Lei era lì, in piedi sotto la neve.
Il primo giorno di neve… e io compivo vent’anni. Ricordo la lunga, triste distesa di risaie vuote, qualche albero sparso… la penombra oltre il finestrino e il pullman che sfrecciava verso la periferia. Percorremmo chilometri senza scorgere anima viva. Lei… ci sarà? Dubitai fino all’ultimo. Il pullman rallentò. Una radio gracchiava, ma io riuscii a distinguere Auld Lang Syne suonata da un’armonica. Forse… ci sarà, pensavo con la fronte appoggiata al vetro gelido. A poco a poco l’oscurità prevalse sul crepuscolo e avvolse il pullman, che si fermò qualche decina di metri più avanti, come per inerzia. Lei era lì, sotto la neve, all’ombra di un cartello inclinato che sembrava uno spaventapasseri con un braccio rotto.
Avevo appena posato i piedi a terra che il pullman ripartì, e mentre cercavo di ritrovare l’equilibrio, ebbi l’impressione che la terra stesse cedendo. Non si trattava di un’illusione: la terra continuava a girare anche nell’oscurità… Lei c’era. Eccoci lì, uno di fronte all’altra… inevitabilmente, come la Luna che segue la sua orbita malgrado i nostri occhi non ne percepiscano il movimento.
Da Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu
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Un estratto di Scrittori dalle metropoli su Doppiozero
Su Doppiozero si può leggere un estratto da Scrittori dalle metropoli, l’ultimo libro di Andrea Berrini da poco pubblicato da Iacobelli Editore.
Zhu Wen: stralci da un’intervista. Parole sue in viva voce, in quell’inglese approssimativo. Traducendole in italiano fatico a riprodurre un’intonazione, la cantilena personale. Vengono frasi un po’ afone: ma tant’è.
Casa sua è Nanchino, la sua giovinezza nella seconda metà dei dorati anni ottanta promessa di riforme, di maggiore libertà, di vento nuovo. Finita e archiviata la Rivoluzione Culturale, riabilitate molte tra le vittime.
Niente studi letterari: la famiglia gli impone la facoltà di ingegneria per irreggimentarlo. Fin da bambino, dice, “ero pieno di talento e quindi considerato una testa calda: attenti, dicevano gli insegnanti ai miei genitori. Sa pensare con la sua testa”. Sa usare le parole, sa esprimersi, è il migliore quando scrive articoli per il giornale della scuola. Me lo racconta Zhu Wen, tutto questo: è la sua versione.
Si è seduto tranquillo, abbandonato sullo schienale. Nessun nervosismo, nessuna urgenza di sottolineare passaggi importanti. Racconta, e chissà quante volte già gli hanno chiesto di raccontare se stesso. Ho letto alcune interviste, oggi mi sembra – o è una mia speranza – che ripercorra le proprie tappe con più libertà, come se stesse parlando di un altro. Lo aiuta il tono strafottente, sempre: liumang. Con me se lo può permettere, lo sa.
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Da dollari la mia passione, di Zhu Wen
Ci scappa da ridere, poi riprendiamo a camminare, però sempre in silenzio. Quando siamo quasi al cavalcavia, ci si avvicinano delle donne vestite con i costumi tradizionali della minoranza Miao, che vogliono venderci degli oggetti d’argento. Tutti sanno che sono delle imbroglione, ma con quei vestiti tanto belli e originali si fanno perdonare tutto. Mio padre le scruta da capo a piedi, studiando nel dettaglio costumi e finiture, ma non guarda le collane e i braccialetti d’argento che gli propongono. Io, invece, non resisto alla tentazione e compro una collana. Costa solo due yuan, e anche se è sicuramente falsa è comunque bellissima, più bella di quelle vere. Mio padre se l’attorciglia alla mano rimirandola: è proprio carina, conclude, comprane un’altra. So che vuole portare un regalo a mia sorella, così con due soli yuan se la cava. Mia sorella frequenta ancora le superiori e a scuola non va tanto bene, perché è un tipetto sberluccicante, un po’ come questa collana.
Da Dollari la mia passione, di Zhu Wen
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Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry
«Vent’anni ho lavorato, in un ufficio postale a vendere francobolli. A vedermi non si direbbe, ma sono una donna che ha studiato. Ho superato gli esami di maturità. Ero l’unica impiegata donna dell’ufficio. La posta all’incrocio con Balaram Street, hai presente? Tutto per riuscire a mandarlo in una buona scuola. Quando sono andata in pensione, i colleghi mi hanno regalato una sveglia. Ci crederesti? Una sveglia! Una donna anziana, stanca morta, che passa tutta la notte a rigirarsi nel letto… e le regalano una sveglia. Prendi nota, non dico tanto per dire: c’entra con la tua indagine! La sveglia era una HES. Ha smesso di funzionare nel giro di tre mesi. Non sono riuscita a ricavarci altro che cinque rupie…». Fece una pausa per riprendere fiato. Poi di colpo: «Va bene, per oggi ho parlato abbastanza. Altre domande?».
