Sull’ultimo numero del settimanale Internazionale, L’atelier, di Yeng Pway Ngon, è stato inserito tra i libri consigliati.
L’atelier citato da Internazionale
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4624
Un’anteprima di L’Atelier su China Files
China Files pubblica un estratto da L’Atelier, di Yeng Pway Ngon, il nuovo libro appena uscito per Metropoli d’Asia.
Il furgoncino correva spedito sulla strada, Hanguang sedeva accanto al guidatore; di tanto in tanto si scambiavano qualche frase mentre Jianxiong, seduto dietro, osservava in silenzio il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa sottosopra che andava su e giù come i bracci sovraccarichi di una bilancia. Dopo che era rimasto per tre anni in un kampung malese ad allevare polli e fare dolcetti senza ricevere mai alcuna notizia, l’organizzazione gli aveva finalmente permesso di unirsi alla guerriglia.
Durante il primo anno Jianxiong trovava la sua situazione assurda e anche molto deprimente; aveva lasciato famiglia e fidanzata e affrontato i pericoli della clandestinità per allevare polli? Hanguang percepiva la rabbia e l’abbattimento di Jianxiong, gli diceva di avere pazienza, che i capi dovevano metterlo alla prova prima di assegnargli dei compiti. E come facevano per metterlo alla prova? Attraverso Hanguang? Era molto confuso.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4609
Yeng Pway Ngon vince il SEA Award 2013
Il 14 ottobre l’autore singaporeano Yeng Pway Ngon riceverà uno dei South East Asian Writers Awards a Bangkok, sede dell’evento. Di lui Metropoli d’Asia manderà in libreria a breve L’Atelier, il suo romanzo più recente, citato da Asia Weekly di Hong Kong tra ‘i migliori dieci romanzi in lingua cinese dell’anno. Ecco una sua intervista precedente su YouTube.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4521
Poesie di Yeng Pway Ngon
Su Cha viene presentata la traduzione in inglese di cinque raccolte di poesie di Yeng Pway Ngon, lungo un periodo che parte dai suoi esordi negli anni ’60. Nelle varie opere ci sono osservazioni sulla scena artistica e sulla società cinese, nonché su quella di Singapore, da dove l’autore proviene. Il suo libro Art Studio uscirà a settembre in italiano con Metropoli d’Asia, con il titolo L’atelier.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4323
Art Studio di nuovo premiato
Art Studio di Yeng Pway Ngon, che uscirà con Metropoli d’Asia all’inizio del prossimo anno, ha vinto la sezione cinese del Singapore Literature Prize 2012.
Da qui, ingrandendo l’immagine, si può vedere l’elenco dei premiati di questa edizione.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=3376
Art Studio premiato, aspettando la versione italiana
La rivista Asia Weekly di Hong Kong ha inserito Art Studio, del singaporeano Yeng Pway Ngon, tra i migliori dieci romanzi in cinese del 2011. Il libro uscirà a inizio 2013 con Metropoli d’Asia, che ne detiene i diritti mondiali. Qui sotto un ritaglio dallo Straits Times, giornale di Singapore che parla del libro.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=2039
Ballard a Singapore
Altro che esangui esistenze, come avevo intitolato un mio post due mesi fa. Singapore è il futuro.
Singapore, città stato di cinque milioni di abitanti, highways, grattacieli e quartieri residenziali, parchi giochi e casinò, acque, fuochi d’artificio, cielo sempre in movimento e stagioni immutabili, una eterna estate piovosa che non lascia traccia del suo passare.
Il giorno prima di partire ho incontrato il mio amico editore Fong Hoe Fang in un coffee-shop a Paya Lebar, sotto a un ufficio postale cilindrico contornato da ascensori a vista che salgono e scendono come navette spaziali.
Seduti al tavolino all’aperto, dopo la pioggia (e quindi con una luce molto favorevole, devo ammettere) io lo ascoltavo parlarmi dei suoi poeti e del progetto di portare la poesia contemporanea nelle scuole, su uno sfondo da cartoon: la stazione sopraelevata del metrò, il binario sopra i piloni, i treni in arrivo o in allontanamento davanti a una infilata di palazzi tutti uguali ma di colori diversi.
Il tutto circondato da altissime acacie a loro volta ricoperte di rampicanti. Pensavo, cos’è? Cos’è che mi attira di questo luogo per alcuni asfittico, per altri opprimente, e per molti semplicemente l’unica esistenza possibile al di là dell’emigrazione. E finalmente mi è venuto in mente Ballard.
