L’ultimo libro di Metropoli d’Asia, Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya, ha ricevuto una segnalazione nella rubrica Libri di Internazionale.
A Jingo sfuggivano le date esatte, ma gli avvenimenti descritti dalla donna risalivano ad almeno dieci anni prima della sua nascita. Nel porto era esplosa una nave inglese carica di dinamite. Oltre a varie merci, tra cui barili di petrolio e balle di cotone, l’imbarcazione trasportava anche un grosso quantitativo d’oro. I lingotti erano volati lontano, in mezzo all’aria colma di fumo nero, anche se la maggior parte, a quanto si diceva, si era fusa ed era finita in fondo al mare. Molti tra pompieri e passanti avevano perso la vita nella grande esplosione o erano stati dati per dispersi. Decine di corpi non erano mai stati ritrovati. Jingo l’aveva letto di recente su una rivista, in un articolo che commemorava – che cos’era? – forse il quarantacinquesimo anniversario di quello scoppio?
«Ho smesso di accendere il cero, ho smesso di pregare che tornasse. Non m’importava più se era vivo o morto. Ma quando se n’è andato, è successo qualcosa di più tremendo, molto di più… e di questo do la colpa a lui…».
D’improvviso Jilla Gorimar strizzò gli occhi e scivolò giù dal letto con un dito sulle labbra, per intimare a Jingo di fare silenzio. «Shhh. Eccolo… eccolo lì… lo vedi? Tieni, prendi questa». Gli diede la scarpina rossa da bambino che era sul tavolo e sussurrò: «Schiaccialo!». Indicò un topo grigio e corpulento che attraversava la stanza come se niente fosse. Non appena Jingo si mosse per prendere la scarpa, la bestia scomparve in un lampo, nascondendosi dietro i mobili.
«È sparito», disse Jingo con disappunto simulato, mentre in realtà provava un certo sollievo.
«Ah, fa niente. Ce ne sono a centinaia. Anche più grossi. Vanno e vengono».
Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry
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Mentre Shishir e io salivamo i gradini in stile catacomba sentii uno strano profumo nell’aria. Era così in contrasto con quello che avevo visto al piano terra – fogne a cielo aperto, pavimenti bagnati, isole di spazzatura, soffitti neri di fuliggine e roditori iperattivi – che mi sembrava di entrare in uno di quei mondi artificiali concepiti per stimolare i sensi e tenerli in forma.
Era tutto bagnato, e in più pioveva forte. Shishir era già fradicio. Io ero riuscito in qualche modo, con balzi e saltelli e acrobazie varie, a trovare quasi sempre un riparo, quindi non ero da strizzare.
«Sei riuscito a mettere in salvo la scatola delle sigarette?», chiese Shishir mentre raggiungevamo un altro pianerottolo e ci fermavamo prima di continuare a salire. Un tizio magro, in canottiera e occhiali spessi, venne verso di noi tenendo in equilibrio un grosso vassoio di metallo ricoperto di piatti coperti da altri piatti e un bicchiere d’acqua.
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La mia passione per i treni risale al tempo in cui mio padre, un funzionario delle ferrovie, portava a casa alcune copie degli orari e poi le lasciava in giro. Avevo appena otto o nove anni. Raccoglievo quei volumi uno a uno e li studiavo attentamente, con un entusiasmo che di rado ho rivolto ai testi scolastici. Spesso mio padre commentava che se avessi studiato per gli esami con la stessa meticolosità con cui leggevo gli orari ferroviari, sarei stato il primo della classe. Voleva che diventassi dottore. Ma libri ed esami erano faccende noiose. Rabbrividivo all’idea che un giorno sarei stato sufficientemente istruito da saper badare a me stesso. A tenermi incollato agli orari era l’idea eccitante che collegavo alla possibilità di viaggiare, il senso di libertà e di avventura che prometteva ogni viaggio verso posti sconosciuti. L’immagine di tre locomotive convergenti, a vapore, elettrica e diesel, sulla copertina di alcuni opuscoli è un ricordo che mi resterà per tutta la vita. Mentre scorrevo le pagine, i nomi dei treni avevano un effetto magico sulla mia mente. Scoprii così che c’erano due postali per Calcutta da Bombay, uno via Nagpur, l’altro via Allahabad. Decisi che se un giorno fossi andato a Calcutta, avrei preso il Postale che passava da Allahabad, così la tratta più lunga mi avrebbe permesso di restare di più sul treno. Conoscevo a memoria il nome di ogni stazione tra Bombay e Pune e alcune dal suono buffo, tipo «Vangani», mi facevano ridere tra me e me.
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Il morto era steso su un catafalco di ferro al centro del pavimento all’interno del padiglione di pietra.
Accanto, in un turibolo su un vassoio d’argento, crepitavano le braci. L’odore purificante di fumo, incenso e sandalo si diffondeva ovunque. Su tre lati della stanza – Buchia aveva ragione: i famigliari erano già presenti e in attesa – si accalcavano donne di età diverse, avvolte in sari bianchi freschi di bucato, eleganti come cigni pur nel loro dolore. Sedevano spalla a spalla su seggiole di legno accostate l’una all’altra, con i capelli coperti dai foulard o dai lembi del sari fissati da una spilla. Si trattenevano, come il loro lutto, in un decoro composto e curato. Alcune dialogavano a sussurri.
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«Come mai non hai ancora la barba?»
«Perché da piccolo avevo l’abitudine di mangiare direttamente dalla tava», rispose, stupendo Yudi. Non aveva mai sentito una risposta tanto assurda, per quanto sapesse che ai maratti mancava un venerdì.
«Che c’entra la tua barba con una pentola calda?», domandò, per poi pentirsene, vedendo il ragazzo a disagio.
«Non so, ma al mio villaggio dicono così».
«Dove si trova?»
«Khed Taluka, distretto di Raigad».
«Ah ma allora sei un discendente di Shivaji».
«Neanche per idea. Shivaji non mi piace», il ragazzo fece un sorriso a ventiquattro denti.
Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao
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Rambabu era a capo della banda dei Gadariya insieme al fratello Dayaram. Il resto dell’organizzazione comprendeva cugini o «fratelli di casta», a parte un paio di componenti provenienti dalle tribù delle foreste dei dintorni. Una banda leggendaria, non solo per alcuni audaci sequestri messi a segno o per i modi sensazionali con cui aveva giustiziato i suoi nemici. Nei posti giusti quei banditi erano anche capaci di comportarsi da Robin Hood; e mai, durante le loro scorrerie, torcevano un capello alle donne. In effetti, è stata una delle prime cose che sono venuta a sapere a proposito della banda: le donne non le toccavano nemmeno. Se capitava loro di incontrarne una, la chiamavano «sorella» e le consegnavano un dono simbolico, una piccola somma di denaro.
Questo atteggiamento aveva fatto guadagnare alla banda uno stuolo di accesi sostenitori. Non c’è donna del Chambal che in cuor suo riesca a condannare Rambabu e Dayaram senza accompagnare la condanna a un moto di pietà, o forse a un’emozione che va al di là di questa (a esclusione, ovviamente, di quelle a cui è stato ucciso il marito o il fi glio). Una delle attiviste sociali della zona, che in seguito arrivai a conoscere abbastanza bene perché si fi dasse di me, diceva spesso con sguardo sognante di voler conoscere Rambabu, perché era convinta che non potesse essere poi così cattivo.
Da I miei luoghi. A spasso con i banditi e altre storie vere, di Annie Zaidi
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