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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su lingue

I tesori nascosti nella letteratura cinese

In questo vecchio articolo su China Daily ci si chiede, dopo la vittoria del Premio Nobel per la Letteratura da parte di Mo Yan, quali altre gemme potrebbero nascondersi nella letteratura cinese.

Lo stesso articolo stima il numero dei traduttori in Cina tra i 60 e i 70 mila, ma solo un 10% di essi sarebbe capace di tradurre dal cinese all’inglese. Vengono analizzati vari problemi, principalmente di qualità legata ai ritmi del mercato e di un maggior orientamento sui testi classici piuttosto che sulla letteratura contemporanea.

Addirittura, si presenta anche il caso di un’idea del cinese come lingua troppo complessa da rendere pienamente in inglese, e la presenza di versioni semplificate o accorciate di alcune opere.

Foto: Jago Pauwels

Dove si legge in India (e come)

La giornalista Nilanjana Roy cerca di delineare un quadro delle abitudini di lettura degli indiani. Si parte dalle metropolitane per poi parlare degli e-reader, con però le loro limitazioni geografiche per la disponibilità di alcuni titoli, e delle librerie fisiche e online. Si sottolinea poi la crescita di lettori di libri in lingue indiane.

50 autori indiani (tradotti in inglese)

La giornalista Nilanjana Roy propone una lista dei suoi migliori 50 autori indiani tradotti in inglese.

Interessante anche la premessa, dove si parla del fatto che da una tradizione di bilinguismo si vada ora maggiormente diffondendo il monolinguismo, con l’inglese in rapida ascesa.

 

 

Questioni linguistiche in Cina

Segnaliamo un interessante articolo dell’Economist, che parte dall’accuratezza linguistica di alcune serie TV storiche che stanno avendo un grande successo in Cina, e sono parlate in cinese mandarino invece che in lingua manciù. Si arriva poi a un’analisi più ampia sulla storia delle lingue e della loro assimilazione.

Via: @CDT

L’Engglishhh dell’India

Sulle lingue in India c’è sempre molto da dire. The Caravan ha pubblicato qualche tempo fa un pezzo piuttosto divertente di Altaf  Tyrewala, che parte dal presupposto non di cosa l’inglese ha fatto agli indiani, ma di cosa gli indiani hanno fatto all’inglese. L’Engglishhh, appunto.

Ai traduttori quel che è dei traduttori

Nella prossima edizione del DSC Prize, gli autori divideranno il loro premio con i traduttori. Come riporta in questo articolo il sito The Pioneer, non è la prima volta che accade una cosa del genere, ma è la prima volta per un premio così prestigioso.

Stanno quindi cambiando i tempi? Forse, ma nella seconda e più lunga parte dello stesso articolo si analizza più in dettaglio la situazione del ruolo di questo mestiere, e si ritiene che i passi compiuti non siano molto significativi.

In India, ne avevamo già parlato, tutta la questione assume poi dei connotati particolari, che vanno al di là del linguaggio formale, e in particolare alla resa con l’inglese. Riferimenti culturali, formule tipiche, opportunità o meno di inserire note, sono solo alcune delle questioni in ballo.

L’articolo segnala un’iniziativa del Ministero della Cultura indiano chiamata Indian Literature Abroad, che cerca di tradurre e promuovere la letteratura indiana nelle lingue ufficiali dell’Unesco, che sono inglese, francese, arabo, spagnolo, russo e cinese.

Foto: Greg Walters

Art Studio

La presentazione a Singapore del suo romanzo era in cinese, ma a cena Pway Ngon mi parla in inglese. Una lingua imperfetta, ma sufficiente per raccontarmi di questo suo ultimo romanzo, Art Studio appunto.

C’è molta autobiografia. Ci sono le vite di un gruppo di artisti, seguiti dalla loro giovinezza (gli anni Sessanta) ai giorni nostri. Artisti, ma anche scrittori e giornalisti che Pway Ngon ha visto passare per trent’anni dalla sua libreria, piccola ma prestigiosa: la Grassroots Book Room.

Una libreria che ancora oggi combatte per la sopravvivenza, dentro a un mall (cioè a un edificio a più piani dove sui corridoi e sulle balconate si affacciano negozi di ogni tipo), oramai troppo vecchio: costruito negli anni Settanta, appunto, non in grado di competere con le nuove e magniloquenti architetture contemporanee, con l’esibizione del lusso.

Ma la Grassroots Book Room ha ancora un nome importante, il mall in questione è proprio di fronte alla National Library. Pway Ngon, stufo di passarci la giornata dopo più di trent’anni, la sta affidando in gestione, e finalmente si prenderà più tempo per scrivere.

Scrivere: di sé stesso, direi. È uno di quegli scrittori che della propria esistenza fanno il fulcro della narrazione. Pway Ngon, credo, ha bisogno di farci sapere quel che ha visto attorno a sé, e sa farlo senza indulgere in narcisismi esasperati anche quando si tratta di menzionare i suoi anni di galera, la miseria conseguente a questi, la difficoltà di affermarsi come scrittore.

Quando Pway Ngon mi racconta dei suoi anni giovanili, racconta raramente di sé: dice io, ma solo per introdurmi a ciò che lo circondava.