J.G. Ballard, scrittore di fantascienze sociali che rappresentano qui un presente di ceto medio diffuso, tutto uguale, tutto egualmente percorso dalla paura di non farcela, di restarne tagliati fuori (per esempio: Condominium, Cocaine Nights, Super-Cannes). La piccola borghesia (cosmica), se ancora ha un senso questo termine in un mondo che come dice giustamente qualcuno, rischia di non avere altro all’infuori di sé.
Interrogato sul futuro Ballard rispondeva: questo è il mio timore, che il futuro sia un vasto e vuoto quartiere residenziale dell’anima. Ed eccolo qua: Singapore. Singapore che io proprio per questo adoro, perché è PURO, un esperimento sociale senza interferenze, senza vie di fuga per lo sguardo, senza possibilità di fraintenderlo, di disconoscere la nostra società e le nostre esistenze (esangui) per quel che sono.
A Ballard chiedevano: come è possibile che proprio tu, il cantore della violenza sottesa, dell’inespresso, del banale orrore quotidiano connaturato a questa condizione sociale, poi ti sia rintanato a vivere, appunto , in un banalissimo quartiere suburbano, residenziale, di una media cittadina inglese? E lui rispondeva: perché è qui che si gioca la partita. Questo è il luogo della lotta, dove questa gente si scontra giorno dopo giorno. È qui che lo si vede senza filtri.
Sono d’accordo: è un iniezione di verità, di solido terreno reale su cui poggiare i piedi. Singapore lista grigia, dove ancora fanno tappa alcuni tra i peggio capitali del globo. Singapore dove ciascuno ne ha una sua fettina, Singapore che teme e confina gli immigrati (più del 10% dei residenti) che fa lavorare nei suoi cantieri, lungo le nuove strade pagate dalla congestion charge. Leggete Carver, amici miei poeti di Singapore, leggete Cheever: quando, qui, un grande romanzo sul millennio suburbano?
Foto: hkfuey97
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1651
Art Studio
La presentazione a Singapore del suo romanzo era in cinese, ma a cena Pway Ngon mi parla in inglese. Una lingua imperfetta, ma sufficiente per raccontarmi di questo suo ultimo romanzo, Art Studio appunto.
C’è molta autobiografia. Ci sono le vite di un gruppo di artisti, seguiti dalla loro giovinezza (gli anni Sessanta) ai giorni nostri. Artisti, ma anche scrittori e giornalisti che Pway Ngon ha visto passare per trent’anni dalla sua libreria, piccola ma prestigiosa: la Grassroots Book Room.
Una libreria che ancora oggi combatte per la sopravvivenza, dentro a un mall (cioè a un edificio a più piani dove sui corridoi e sulle balconate si affacciano negozi di ogni tipo), oramai troppo vecchio: costruito negli anni Settanta, appunto, non in grado di competere con le nuove e magniloquenti architetture contemporanee, con l’esibizione del lusso.
Ma la Grassroots Book Room ha ancora un nome importante, il mall in questione è proprio di fronte alla National Library. Pway Ngon, stufo di passarci la giornata dopo più di trent’anni, la sta affidando in gestione, e finalmente si prenderà più tempo per scrivere.
Scrivere: di sé stesso, direi. È uno di quegli scrittori che della propria esistenza fanno il fulcro della narrazione. Pway Ngon, credo, ha bisogno di farci sapere quel che ha visto attorno a sé, e sa farlo senza indulgere in narcisismi esasperati anche quando si tratta di menzionare i suoi anni di galera, la miseria conseguente a questi, la difficoltà di affermarsi come scrittore.
Quando Pway Ngon mi racconta dei suoi anni giovanili, racconta raramente di sé: dice io, ma solo per introdurmi a ciò che lo circondava.
Qui a cena gli argomenti sono vari. Mi racconta Chennai, in India, dove lui è andato a stare per qualche settimana, per capire l’ambiente di provenienza di uno dei suoi personaggi, indiano di origine. Mi parla di un pittore, e io non riesco a distinguere il personaggio del romanzo dalla persona reale, l’amico che lo ha accompagnato per molti anni.
E poi, inevitabilmente, si torna a parlare della lingua, il cinese in cui scrive. Qui, di nuovo, la questione si fa complessa. Il cinese si basa sugli ideogrammi, ciascuno dei quali è foneticamente una sillaba, ma ha comunque un significato autonomo.
In sostanza: quando un cinese scrive o legge è come se avesse due piani di lettura, ogni parola ne contiene in sé altre due o tre. Quando scrive, invece di cercare una musica, un suono per le proprie parole, cerca una successione di immagini attinenti alla narrazione. Per questo la letteratura cinese è di così difficile traduzione nelle nostre lingue.
