Che diavolo era? Cosa c’entravo io? Sul sottobicchiere umido il mio nome, i numeri e la somma di denaro erano stati scritti con una penna blu. Era un numero di conto corrente, di questo ero certo, ma non sapevo di chi potesse essere né cosa significassero tutti quei soldi.
Osservai con attenzione quella serie di cifre, e dopo averla fissata per circa un minuto non ero ancora riuscito a schiarirmi le idee. Decisi di lasciar perdere, scervellarmi non valeva la pena. Nel pomeriggio, superata la sbronza, mi sarei sicuramente ricordato ogni cosa.
Chiusi l’auto e mi incamminai verso la stazione di polizia. Il Western District ha conservato un’atmosfera tradizionale. A differenza di altre aree della città, come il quartiere di Central affollato e frenetico, Causeway Bay in cui ci sono più turisti che pesci in un fi ume, o la parte meridionale in cui tutti vanno a svagarsi e a rilassarsi, il Western District non è particolarmente animato. È conosciuto soprattutto perché vi si trovano molte scuole prestigiose e antiche, tra cui la celebre Hong Kong University. È abitato prevalentemente da famiglie benestanti e colte, ragion per cui la sicurezza pubblica non è mai stata un grosso problema; lì le persone vivono in un’oasi di pace e tranquillità. A dire il vero, nel tempo ha subito un’evoluzione impressionante: cento anni prima era un noto quartiere a luci rosse ma oggi, nelle stesse strade in cui si trovavano le prostitute, ci sono invece scuole materne, elementari e medie.
Da Duplice delitto e Hong Kong, di Chan Ho Kei
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Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
«Ci sono casi di Alzheimer nella sua famiglia?»
Clare esitò a rispondere, non perché non ricordasse, ma perché il ricordo era carico di dolore.
«Sì», disse alla fine, con una lieve sfumatura di vergogna, «mio padre».
«Ah. A quanti anni?»
«Sessantadue» rispose. Troppo giovane.
«Quasi la stessa età che ha lei adesso…».
L’espressione del medico lo tradì.
Sì, lo so, pensò lei. Si chiama insorgenza precoce. Ero con lui. Ho convissuto con il suo panico e il suo coraggio.
Aveva visto la compassione sui volti degli amici di suo padre, e dei loro parenti, che alla fine smisero di andarlo a trovare. Era troppo sconvolgente vedere quell’uomo, un tempo cordiale ed estroverso, dimenticare dove si trovava, dimenticare i loro nomi, dimenticare se stesso. E adesso era lei a trovarsi all’inizio di quel viaggio.
«Qualsiasi cosa accada, la vita continua». Mentre le stringeva la mano per congedarla, il medico cercò di rassicurarla.
Per un momento le venne voglia di dargli uno schiaffo per quell’osservazione così banale da risultare offensiva e dirgli: «Non mi tratti con condiscendenza». Ma si trattenne.
«Sì, suppongo sia così», rispose.
Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham
«È stato fantastico», dice con voce lenta, impastata di sonno. «Sei stata grandiosa».
Alle sei del mattino, nudo, il suo corpo mostra la sua età, con qualche rotolo intorno alla vita. Gli occhi sono cerchiati di nero. Q prende i pantaloni, estrae il portafoglio e tira fuori un rotolo di banconote.
«Quanto ti devo… Fa niente, prendili tutti».
Ling guarda la sua mano tesa, incredula. «Non voglio i tuoi soldi».
Q resta incredulo a sua volta. «È perché no, che diavolo?»
Lei gli volta le spalle e si avvia verso la porta. Dietro di sé lo sente esclamare: «Ma che c…? Non mi pianti in asso così….». Salta giù dal letto, con il lenzuolo intorno ai fianchi, e la segue in corridoio, urlando: «Non sono alla tua altezza?».
Le scaglia dietro le banconote e richiude la porta, sbattendola.
Ling appoggia la fronte alla parete del corridoio, e ride: Dai, dice alla vocina censoria che ha nella testa, devi ammettere che in un certo senso è divertente. Una cameriera di mezza età la supera spingendo un carrello e le rivolge uno sguardo sospettoso. Ling torna seria; tanto per cominciare, gli incipienti postumi della sbronza fanno sì che ogni risata le provochi ondate di mal di testa tipo tsunami. La cameriera, nascosta dagli spazzoloni, non ha visto il denaro sparpagliato per terra. Ling guarda le banconote e pensa: Perché no? Tanto le troverà qualcun altro e le raccoglierà, esultando per tanta fortuna. Quell’idea le arriva mista a una punta di disprezzo per se stessa, e per Q. Chiude gli occhi, fa un bel respiro. Intasca i soldi.
