La madre di Ŭnhŭi è stata la mia ultima preda. Mentre stavo tornando a casa, dopo averla seppellita, la mia auto si è schiantata contro un albero e si è capovolta. La polizia ha attribuito la causa a un eccesso di velocità che mi ha fatto sbandare in curva. Sono stato operato due volte al cervello. All’inizio pensavo fosse l’effetto dei farmaci. Ero sdraiato sul letto dell’ospedale e mi sentivo infinitamente rilassato. Strano. Prima mi bastava sentire il chiacchiericcio degli altri perché mi saltassero i nervi. Il suono di persone che ordinavano da mangiare, di bambini che ridevano, di donne che spettegolavano. Odiavo tutto. E poi all’improvviso ho avvertito un senso di pace. Ho sempre pensato di avere un animo irrequieto. E invece mi sbagliavo. Come una persona che perde di colpo l’udito, sono stato costretto ad abituarmi a quel silenzio e a quella nuova tranquillità. Non so se per colpa dell’incidente o del bisturi del medico, ma dentro il mio cervello era successo certamente qualcosa.
Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
Quello a cui Iona non riesce a dare un senso, però, è perché un poeta della Cina rivoluzionaria sia passato dal cuore di Pechino a un angolo tanto remoto del pianeta quanto la Nuova Zelanda. La libertà era così difficile da trovare? Torna alla pagina dei Poeti Oscuri e legge di come Gu Cheng si era coltivato da solo una foresta di bambù come barriera intorno alla sua casa sull’isola, di come aveva vissuto in semplicità con moglie e figlio senza quasi alcun contatto con il mondo esterno. Iona dà una scorsa all’articolo. Ci sono altri estratti di poesie, altri commenti analitici. Si sente stanca e ha gli occhi appannati. Salta all’ultimo paragrafo e ha uno shock: l’8 ottobre del 1993 Gu Cheng ha ucciso sua moglie e suo figlio con l’ascia che usava per tagliare la legna e poi si è impiccato. L’articolo lo dice in maniera cruda, non aggiunge dettagli né un movente. Nonostante le poche informazioni, Iona si forma delle immagini incredibilmente vivide. Vede l’ultimo giorno del poeta. Il rumore della barriera di bambù che scricchiola al vento. Forse l’aria era gelida. Conosce quella sensazione. La foschia azzurrina che sale dall’acqua per avvilupparti e rende lo spazio ghiacciato e desertico, il morso feroce del vento che ti azzanna la pelle.
Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao
Quando mi svegliai, scoprii che lo scompartimento era vuoto. La stazione in cui ci trovavamo era strana, diversa da qualsiasi altra stazione avessi visto. Da un lato non c’erano i cartelli nei soliti posti a indicarne il nome. Dall’altro la struttura era differente. L’interno dell’edifi cio era costituito da una serie di enormi archi, che gli davano l’aspetto di una moschea. L’illuminazione era verdognola. Quando uscii, scoprii che tutto l’edifi cio era costruito a forma di fi ore di loto. Allora mi venne un dubbio: era davvero come lo vedevo io, oppure tutto ciò era dovuto all’eroina? Mi stropicciai gli occhi.
Quando l’effetto della droga svanì, cominciai ad avere una vaga idea di ciò che era successo. No, non stavo sognando; l’apparenza non era diversa dalla realtà. Ero involontariamente salito su un treno per il Bangladesh, al confi ne non me n’ero accorto solo perché ero strafatto e rintanato nel bagno. La città in cui mi aveva scaricato la sorte era Dhaka, liberata dal dominio pachistano poco meno di dieci anni prima. Sembrava la fantasticheria di un bambino, quella che ci porta a sospendere volontariamente l’incredulità. Ma una cosa rimase un mistero: come ero salito su un treno a scartamento superiore al normale a Sealdah e uscito fuori da uno a scartamento ridotto a Dhaka. Ancora oggi non so come sia successo. Feci una lunga passeggiata per i vicoli e le viuzze della terra appena scoperta. Percorrevo zone che più tardi avrei conosciuto come Dhanmondi, Motijhul, Jiktuli e Sultan Road, girovagando senza meta. Mi resi conto che ero diventato all’improvviso un immigrato illegale senza documenti in un Paese straniero. Potevo anche fi nire in prigione se mi avessero preso. Questo mi preoccupò. Non riuscivo a sopportare il pensiero della prigione dopo così tanta libertà. Ma era altrettanto poco probabile che potessi tornare in India nel modo in cui ero arrivato.
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Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao
Stando a quanto diceva il display, il prossimo treno arrivava solo ad Andheri. Un dubbio traversò la mente di Yudi e del ragazzo, nello stesso momento. Avrebbero viaggiato insieme, oppure Yudi sarebbe andato al binario tre per prendere un rapido per Virar? Dopo un attimo decisero che avrebbero preso insieme il locale, a Lower Parel si sarebbero salutati e Yudi avrebbe cambiato treno.