Ce ne sarebbero state diverse, in effetti. Ma quando Jingo sbirciò il suo elenco, gli ballarono davanti agli occhi annebbiati in una foschia di totale irrilevanza.
«Ahiai». La donna rabbrividì. «Quest’umidità mi fa dolere tutte le ossa. Nelle notti che piove forte, le signore dell’albergo qui sotto s’impietosiscono e mi danno una trapunta vecchia e un angolino dove dormire. Certo, proprio signore non sono, te lo dico io». Abbassò la voce fino a un sussurro. «Ma non sei un bambino, certe cose le sai. Di notte vanno a trovarle degli ubriachi. Se io sono lì a dormire mi prendono in giro, fanno battute su di me. Una vergogna. Ma li ignoro. Che altro posso fare?
Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry
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Da Le donne di Saman, di Ayu Utami
Rosano fissava Sihar con uno sguardo tagliente, provando a fare appello al suo self-control. «D’accordo!», disse, dopo aver respirato profondamente: «Cancellerò il tuo nome dal contratto. Farò rapporto alla Seismoclypse come da tua stessa richiesta». Si girò verso Iman che stava lì a bocca aperta tra loro due e lo indicò. «Adesso sei tu il responsabile qui. Fai partire quel dispositivo, altrimenti la Seismoclypse sarà costretta a pagare i danni».
Sihar allora cominciò a tremare leggermente e ad ansimare stringendo i denti per la rabbia. Guardò in faccia il suo apprendista che era rimasto di stucco. Il giovane era senza parole a causa delle grosse responsabilità che tutto a un tratto gli erano state affidate. Con gli occhi chiedeva la grazia al suo supervisore. Sihar non se la sentiva di gravare il suo assistente di un incarico così pesante. Laila lo sentì parlare ancora, in un tono più calmo, come se stesse tentando una marcia indietro: «Dammi pochi minuti per telefonare all’ufficio centrale».
«No,» Rosano afferrò la cornetta del telefono. «Sei licenziato. Non hai più il diritto di dare ordini. Potrai ancora mangiare e dormire nell’impianto se vorrai, fino a quando l’elicottero arriverà qui domani mattina. Se non vuoi, resta pure a digiuno». Rosano si girò ancora una volta verso Iman con un’espressione da comandante militare. «Fai partire quel dispositivo!»
«Tu sei pazzo, Ciano!»
Sihar corse via in cerca di un altro telefono.
Da Le donne di Saman, di Ayu Utami
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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra
Mi trasferii al pensionato la sera dopo. Le giornate erano più o meno le stesse, all’inizio; bighellonavo nel campus dove non avevo più alcun ruolo ufficiale, e ritornavo solo quando la noia prendeva il sopravvento.
Ma ben presto la routine cambiò, lentamente ma inesorabilmente. Anche Shishir, che era stato invitato a stare al pensionato molto prima di me, si era trasferito la stessa sera, e condividevamo una stanza al primo piano, spaziosa e piuttosto confortevole, che dava sulla strada principale. Con il passare del tempo, il 72 di Banamali Nashkar Lane mi appariva sempre più avvolgente, con ombre che offrivano uno strano sollievo e voci che davano una sensazione di sicurezza. A quanto pareva, dopo anni e anni, avevo trovato un posto dove riuscivo a passare il tempo senza tamburellare le dita sul tavolo aspettando impaziente che arrivasse il sonno.
Fu più o meno allora che vidi per la prima volta Uma.
La casa in cui abitava era visibile soltanto dalla finestrella del bagno. Era un edificio più affidabile, più moderno di quello da cui stavo sbirciando. La finestra da cui la luce delle stelle, della luna e del sole entrava a sprazzi nella nostra casa era sul lato, e il fogliame impediva la visuale sul davanti.
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Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan
Nel suo infinito tempo libero, dato che non aveva mai avuto un vero lavoro dopo aver smesso di vendere i suoi quadri, giocava a scacchi con il Maggiore Sadrah, sponsorizzava la squadra di calcio della città e correva dietro alle ragazze. Svolgeva quest’ultima attività con più passione di quanta ne riservasse alla pittura: abbordava le ragazze e se le portava a letto, ma se la spassava anche con le vedove e le mogli compiacenti di altri uomini. Non era un segreto, perché i segreti non restavano a lungo nelle orecchie degli abitanti di quella città. Ciò nonostante, l’impressione di immoralità che dava non aveva mai eclissato il rispetto che la gente aveva per lui, e in ogni riunione gli permettevano di tenere lunghi discorsi che lo facevano risultare immancabilmente un abile oratore. Era affascinante, e per questa ragione gli altri lo perdonavano, inoltre bisogna considerare che anche la maggior parte dei suoi amici non si comportava in modo irreprensibile.