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Da I miei luoghi, di Annie Zaidi
Per Irshad Khan, il cerchio della vita si era chiuso il giorno in cui aveva ricevuto un messaggio dai Gadariya: avrebbero gradito incontrarlo. Il perché Khan non era disposto a precisarlo. Mi lasciò intendere però che c’entrasse il fatto che i fratelli un tempo avevano lavorato per lui, caricando pietre pesantissime sui camion per uno stipendio da fame; pur non sapendo bene che cosa volessero in quel frangente, da buon ex datore di lavoro aveva accettato di incontrarli. Ma quasi tutti a Shivpuri, e fi n giù a Bhopal, sono convinti che i proprietari delle cave di questa zona dello Stato fossero soliti pagare alle bande di dacoits una sorta di «pizzo» per la protezione. Fino a pochi anni fa in questa fascia l’estrazione di pietre era proibita (per salvaguardare le foreste), e perché le cave illegali continuassero a lavorare in pace era importante tenere il più lontano possibile dai boschi eventuali intrusi. In quest’ottica, avere a libro paga bande di dacoits poteva rivelarsi utile.
Mentre Khan raccontava la storia del loro incontro nella foresta, proprio accanto alla sua cava, era impossibile non notare l’ammirazione che trapelava dalla sua voce. Una parte era armata, e lo era anche l’altra. Le due parti si incontrarono, e prima ancora che si potesse rendersene conto, i banditi erano saltati addosso allo zio di Khan e a un cugino più giovane, trascinandoli via. Dalla loro parte. Questa parte aveva le armi, ma non osava sparare per timore di colpire e uccidere i propri familiari dall’altra parte. Perciò questa parte era rimasta lì, inebetita, rimpiangendo la propria dabbenaggine. E l’altra parte tutta sorrisi probabilmente teneva la sua posizione prima di stabilire il prezzo del riscatto e allontanarsi senza fretta.
Da I miei luoghi. A spasso con i banditi e altre storie vere, di Annie Zaidi
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Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag
Quando Eduardo la scaricò, Marisa si sentì umiliata come chiunque sia stata presa in giro, indotta a credersi oggetto di un amore speciale e di devozione quando invece era solo un costoso giocattolo che ormai non divertiva più. Per tre anni aveva fluttuato come in un sogno, con la vaga idea che alla fine avrebbe lasciato Bangkok e il mondo a lei familiare per cominciare una nuova vita in Europa. Non aveva mai e poi mai dubitato dei sentimenti di Eduardo. Aveva rifiutato parti che le erano sembrate inadatte e accettato sempre meno inviti ad apparire in televisione. Dentro di sé sentiva che il piccolo, pettegolo mondo thai dello spettacolo le stava stretto. Era pronta per un palcoscenico più grande. Non vedeva l’ora di una nuova vita in una nuova terra e di reinventarsi in qualunque cosa desiderasse. Ma dopo lo shock di ritrovarsi abbandonata e sola ancora una volta, il brusco ritorno alla realtà le rivelò tutte le crepe nelle sue difese.
Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag
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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han
Io stavo arrostendo sul palo, ero sempre più madido di sudore e faticavo a tenere le gambe incrociate. Lanciai un’occhiata all’edificio della scuola e vidi che, mentre i docenti erano usciti a portare i materassini, gli studenti erano fuori controllo. Il ballatoio del quinto piano era gremito di vestiti multicolori e testoline nere.
La coordinatrice della nostra classe, valutando i materassini e credendo di parlare a bassa voce, commentò: «Non sono abbastanza spessi, può essere pericoloso».
Il maestro Liu la spinse via dicendo: «Se cade, lo prendo io».Per spirito di partecipazione scatenato dall’euforia generale, a qualcuno venne in mente di posare in terra la cartella perché facesse da materasso. In un attimo fu il pandemonio. Tutti i ragazzi strillavano: «Mettiamo le cartelle per salvarlo, mettiamo le cartelle per salvarlo!» Così, bambini e bambine si precipitarono a frotte con la cartella. C’erano quattro sezioni per ogni anno, che sono sei, e cinquanta alunni per classe, per un totale di milleduecento. Quindi milleduecento cartelle accatastate l’una sull’altra in meno di cinque minuti, un mucchio alto almeno tre metri e più di un migliaio di bambini radunati nel parco giochi, mentre gli altoparlanti strepitavano senza sosta: «Si invitano gli alunni a tornare in classe, si invitano gli alunni a tornare in classe». Nessuno ci fece caso.
Gli insegnanti discutevano in cerchio. Secondo il maestro di ginnastica, le cartelle non erano esattamente morbide; se cadevo e finivo con la testa su un astuccio, sarebbe stata una tragedia, erano meglio i materassini, che però adesso erano sepolti e pertanto inservibili. Bisognava estrarli e rimetterli sopra.
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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
Dopo essersi accertato che il suo impiegato fosse tornato a sedersi al suo posto, riaprì la pagina di Outlook. Chiuse tutte le altre finestre e si apprestò ad aprire l’ultima. Così facendo, finalmente comparve sul monitor il messaggio finale.
Giara di polpi,
che nutrono sogni fugaci
ai piedi di questa luna d’estate.