Arrivarono in fondo al binario. Un gruppo di koti gironzolava fuori dal bagno degli uomini. Arrossirono e ridacchiarono quando videro Yudi con il ragazzo, che aveva preso per mano proprio per farli ingelosire.
«Questo è un altro posto famoso per cuccare», lo informò Yudi. «Lo so», fu la risposta.
Yudi si chiese quanto sapesse.
Le checche cercarono d’incrociare lo sguardo di Yudi. Ma lasciarono perdere quando si resero conto che col partner faceva sul serio.
Quando arrivò il treno, i due salirono nel vagone di testa. Yudi sapeva che quella, canonicamente, era la carrozza gay. Comunque la zona-inciucio era limitata agli spazi di passaggio tra le entrate e le uscite dagli scompartimenti. Ma perché la gente ci provasse, il treno doveva essere bello pieno. E a Marine Lines i treni non erano mai strapieni, nemmeno all’ora di punta. E difatti, anche in quel momento, c’erano tanti posti liberi. Yudi seguì il ragazzo e gli si sedette accanto.
Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao
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Da Malesia Blues, di Brian Gomez
«Terry», disse Pak Jam, chiamandolo mentre stavano uscendo. Sventolò un assegno.
«Cominciate ad andare. Ci vediamo fuori», disse Terry.
«Ascoltami», iniziò a dire Pak Jam, mentre gli dava l’assegno. «Se cambi idea, c’è sempre posto per te su questo palco, d’accordo?»
«Grazie, Pak Jam».
«Il mio numero ce l’hai, vero?»
«Sì».
«Senti, Terry, lo so che non sono affari miei, ma a volte la cosa giusta da fare è la più difficile».
Ci volle qualche istante perché Terry capisse che Pak Jam stava parlando del suo matrimonio con Linda. Pensò che sapesse troppo di frasetta da bigliettino dei biscotti della fortuna per prenderla sul serio, anche se era vera.
«Immagino di sì, lah», disse lui, con un sospiro. Si strinsero la mano e Terry uscì, abbandonando l’unica vita che avesse mai conosciuto.
Da Malesia Blues, di Brian Gomez
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Da Svegliami alle nove domattina, di A Yi
Al suo arrivo ad Aiwan, Xu Yousheng sarebbe venuto a conoscenza di maggiori dettagli sul conto di lei, Jin Yan.
Le capitava spesso di rimanere a fissare il cielo azzurro, sconfinato, remoto, limpido, addirittura troppo limpido, pacifico, e che tuttavia sembrava preannunciare qualche sussulto fuori del comune (come se da un momento all’altro potesse balzarne fuori uno squalo). Rare nubi bianche fluttuavano pigre. Cavalli che chissà, forse coprivano ogni cosa fino in Mongolia, fino ai picchi delle montagne, e le cui code ora sventolavano, ora si abbassavano di nuovo. Il loro contegno, il loro distacco dal mondo circostante la lasciavano di stucco. Ovunque, al suolo, regnava un puzzo di sbobba per maiali e di alcol: un puzzo vomitevole, nauseabondo, ripugnante, che riportava alla mente i bagordi consumati nel villaggio la notte prima.
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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha
«Allora, in quale zona di Suwŏn siete diretti?»
«Mi porti a P’ajang-dong».
«Lei dove va, invece?»
«Uscita sud».
«Mi scusi, ma deve dirmi la destinazione precisa».
«Mi lasci pure all’uscita».
La puzza di alcol impregnava l’interno del taxi. Il tutto era accompagnato dal forte brusio del riscaldamento acceso al massimo per contrastare i dieci gradi sotto zero dell’esterno. Nell’abitacolo, dove vampate di calore secco e denso si mescolavano al fiato dei passeggeri, il tasso di umidità era ancora tollerabile. Dopo aver inalato una bella boccata d’aria, K tirò la cintura e se l’allacciò. Ora che le era legato, K si sentì più in sintonia con la sua Stella TX 94. Con la marcia in folle, premette leggermente l’acceleratore e il motore girò a vuoto, producendo morbide scosse che si trasmisero a tutto il suo corpo. Il tachimetro raggiunse con disinvoltura i quattromila giri al minuto. Dopo aver lanciato un’occhiata allo specchietto retrovisore sulla sinistra, K ruotò il volante, inserì la prima e partì. Lo scatto improvviso della macchina fece sobbalzare i passeggeri che, risvegliati da uno stato di catalessi, si guardarono intorno.
