere significasse copiare pedestremente la realtà, tanto varrebbe limitarsi a fotografare». Il maestro si accorse che il giovane era seccato e non disse più nulla.

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Prima di arrivare in questa città, non sapeva bene cosa aspettarsi. Forse nutriva una speranza ingenua che la città le cadesse ai piedi, spalancandosi come uno scrigno di gioielli e lasciando rotolare fuori tutti i suoi tesori, mentre resta ostinatamente e impenetrabilmente chiusa di fronte a lei. Le lunghe ore in laboratorio le lasciano poche occasioni per socializzare; la cosa più simile a un amico che abbia è il signor He.
Il suo anonimato in città è al tempo stesso liberatorio e demoralizzante. Alla sera, dopo il lavoro, ha preso l’abitudine di girare per la città, guardare le vetrine, osservare le persone, contemplare la vita delle strade come se fosse un suo diorama privato. La città non è una delle grandi metropoli, non ancora, almeno; è una arrivista sfacciata, che abbatte e ricostruisce tutto quanto c’è in vista, freneticamente, l’aria stessa elettrizzata e carica di promesse sfuggenti, come doveva essere stata New York agli albori del ventesimo secolo, una città pulsante avviata verso un’ambizione di grandezza. In città, Ling coglie qualche ombra, qualche indizio di una vita che per lei rasenta la fantasia, tanto è distante dal mondo in cui abita. Intorno alla circonvallazione principale della città c’è un agglomerato di alberghi a cinque stelle. La sera un flusso ininterrotto di auto di lusso scarica uomini in completi su misura e donne che indossano abiti luccicanti con varie gradazioni di trasparenze. Lei osserva soprattutto le donne, il modo in cui emergono dai veicoli, un tacco a spillo alla volta, sondando esitanti il terreno prima di allontanarsi volteggiando in una nuvola di seta o jacquard e di un profumo così intenso da permetterle di sentirlo anche a quella distanza. Le guarda e pensa: Potrei essere io, quella.

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Il maestro gli disse che quel giorno avevano in programma disegno di nudo dal vero, e che avrebbe dovuto spogliarsi. Il ragazzo notò che nell’atelier c’erano anche due donne sui vent’anni – una forse anche più giovane – che lo stavano guardando.
«A-Gui mi ha detto che dovevo togliermi solo i pantaloni», balbettò Jizong, ma si accorse che l’amico era già sparito. Si guardò intorno, confuso. Il maestro percorse con lo sguardo l’intero atelier, e sorridendo disse a Jizong: «Credo che A-Gui sia andato via. In fondo che problema c’è a togliersi i vestiti? Siamo adulti, non siamo forse fatti tutti allo stesso modo? Vedrai che ti abituerai subito, prova!». Jizong non rispose, non sapeva come fare a spogliarsi davanti a quella gente. Dove si era cacciato A-Gui? Se l’era svignata. Si sentiva solo e abbandonato e in cuor suo era infuriato con l’amico. Il maestro gli spiegò che quel giorno avrebbero dipinto per tre ore: ogni quarto d’ora avrebbero fatto una pausa di cinque minuti. Poi lo invitò ad andare dietro il paravento a spogliarsi.
Jizong si tolse la maglietta e uscì dal paravento a torso nudo.
«Ti puoi togliere i pantaloni?», gli chiese gentilmente il maestro; Jizong tornò dietro il paravento, se li sfilò e comparì in mutande. A disagio, teneva le braccia tese a coprire le parti basse e in attesa di istruzioni sbirciava timidamente il maestro; non osava guardare gli altri. Il maestro gli disse di mettersi di schiena, faccia al muro, di divaricare le gambe, alzare le braccia e appoggiarle alla parete: «Così, non muoverti!».
Dopo un po’ Jizong sentì il pittore che gli diceva: «Puoi toglierti anche le mutande?».

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Si sentono stridere i freni. Insieme al resto dei passeggeri, Ling viene scaraventata in avanti e piomba su una donna tracagnotta che puzza di cipolle. L’autobus si è scontrato con una monovolume. I due autisti saltano giù dal proprio mezzo per affrontarsi in mezzo all’incrocio; intorno a loro, il traffico si blocca in un perfetto ingorgo cittadino. Dall’altro capo della via, un poliziotto corre verso l’origine di quel trambusto, soffiando come un matto nel fischietto. I passeggeri dell’autobus sciamano fuori dal mezzo.
Per un po’ non ne arriverà un altro. Se cammina molto svelta, calcola Ling, potrebbe arrivare al laboratorio in un quarto d’ora. Si avvia, quasi correndo, poi si blocca. Sopra di lei, un’insegna dice «Negozio di animali»; dev’esserci passata davanti ogni giorno con l’autobus, andando al lavoro, senza mai notarla. Dà un’occhiata all’orologio, ma l’attrazione della casualità è troppo forte. Entra nel negozio dall’interno poco allettante.
Qualche minuto dopo, esce con una gabbietta che contiene un pappagallo, identico, a parte il colore, a Rossino. Non osa immaginare cosa dirà il capo del laboratorio quando la vedrà finalmente arrivare al lavoro tutta allegra, facendo dondolare Celestino, perciò non ci prova nemmeno. Liberato dal confino del negozio di animali, Celestino guarda le strade della città con gli occhietti lucidi e gracchia cose incomprensibili. Celestino, le ha garantito il proprietario del negozio, ha fatto tutto il viaggio fin lì dall’Africa, e ha citato un paese che lei non ha mai sentito nominare.

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