Kiyŏng deglutì ma la saliva, scendendo, sembrò raschiargli la gola. Prese allora la tazza, posata accanto al suo mouse, e bevve un sorso di caffè, ormai freddo. Se la sua memoria non faceva cilecca, quell’haiku era il segnale in codice che corrispondeva all’ordine numero quattro. Si voltò indietro e prese da uno scaffale il volume 53 di una raccolta internazionale di poesia. L’haiku del poeta giapponese Matsuo Bashō era riportato a pagina 67. Le sue mani cominciarono a sudare. Provò a scaricare la tensione chiudendo e riaprendo le dita: no, non gli sembrava vero. Sottrasse dal numero 67 il suo anno di nascita: 63. Il risultato era effettivamente quattro.
Quell’haiku era preceduto dal verso introduttivo Trascorro una notte ad Akashi, una città famosa in Giappone per la pesca di polpi. I pescatori, approfittando dell’abitudine di questi molluschi di inserirsi in ogni fessura, lasciavano di sera, in mare, delle giare di terracotta. Il giorno dopo le riportavano a riva piene di polpi intrappolati all’interno e, dunque, dentro quelle giare, si consumava l’ultimo sogno di quei molluschi.
Kiyŏng sfogliò il volume. Era stato Yi Sanghyŏk della divisione n. 35 a riscoprire negli anni ’80 la pratica di sfruttare poesie e libri per criptare codici segreti. Grazie a quel sistema non erano più necessarie tavole di numeri casuali, né tantomeno radio a onde corte: bastava soltanto qualche raccolta di versi e un po’ di memoria e il gioco era fatto. Allo stesso ordine numero quattro potevano associarsi le poesie più disparate: sonetti di Pablo Neruda o aforismi di Khalil Gibran, ma l’angosciosa malinconia di quell’haiku rendeva meglio la portata emotiva dell’ordine che gli corrispondeva. Quei versi erano scarni come un cammello che aveva valicato un’immensa distesa desertica e, al di là delle loro possibili sfumature, trasmettevano un secco e inequivocabile messaggio.
Abbandona ogni cosa e rientra immediatamente. Una volta emesso, quest’ordine non sarà più revocato.
Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
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Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow
Mi rivolse un gran sorriso, con i denti bianchi in un volto che sembrava fatto di legno lucido. Era un mascalzone attraente, alto e muscoloso per tutto l’esercizio fisico che faceva, e teneva la barba incolta ad arte. Era una persona affabile, e questo era al tempo stesso la sua forza e la sua rovina. Lavorava sodo, una cosa insolita a Lubok Sayong. Gli uomini migliori se ne andavano e quelli che restavano amavano troppo prendersela comoda per sgobbare in un lavoro qualsiasi.
Lo avvisai: «Attento ai coccodrilli. Sevaraja sostiene di averne visto uno sul tetto della fermata dell’autobus di Simpang Keladi vicino al punto in cui tuo padre vende frutta e verdura. Un maschio, lungo due metri e mezzo, con segni neri sul dorso».
Ismet scoppiò a ridere: «Devo dirlo a mio padre. Sul tetto della fermata dell’autobus!».
«Un’altra cosa. Se catturi il pesce di Mami Beevi, lascialo andare. Ha quasi pianto quando l’ha liberato, non la prenderebbe bene se qualcuno mangiasse il suo cucciolo».
«Che tipo di pesce è?»
«Un tipo strano. Una creatura brutta con il muso simile a quello di un cane».
«E quanto è grande?»
Gli mostrai la lunghezza del mio braccio dalla punta del dito al gomito.
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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon
Il maestro gli disse che quel giorno avevano in programma disegno di nudo dal vero, e che avrebbe dovuto spogliarsi. Il ragazzo notò che nell’atelier c’erano anche due donne sui vent’anni – una forse anche più giovane – che lo stavano guardando.
«A-Gui mi ha detto che dovevo togliermi solo i pantaloni», balbettò Jizong, ma si accorse che l’amico era già sparito. Si guardò intorno, confuso. Il maestro percorse con lo sguardo l’intero atelier, e sorridendo disse a Jizong: «Credo che A-Gui sia andato via. In fondo che problema c’è a togliersi i vestiti? Siamo adulti, non siamo forse fatti tutti allo stesso modo? Vedrai che ti abituerai subito, prova!». Jizong non rispose, non sapeva come fare a spogliarsi davanti a quella gente. Dove si era cacciato A-Gui? Se l’era svignata. Si sentiva solo e abbandonato e in cuor suo era infuriato con l’amico. Il maestro gli spiegò che quel giorno avrebbero dipinto per tre ore: ogni quarto d’ora avrebbero fatto una pausa di cinque minuti. Poi lo invitò ad andare dietro il paravento a spogliarsi.
Jizong si tolse la maglietta e uscì dal paravento a torso nudo.
«Ti puoi togliere i pantaloni?», gli chiese gentilmente il maestro; Jizong tornò dietro il paravento, se li sfilò e comparì in mutande. A disagio, teneva le braccia tese a coprire le parti basse e in attesa di istruzioni sbirciava timidamente il maestro; non osava guardare gli altri. Il maestro gli disse di mettersi di schiena, faccia al muro, di divaricare le gambe, alzare le braccia e appoggiarle alla parete: «Così, non muoverti!».
Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon
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