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Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry
Mi ero sentito piuttosto indisposto e nauseato per tutta la mattina; il mio desiderio più grande era tornare ai miei alloggi e dormire un po’. Mentre attraversavo il boschetto di casuarine mi sono ritrovato faccia a faccia con Buchia. Come avesse fatto ad arrivargli tanto in fretta la notizia del piccolo trambusto che avevo causato non lo saprò mai, ma lui non è tipo da sorvolare su certi incidenti. Buchia non esitava a mettere le mani addosso a noi portatori di cadaveri, senza remora alcuna, spirituale o d’altro tipo. Vista la sua vicinanza a noi, sospetto che si consideri già del tutto contaminato.
«Ma non guardi dove vai, behnchoad? Finisci addosso a chi ti capita, invece di pensare al tuo cazzo di lavoro?»
Buchia portava delle basette lunghe che sbocciavano in una specie di mezza barba lanuginosa. La fronte era una cupola lucida con pochissimi capelli. C’era qualcosa in lui che non mancava mai di suscitarmi un senso di repulsione. Non era solo la volgarità e la sgradevolezza delle sue parole o quella voce stranamente androgina che solo a sentirla mi faceva trasalire. Qualcosa nell’essenza stessa di quell’uomo era maleodorante, senza ombra di dubbio, se non proprio maligna.
Basso e tarchiato, ma molto robusto, Buchia mi ha rifilato di colpo un ceffone sulla nuca. Non sembrava averci messo molta forza, ma per qualche secondo ci ho visto doppio.
«Non osare mettermi le mani addosso!», ho protestato, sollevando d’istinto il pugno chiuso.
«Se no cosa fai, caro Piloo?» ha risposto ridendo. «Me le suoni?»
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Da E adesso?, di A Yi
Ha continuato a camminare, finché si è fermato a guardare con le mani dietro la schiena un gruppetto che giocava a scacchi intorno a un triciclo a motore. Non gli è piaciuta una mossa, ha fatto un commento ad alta voce ed è partito un battibecco, che si è chiuso con la sua vittoria solitaria perché quelli se ne sono andati offesi a bordo del macinino.
Si è diretto verso un muro che separa un cantiere dalla strada dove erano accovacciate quattro, cinque donne di mezza età, con giacche sgargianti sopra pantaloni ordinari, che mangiavano il pranzo voracemente. Alcuni anziani in canottiera gironzolavano con la spesa e dei dvd di filmetti in mano, fingendo di ignorare l’occupazione delle donne. «Avete voglia di divertirvi?» hanno domandato quelle.
«Certo, dipende in che modo», si è intromesso il vecchio He, come d’abitudine.
«Perché, non lo sai?»
«No, prova a spiegarmelo tu».
«Dai che lo sai! Non devo certo dirtelo io!»
«Davvero non lo so».
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Da Le tre porte, di Han Han
Di ritorno a casa Lin Yuxiang diede al padre la lieta notizia dell’ammissione al circolo letterario. Il signor Lin aveva voglia di festeggiare perché il fi glio aveva fi nalmente messo a frutto il proprio talento, ma la moglie non c’era, quindi niente cenetta. Oggigiorno, in molte famiglie, la cucina è come la toilette delle donne, perché gli uomini non ci mettono piede. Il padre, che era felice come un bambino, chiese al fi glio: «La mia consorte non c’è, cosa facciamo?».
Lin Yuxiang gli rispose indicando la credenza nell’angolo: «Mangiamoci gli spaghetti in busta». La «consorte» rientrava di rado all’ovile, si dimenticava persino di dormire e di mangiare per il majiang. I suoi compagni di gioco erano personalità in vista della città, come il sindaco Zhao Zhiliang, suo compagno di scuola alle medie, che fi n da quell’epoca si era dedicato a girarsi i pollici e attività analoghe. Durante la Rivoluzione culturale, era stato spedito in campagna a intrecciare corde di canapa, diventato sindaco, si era concentrato sul majiang. A furia di stare al tavolo da gioco, gli era venuta la gobba, quando si dice rovinato dal gioco! Oltre a lui, c’era una cricca di pezzi grossi del governo locale che di giorno facevano comizi contro il gioco d’azzardo, ammonendo la popolazione con i principi della costruzione di una civiltà illuminata, ma, appena calava la sera, si davano al gioco confondendosi con la massa. La signora Lin a quel tavolo aveva intessuto profondi legami rivoluzionari con i compagni di majiang, migliorando la propria posizione sociale e facendosi un nome non solo nel distretto. E il signor Lin non poteva certo dare in escandescenze, altrimenti avrebbe dovuto vedersela con il Partito e il popolo. Ecco perché, se ai due uomini di casa veniva appetito, dovevano arrangiarsi con gli spaghetti in busta per non morire di fame. Quella volta, però, il signor Lin si oppose risolutamente alla proposta del figlio, sarebbero scesi a comprare la cena da un take-away. Era un pezzo che Lin Yuxiang non sentiva il profumo di un manicaretto e, dopo una rapida valutazione, pensò di meritarselo: visto che l’ingresso nel circolo era costato molto alle sue orecchie, la bocca doveva rifarsi.
Da Le tre porte, di Han Han
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