Mio padre è stato l’inizio di tutto. Ogni volta che tornava ubriaco a casa, picchiava mia madre e mia sorella Yŏngsuk, finché un bel giorno l’ho soffocato con un cuscino. Nel frattempo, mia madre gli bloccava il corpo e mia sorella le gambe. Lei aveva appena tredici anni. Il cuscino si è rotto su un lato, e ha cominciato a sputare pula di riso. Mia sorella ha provveduto a rimttere in ordine e mia madre a rammendare il cuscino. Tutto questo quando avevo sedici anni. Era finita da poco la guerra di Corea e la morte di una persona non faceva certo scalpore. Nessuno sembrava turbato dalla storia di un uomo morto a casa propria durante il sonno. Figuratevi che la polizia non si è nemmeno degnata di fare un sopralluogo per verificare l’accaduto. Abbiamo allestito semplicemente una piccola tenda all’ingresso della casa per le visite di condoglianze.
Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
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L’impero delle luci segnalato su Internazionale
In un articolo dedicato alla Corea del Sud e in particolare al quartiere Gwanghuidong di Seul, una sorta di enclave dell’Asia centrale in città, viene segnalato tra i libri per conoscere meglio il paese L’impero delle luci, di Kim Young-ha, pubblicato da Metropoli d’Asia.
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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
Stamattina credo di non aver riconosciuto Ŭnhŭi. Adesso sì, invece. Meno male. Il dottore mi aveva preannunciato che prima o poi anche lei sarebbe scomparsa dai miei ricordi e che avrei conservato solo la sua immagine da piccola. Come posso proteggere una persona di cui ignoro l’esistenza? Ora ho messo la sua foto in un medaglione e lo porto appeso al collo. «Non servirà a granché», ha commentato il medico. «A scomparire per primi saranno proprio i ricordi a lei più vicini».
«Ti prego, risparmia almeno mia figlia», mi aveva supplicato in lacrime la madre di Ŭnhŭi. «Va bene», le avevo risposto. «Sarai accontentata». E come vedete finora non sono venuto meno al mio impegno. Detesto le persone che fanno promesse al vento, e per questo cerco di rispettare le mie. Il problema è che ora non posso più garantire nulla per il futuro. Lo scrivo qui di nuovo perché non mi passi mai di mente. Non posso assolutamente permettere che Ŭnhŭi venga assassinata.
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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha
Quella partita si stava svolgendo in una vecchia osteria, infognata nel vicolo di un minimarket aperto tutta la notte, di fronte alla stazione di Sadang. In una delle sue salette, K stava pescando alcune carte di hwat’u: ciliegio e lespedeza. In totale erano sette kkŭt. Scrutò le espressioni degli altri. Uno dei giocatori abbandonò la partita, mentre gli altri si misero a puntare banconote da mille won.
«Passo».
K gettò sul tavolo le sue carte. Aveva un punteggio troppo basso per proseguire. Gli sguardi delle persone si muovevano freneticamente. I muscoli degli occhi del signor Yi, tassista dei trasporti Sŏngbo, si contrassero: era più che evidente che gli era capitata una mano niente male. Rilanciò di diecimila won. Il tassista Kim, dei trasporti Kyŏnggi, decise di continuare, mentre tutti gli altri si ritirarono. Il signor Yi scoprì le sue carte. Con un kabo si aggiudicò la partita. Kim aveva appena cinque kkŭt, forse aveva voluto vedere solo perché era convinto che l’avversario stesse bluffando.
«Oggi la fortuna non gira proprio!», esclamò alzandosi di scatto. «Io salto una partita ma torno subito, quindi non azzardatevi a muovervi da qui».
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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
Chiusa in bagno, Chang Mari sentì la voglia improvvisa di ridurre in brandelli il suo gesso e di strapparsi a unghiate la carne del braccio fino a farlo sanguinare. Un attimo dopo però si convinse che quel tipo di comportamento non si confaceva a una donna adulta come lei, e quindi desistette dal suo intento. Si spruzzò sull’abito un po’ di deodorante e l’odore di mentolo si mischiò a quello di ammoniaca. Aprì la finestra. Il davanzale era cosparso di cenere caduta dalle sigarette consumate da alcune dipendenti: apparentemente erano in tre a fumare in quel bagno, tre impiegate di tre aziende diverse che si incontravano lì a spettegolare tra un tiro e l’altro, come vecchie comari.
Si lavò le mani con il sapone e tornò a sedersi alla scrivania. Il capo era scomparso dalla circolazione. Incapace di fare alcun pronostico su quella giornata, si limitò ad augurarsi di riuscire almeno a vendere un’auto al cliente che avrebbe dovuto incontrare di lì a poco. Diede uno sguardo al suo taccuino per verificare se le sfuggiva qualche altro impegno e, scorrendo gli appunti sul calendario, le tornò in mente che due giorni dopo sarebbe ricorso l’anniversario della morte del padre. Provò un leggero senso di colpa nell’accorgersi di essersi dimenticata di quella data a soli due anni dal funerale.
Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
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Da Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu
Fra gli alberi allineati comparve l’insegna luminosa del Santorini. Una luce solitaria e desolata, simile a una galassia sul punto di spegnersi.
«Pensavo che non sarebbe venuto», disse lei con la voce fioca e la testa china come un pupazzo di neve sul punto di essere deformato dal peso dei fiocchi.
Una stranezza di quel momento.
«Mi sei mancata tanto».
Quelle parole risuonarono nel mio cuore come un’allucinazione uditiva. Non le pronunciai ad alta voce. Mi limitai a rallentare per qualche istante il passo per spazzar via delicatamente la neve dai suoi capelli e dalla sua sciarpa. Nonostante la sua timidezza, lei mi imitò. Ci guardammo, come due pupazzi di neve che, posti uno di fronte all’altro, cercano di tranquillizzarsi. Senza dire una parola, l’abbracciai. Tutto ciò, seppur irragionevole, era alquanto prevedibile. Restammo così sotto la neve, sebbene lei fosse gelida come una principessa defunta. Una banderuola a forma di gallo posta sulla cima di un palo di ferro cigolò ruotando verso di noi. Su uno steccato dalla pittura scrostata era appesa una decorazione a tema natalizio le cui lampadine si accendevano a intermittenza come lucciole, sostituendo il cartello chiusura provvisoria affisso lì un mese prima. E quelle lucciole scintillanti furono per noi una benedizione.
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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
La madre di Ŭnhŭi è stata la mia ultima preda. Mentre stavo tornando a casa, dopo averla seppellita, la mia auto si è schiantata contro un albero e si è capovolta. La polizia ha attribuito la causa a un eccesso di velocità che mi ha fatto sbandare in curva. Sono stato operato due volte al cervello. All’inizio pensavo fosse l’effetto dei farmaci. Ero sdraiato sul letto dell’ospedale e mi sentivo infinitamente rilassato. Strano. Prima mi bastava sentire il chiacchiericcio degli altri perché mi saltassero i nervi. Il suono di persone che ordinavano da mangiare, di bambini che ridevano, di donne che spettegolavano. Odiavo tutto. E poi all’improvviso ho avvertito un senso di pace. Ho sempre pensato di avere un animo irrequieto. E invece mi sbagliavo. Come una persona che perde di colpo l’udito, sono stato costretto ad abituarmi a quel silenzio e a quella nuova tranquillità. Non so se per colpa dell’incidente o del bisturi del medico, ma dentro il mio cervello era successo certamente qualcosa.
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Segnalazioni per Pavana per una principessa defunta
Le recensioni e le segnalazioni ricevute finora da Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu, pubblicato da Metropoli d’Asia. Il post è in aggiornamento.
L’Indice dei Libri del Mese (settembre 2017)
Internazionale (marzo 2017)
Chicchi di pensieri (aprile 2017)
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Pavana per una principessa defunta su L’Indice dei Libri del Mese
Il libro di Park-min gyu Pavana per una principessa defunta, recentemente pubblicato da Metropoli d’Asia, è stato recensito su L’Indice dei Libri del Mese. Viene ricordato come sia uno dei pochi testi coreani tradotti in italiano, per poi passare a un’attenta analisi della trama e dello stile narrativo, con anche qualche annotazione sulla traduzione a opera di Benedetta Merlini.
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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha
«Allora, in quale zona di Suwŏn siete diretti?»
«Mi porti a P’ajang-dong».
«Lei dove va, invece?»
«Uscita sud».
«Mi scusi, ma deve dirmi la destinazione precisa».
«Mi lasci pure all’uscita».
La puzza di alcol impregnava l’interno del taxi. Il tutto era accompagnato dal forte brusio del riscaldamento acceso al massimo per contrastare i dieci gradi sotto zero dell’esterno. Nell’abitacolo, dove vampate di calore secco e denso si mescolavano al fiato dei passeggeri, il tasso di umidità era ancora tollerabile. Dopo aver inalato una bella boccata d’aria, K tirò la cintura e se l’allacciò. Ora che le era legato, K si sentì più in sintonia con la sua Stella TX 94. Con la marcia in folle, premette leggermente l’acceleratore e il motore girò a vuoto, producendo morbide scosse che si trasmisero a tutto il suo corpo. Il tachimetro raggiunse con disinvoltura i quattromila giri al minuto. Dopo aver lanciato un’occhiata allo specchietto retrovisore sulla sinistra, K ruotò il volante, inserì la prima e partì. Lo scatto improvviso della macchina fece sobbalzare i passeggeri che, risvegliati da uno stato di catalessi, si guardarono intorno.
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