Qui a cena gli argomenti sono vari. Mi racconta Chennai, in India, dove lui è andato a stare per qualche settimana, per capire l’ambiente di provenienza di uno dei suoi personaggi, indiano di origine. Mi parla di un pittore, e io non riesco a distinguere il personaggio del romanzo dalla persona reale, l’amico che lo ha accompagnato per molti anni.

E poi, inevitabilmente, si torna a parlare della lingua, il cinese in cui scrive. Qui, di nuovo, la questione si fa complessa. Il cinese si basa sugli ideogrammi, ciascuno dei quali è foneticamente una sillaba, ma ha comunque un significato autonomo.

In sostanza: quando un cinese scrive o legge è come se avesse due piani di lettura, ogni parola ne contiene in sé altre due o tre. Quando scrive, invece di cercare una musica, un suono per le proprie parole, cerca una successione di immagini attinenti alla narrazione. Per questo la letteratura cinese è di così difficile traduzione nelle nostre lingue.

Ma da Pway Ngon scopro qualcosa di nuovo. Perché la domanda è: scrivendo al computer, cosa succede? Che tastiera usi? Come fai ad avere a disposizione centinaia di ideogrammi? E la risposta è sorprendente: io scrivo con il vostro alfabeto. Pway Ngon, e così tutti coloro che scrivono direttamente al computer, traslittera automaticamente. Pensa una parola pronunciandola dentro di sé, la scrive su una tastiera qwerty come tutti noi, e un programma fa comparire sulla pagina l’ideogramma corrispondente.

A me sembra un processo faticoso, pazzesco: lui mi dice, mentre scrivo è come se cantassi. Mentre rileggo, come se guardassi un mio dipinto.

Foto: Singapore Writers Festival

Premiazione a Taiwan

Metropoli d’Asia e’ entrata a far parte di un pool di editori asiatici che ha recentemente assegnato un premio a quello che viene considerato il miglior giallo dell’Asia orientale.

Lo abbiamo gia menzionato: si chiama Soji Shimada Mystery Award. Prende il nome da un autore giapponese di culto, una icona del pubblico giovanile, cultore di quelli che qui vengono definiti “gialli a chiave”: quelli in cui c’e’ un mistero, un enigma da risolvere.

Il pool si e costituito attorno a un editore taiwanese, Crown, e vede la partecipazione di editori dalla Cina, Giappone, Corea, Tailandia, Malesia e, appunto, Italia: Metropoli d’Asia pubblichera il romanzo vincitore e ha incarico di rivenderne i diritti in Europa e in alcuni paesi asiatici.

Il vincitore e’ di Hong Kong, si chiama, a seconda dei casi, Chen Haoji, oppure Chan Ho Kei, a seconda che lo si pronunci in mandarino o in cantonese.

Lo incontrerò a Hong Kong nei prossimi giorni, ne parleremo. Intanto possiamo dire che il titolo provvisorio del giallo e’ “Dimenticare. Polizia criminale”. Nella foto ecco Soji Shimada con il nostro Ho Kei, a destra.

Lui è di Hong Kong, dove si parla cinese cantonese, e non mandarino (ma scritto nella versione tradizionale, non in quella semplificata). La questione è… complessa. Sostanzialmente succede questo: il cinese è una lingua unica, ma nel sud della Cina si pronuncia in modo differente che nel resto del paese. I due nomi che ho citato rappresentano appunto, le due pronunce di un nome scritto allo stesso modo.

Naturalmente quando si traslittera nel nostro alfabeto, ecco che spuntano due nomi diversi. Noi scegliamo il secondo. Ce lo ha chiesto Chan Ho Kei, scrivendomi: se preferisci, chiamami Simon.

La forza di Taiwan

Ho enfaticamente intitolato un recente post La guerra (fredda) delle lingue, riferendomi al confronto in atto tra prevalenza dell’inglese e del cinese nella narrativa (e in genere nelle pubblicazioni) di questa parte del continente.

Relativamente al campo della lingua cinese, la piccola Taiwan, che vive gli ultimi anni in uno stato di attesa, ormai preparata a un quasi inevitabile ricongiungimento con la Cina continentale, ha un ruolo di primo piano.

In Cina continentale è stato introdotto decenni fa il cinese semplificato, e cioè una versione della lingua scritta che prevede una drastica riduzione del numero dei caratteri e una loro semplificazione grafica, questo per facilitarne la sua diffusione a livello di massa, e cancellare l’analfabetismo.

Taiwan restò ancorata al cinese tradizionale (o complesso). Lo stesso accadde nelle numerose comunità cinesi dislocate in altri paesi asiatici e non solo (si parla di 140 milioni di cinesi residenti all’estero da generazioni), emigrate (in Asia) come rappresentanti delle classi commerciali, ma in seguito anche come reazione alle trasformazioni in atto in Cina (la rivoluzione anti-imperiale dell’inizio del secolo scorso, e quella comunista nel dopoguerra).

In tutta l’Asia del sud-est si utilizzava il cinese complesso, fino a pochi anni fa, e solo la nuova generazione ha cominciato a adottare il semplificato. Il risultato è che scrittori appartenenti alle grandi comunità cinesi di Singapore, d Hong Kong e della Malesia sopratutto, ma anche alle minoranze cinesi di altri paesi del Sud-est asiatico, non trovando una editoria cinese locale, si rivolgono agli editori di Taiwan, capaci poi a loro volta di distribuire nel Sud-est. Una narrativa della diaspora che dunque si rivolge più verso Taipei che verso Pechino.

Foto: robbed

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