Quel mattino nessuno si era accorto che la Morte si era già posata sulla sua spalla. Era una persona che non appariva mai triste, come se il giorno della sua morte non fosse stato stabilito. Era andato a fare colazione alla bancarella di frittelle, come al solito, e aveva scherzato con le ragazzine in uniforme scolastica. Chiunque fosse passato lì vicino aveva potuto sentire le battute spiritose che uscivano dalla sua bocca piena di tempeh e frittelle. Anwar Sadat si era seduto sulla panchina davanti al fornello acceso, mentre il venditore versava la pastella nella piastra sul fuoco e faceva saltare ripetutamente il tempeh fritto nel wok pieno di olio bollente, poi si era alzato e si era messo a pizzicare il mento alle ragazzine finché non avevano protestato per quell’atteggiamento lascivo e si erano scostate per evitare che all’improvviso si sporgesse a baciar loro le guance.
Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan
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Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
Tre mesi prima c’era stato il matrimonio della figlia di Lao Huang, quello che vendeva i colli di maiale. Non trattava soltanto capocollo ma anche cuore, polmoni, budella e frattaglie d’ogni tipo. Gli altri banchi vendevano principalmente carne, il resto solo se capitava, mentre da Lao Huang c’erano solo collo e interiora, ragion per cui i suoi prezzi erano più bassi. Liu Yuejin comprava sempre da lui e, a lungo andare, erano diventati amici. Quando Liu Yuejin faceva scivolare di straforo nel carretto qualche pezzo di budello, Lao Huang non diceva niente. A volte, dopo aver comprato, si sedeva a chiacchierare e Lao Huang lo stava a sentire. Quando la figlia si era sposata, Liu Yuejin aveva partecipato al regalo e ora era seduto al banchetto di nozze. C’erano cibo e bevande, lui non aveva mangiato granché ma si era scolato un bel po’ di vino. Vicino a lui c’era la moglie di Wu Laosan, quello che vendeva i colli di gallina. Liu Yuejin li prendeva sempre da lui. Come Lao Huang, Wu Laosan non vendeva il resto del pollo, solo colli e carcasse. Quando andava al suo banco, Liu Yuejin scherzava spesso con sua moglie. Wu Laosan e la sua signora venivano entrambi dal Nord-Est, e le donne di quelle parti sono famose per avere un seno abbondante.
Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
Sono tutti convinti che Ŭnhŭi sia mia nipote. Rimangono a bocca aperta quando scoprono che in realtà è mia figlia. Come dar loro torto! Io ho settant’anni e lei, invece, appena ventotto. Ovviamente la prima che si è incuriosita di questa anomalia è stata proprio la diretta interessata: Ŭnhŭi. Quando aveva sedici anni a scuola le hanno insegnato cosa fosse il sangue. Il mio, di tipo AB, è incompatibile con il suo, di gruppo 0. Quando mi ha chiesto spiegazioni, io, come tendo a fare di solito, mi sono limitato a dirle la verità: l’ho adottata.
Da quel momento mi è sembrato che la nostra relazione abbia subito uno strappo. Lei mi è parsa impacciata, come se non sapesse più come rapportarsi con me, e questa distanza tra noi non si è più colmata. È come se, a partire da quel giorno, l’affetto che ci univa si fosse completamente smaterializzato.
Avete mai sentito parlare della sindrome di Capgras? Ebbene, si tratta di una malattia che influenza l’area cerebrale che controlla le emozioni. Chi ne è colpito riconosce i propri familiari ma non è in grado di provare affetto nei loro confronti. Per esempio, un marito comincia a sospettare della moglie; riconosce le sue fattezze, ma la considera un’estranea. Chi è colpito da questa sindrome si convince che le persone che ha intorno siano tutte sosia dei suoi familiari e che lo vogliano truffare. Beh, per farla breve, a partire da quel giorno Ŭnhŭi ha cominciato a vivere con distacco quel piccolo mondo che ci avvolgeva, quella famiglia composta solo da me e lei. Ciò nonostante, abbiamo continuato a vivere sotto lo stesso tetto.
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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
Un altro mese affonda nella sabbia che orla la Manica. La routine degli incontri con il suo assistente sociale Brandon frustra Jian. La conversazione si muove attraverso una densa melassa di accenti. Niente sembra poterla tagliare.
Brandon conciliante, con la sua inflessione di Glasgow:
«Devi avere pazienza, Jian! La tua richiesta non può essere valutata in un giorno. Dobbiamo aspettare il procedimento ufficiale…».
Jian disperato con il suo accento cinese:
«Avere pazienza non mi farà avere l’attenzione dei funzionari dell’immigrazione, e nemmeno il loro rispetto!».
«Ma perché?»
Finalmente Jian capisce cosa Brandon sta cercando di dirgli: da quando gli è scaduto il visto, finché non lo classificano come rifugiato politico non ha uno status. È una “non-persona”. Una “non-persona”? «Non appartieni a nessun Paese; non sei cittadino di nessun luogo», gli ha spiegato il funzionario dell’immigrazione.
Non-persona, pensa. È talmente assurdo che gli sembra quasi cinese.
Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
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