Ma da Pway Ngon scopro qualcosa di nuovo. Perché la domanda è: scrivendo al computer, cosa succede? Che tastiera usi? Come fai ad avere a disposizione centinaia di ideogrammi? E la risposta è sorprendente: io scrivo con il vostro alfabeto. Pway Ngon, e così tutti coloro che scrivono direttamente al computer, traslittera automaticamente. Pensa una parola pronunciandola dentro di sé, la scrive su una tastiera qwerty come tutti noi, e un programma fa comparire sulla pagina l’ideogramma corrispondente.
A me sembra un processo faticoso, pazzesco: lui mi dice, mentre scrivo è come se cantassi. Mentre rileggo, come se guardassi un mio dipinto.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1612
Il segno di Troy
Ho raccontato, nel post precedente a questo, la mia impressione, una volta terminata la lettura del suo Resident Tourist, di ritrovarmi dentro alle sue tavole.
Come quando si guardava il Blob dei bei tempi su Rai3, e poi ogni trasmissione ti pareva finta, un Blob di sé stessa, perché ne veniva fuori la comicità involontaria, la fiera delle assurdità.
Ma Singapore perché rende questa impressione, da fumetto? Troy Chin ha un segno nitido, quasi geometrico, iperrealistico ma allo stesso tempo virato sulla leggerezza.
Allora mi sono chiesto: forse perché così è Singapore? Una città semplificata, una città giocattolo? È noto come le forme del design contemporaneo vadano d’abbrivio verso un segno infantile (mi vengono in mente le nuove Mini, o le 500, che sembrano la replica dei modelli originali ad opera dei disegnatori di Topolino, con tutte quelle belle curve e i fanaloni; o tanti oggetti d’uso quotidiano che sembrano prodotti dalla Chicco, senza spigoli perché non si faccian male i bambini).
Troy non compie questa deriva (né le architetture di Singapore lo fanno), ma aggiusta il tiro comunque su un segno giocattolo che è ESATTAMENTE quello sui cui si innestano le architetture di Singapore: grattacieli sulle cui forme ci si interroga invano (il famoso Marina The Sands si compone di tre torri oblique, ondeggianti come belle signore, sulla cima delle quali si posa una specie di barca!), una altissima ruota panoramica da luna park, un peraltro bellissimo teatro e sala da concerti che assomiglia a un porcospino (qui lo chiamano il Durian, un frutto locale), i grattacieli di vetro sotto ai quali, orizzontale, la mole di un ex ufficio postale coloniale sembra rifatto dagli architetti di Disneyland.
Insomma, la bravura di Troy Chin è quella di far muovere le esistenze giocattolo dei suoi personaggi (scuola, università, ufficio, matrimonio, centro commerciale, e il tutto disperatamente, e senza pensiero critico) dentro a questo segno giocattolo.
Segno che si è inventato da solo, da completo autodidatta, disegnando cinque libri l’ultimo dei quali, il quinto, gli fa venir voglia di ridisegnare i primi due. Bravo Troy.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1581
Troy Chin, turista residente
Trovare il modo giusto per descrivere questo artista non è semplice. Vorrei evitare di andare per frasi fatte.
Sul palco del Singapore Writers Festival era a confronto con altri due graphic novelists locali. Gli altri sorridevano soddisfatti, lui aveva l’aria più incazzata che mai.
Al centro della sua produzione artistica (cinque volumi intitolati The Resident Tourist, la storia di un sé stesso ritornato a Singapore a trent’anni, dopo un decennio a New York) sta una sensazione di perdita e di rancore: la Singapore della sua giovinezza non c’è più, i suoi amici di un tempo (erano compagni di scuola ma anche una rock band) li ritrova sfiniti dietro a un sogno o un progetto di vita che prevede unicamente – a dir lui – soldi soldi soldi. La carriera, la famiglia, ogni genere di consumo concesso.
Non c’era niente di cos’ straordinario, in questo suo dire: il rischio delle frasi fatte e del luogo comune lui lo corre tutto. Neppure è una novità trovare anche in lui quel po’ di narcisismo che, non appena gli viene messo tra le mani un microfono, lo illumina dall’interno, lo aiuta a pronunciare frasi argute da uditorio.
Ma se il Troy Chin protagonista del Tourist è davvero lo stesso Troy Chin che ho davanti io adesso (il banco del bar, per me una Guinness per lui un tè al limone perché, dice , alle otto va a correre tutte le sere: la disciplina dello scrittore), c’è molto di vero nell’incazzatura che esibisce.
Come ogni scrittore, se lo conduco su un piano di conversazione piatto, lui esibisce luoghi comuni che anche noi ci raccontiamo spesso nella nostra Italietta, le relazioni tra le persone che non sono più le stesse, la scomparsa dei luoghi di incontro, l’eterno telefonino o mail o Facebook, tutti in carriera insoddisfatti e consumatori.
Ma se lo imbroglio un po’, se lo conduco a parlar d’altro più semplicemente (che so, sua nonna, o gli autobus di Singapore) senza chiedergli dichiarazioni programmatiche, vien fuori una persona incazzata sinceramente, se pur con garbo.
Nel Resident Tourist, non a caso, tutto acquisisce spessore. A cominciare dagli occhi del protagonista Troy, rivestiti di un paio di occhiali dalle lenti CIECHE: cioè, lui è l’unico di cui non si vedono gli occhi.
Per continuare con la compassione con cui ascolta tante storie di delusioni e sfighe da parte dei suoi amici, e dalla misura con la quale si incazza con loro. O con una ragazza, Mint (ma questa è la storia che convince meno, come se ci fosse da parte dell’autore la necessità di raccontarsela, più che raccontarla).
Io, qui seduto al bar, cerco di andar di sguincio, di non farlo parlare di queste sue vere e proprie ossessioni. Per il passato, il presente e il futuro. Il passato che in questa storia in cinque volumi, scritta e disegnata in poco meno di tre anni, compare come passato distante (i dieci anni a New York, il fallimento di un aspirante musicista che si ritrova dietro una scrivania negli uffici di un produttore rock), o come passato presente (l’infanzia e la scuola superiore a Singapore, con i suoi luoghi e le sue relazioni).
E il futuro del suo progetto attuale: una striscia quotidiana, LOTI, su un gruppo di bambini e il loro cane volante, e c’è chi lo vede e chi invece non ci riesce: un modo – spiega lui all’uditorio – di ricordare come era più semplice essere bambini ai suoi tempi, quanto più gioco e immaginazione: come un monito, dice, ai genitori di oggi.
E sicuramente una voglia di futuro: lo confessa il personaggio Troy Chin alla sua Mint, in cima al Flyer di Singapore, la ruota panoramica più alta del mondo, dove lei gli dice, papale papale: tu non hai un lavoro, Troy, che futuro vuoi costruire con me? Perché così è: quando Troy tornò a Singapore non aveva in mente altro se non raccontare quel che ritrovava e quel che avrebbe voluto ritrovare.
Scrive le sue tavole, il personaggio Troy Chin del Tourist, e così fece l’omonimo artista, sentendosi dire da ciascuno: perché tu non lavori? Chi sei, se non lavori? E lui si incazza, ma scrive, disegna (senza che mai l’abbia saputo fare: e si vede la differenza tra il segno del primo volume e quello del quinto). Si è autopubblicato per tutti questi anni, i volumi sono in tutte le librerie, racimola qualche lira (Singaporean Dollars in verità) con lavori su commissione, ma non manca mai la sua LOTI-striscia quotidiana.
Che pubblica sul suo sito, naturalmente: nessun giornale, fino a ora, l’ha voluto (dice candidamente: il mio pubblico è fatto di adulti, tra i trenta e i quarantacinque, altro che bambini).
Venerdì, nel salone delle cerimonie del palazzo presidenziale, hanno consegnato gli Young Artists Award 2011: lui è uno dei cinque. Un paginone sullo Straits Times. Chissà che adesso Mint non cambi idea, e che non gli dica più: Troy, che futuro vuoi che diamo ai nostri figli, in QUESTA città? E lui risponda: è la MIA città. Qui voglio vivere.
A me, terminata la lettura del quinto Tourist, resta questa sensazione: percorro le strade di Singapore e la vedo disegnata dal tratto leggero, pulito, di Troy Chin: i grattacieli, i monumenti, gli autobus e le macchine: vuol dire che funziona no? O vuol dire che è Singapore, la città stessa, a essere un fumetto, un cartone animato?
Mi dice: ma questo è il centro, per i turisti e i businessmen. Un giorno ti porto su da me, nei quartieri residenziali, a nord. Dove c’era il mio parco giochi.
Il suo sito: DrearyWeary, che tradotto sta per: triste e annoiato. E in home page, non per caso, ha una muta di bambini ridanciani.
Foto: Eustaquio Santimano
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1571