Strofinava con perizia, scrupolo, durezza, come se stesse raschiando le assi di una porta, e mentre cercava di infilargli l’abito funebre si accorse che le sue mani, un tempo tornite e possenti, avevano perso peso, pendevano a casaccio, e tutto quanto il suo corpo ondeggiava avanti e indietro seguendo la gravità terrestre come la testa di un neonato insonnolito. «Mettiti a sedere», gli ordinò a mezza voce, e nel suo tono rabbioso si sentiva che lei era la moglie abbandonata, che sarebbe stata in eterno la sua sposa (la sola, per meglio dire), la somma di tutte le sue donne, moglie, sorella, madre. «Sono dieci anni e passa che ostenti la tua forza, ti prego, adesso alzati».
«Si è solo appisolato, non può essere morto». Jin Yan, che era nativa dello Hubei, continuava a sbandierarlo ai quattro venti.
Da Svegliami alle nove domattina, di A Yi
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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha
Quella partita si stava svolgendo in una vecchia osteria, infognata nel vicolo di un minimarket aperto tutta la notte, di fronte alla stazione di Sadang. In una delle sue salette, K stava pescando alcune carte di hwat’u: ciliegio e lespedeza. In totale erano sette kkŭt. Scrutò le espressioni degli altri. Uno dei giocatori abbandonò la partita, mentre gli altri si misero a puntare banconote da mille won.
«Passo».
K gettò sul tavolo le sue carte. Aveva un punteggio troppo basso per proseguire. Gli sguardi delle persone si muovevano freneticamente. I muscoli degli occhi del signor Yi, tassista dei trasporti Sŏngbo, si contrassero: era più che evidente che gli era capitata una mano niente male. Rilanciò di diecimila won. Il tassista Kim, dei trasporti Kyŏnggi, decise di continuare, mentre tutti gli altri si ritirarono. Il signor Yi scoprì le sue carte. Con un kabo si aggiudicò la partita. Kim aveva appena cinque kkŭt, forse aveva voluto vedere solo perché era convinto che l’avversario stesse bluffando.
«Oggi la fortuna non gira proprio!», esclamò alzandosi di scatto. «Io salto una partita ma torno subito, quindi non azzardatevi a muovervi da qui».
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Da Le tre porte, di Han Han
Sul fronte della docenza Ma Debao era fi nalmente riuscito a ingranare, a mettersi in carreggiata. Non era facile insegnare cinese, ma poteva essere un’esperienza fantastica, si trattava di obbligare gli studenti a leggere il manuale. «Se si legge un libro cento volte, la sua essenza si svelerà» è un’antica massima che oggi non ha più grande valore, il che forse signifi ca che i lettori sono sempre più stupidi o gli scrittori sempre più intelligenti. Le intenzioni degli autori dei testi del manuale somigliavano agli amori di stampo tradizionale, erano criptate, per quanto se ne intuisse l’esistenza e gli studenti si affannavano a tirare fuori un senso dai brani, neanche facessero degli scavi archeologici. Prima scavavano a fondo nel terreno, poi levavano strati e strati di polvere, una volta recuperato il cimelio, dovevano trattarlo con cura, se ne capitava uno un po’ più grosso bisognava ripararlo e ridipingerlo, una vera faticaccia.
Ma Debao, invece, era estremamente diretto, niente discussioni in classe, niente interrogazioni, sbatteva in faccia agli studenti i ritrovamenti archeologici fatti lungo gli anni da altri professori. E gli studenti erano semplicemente tenuti a copiare dalla lavagna sul quaderno e dal quaderno sul compito in classe. Dopo alcune prove scritte, i risultati furono spettacolari, e gli errori pochissimi. Per Ma Debao rimaneva un’unica spina nel fi anco, il circolo letterario.
Da Le tre porte, di Han Han
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Da Duplice delitto e Hong Kong, di Chan Ho Kei
«Chi sta cercando, signore?» Mi chiese la donna.
Avrei voluto risponderle che in realtà lavoravo lì, ma mi si bloccarono le parole in gola.
«È tornato il commissario Wong?» Domandai.
«Chi?»
«Il commissario Wong Pak-Ching, il capo della squadra omicidi».
«Il capo della squadra omicidi si chiama Ma, non Wong. Forse si sbaglia». Ancora. Di chi stava parlando?
«Mi permetta, forse è lei che si sbaglia. Io cerco il capo della omicidi del chai koon sette».
«Come le ho già detto è Ma Hung-Kit, non Wong PakChing».
«Sta cercando il commissario Wong?» Si intromise un agente che passava di lì. Stempiato, poteva avere quaranta, cinquant’anni al massimo.
«Sì, proprio lui», annuii.
«Wong è andato in pensione tre anni fa. A quanto ne so, adesso vive in Canada». In pensione? Ma se avevo litigato con lui il giorno prima? Stavo per fare altre domande quando il mio sguardo si bloccò su una data cui non potevo credere. Mi prese il panico.
L’omicidio del Tung Shing era avvenuto il martedì della settimana precedente, in data diciotto marzo. Eppure, sul calendario elettronico alle spalle della poliziotta era indicato domenica quindici marzo. Per un attimo pensai di essermi sbagliato, ma non era così.
Ma più della data, ad allarmarmi era l’anno.
Non eravamo nel 2003?
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Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry
«Fate passare! Fate largo al cadavere…».
Quando siamo arrivati a Kalbadevi, la tonante voce di basso di Rustom aveva perso un po’ della sua baldanza, e le sue grida si erano fatte più flebili e sporadiche. Io mi sentivo le gambe malferme e tremanti. Ciò nonostante, la gente si faceva da parte, rispettosa, e alcuni mormoravano perfino tra sé: «Un cadavere parsi!», quasi stupiti che la morte avesse davvero colpito un membro di quella comunità privilegiata e singolare.
Sarebbe stata una scarpinata lunga e noiosa, lo sapevamo tutti, anche se avevamo preso la via più breve possibile: superata la Flora Fountain e Dhobi Talao, attraverso Girgaum e Hughes Road, per arrivare infine alle Torri. Ma a un certo punto, sotto il sole cocente, sono inciampato, rischiando di perdere la presa sul catafalco.
Non mangiavo niente dalla sera prima. Poco prima di andarcene dalla casa di Cusrow Baag, alcuni vicini gentili della famiglia del defunto ci avevano allungato una ciotola di terracotta piena di vino di palma – aspro da morire, ma l’avevo bevuto avidamente, perché avevo la bocca riarsa – e cubetti marroni di zucchero grezzo infilati in ciambelline morbide di pane bianco: ci dovevano dare energia per la lunga camminata del ritorno.
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Da E adesso?, di A Yi
La mattina sono andato di buonora al mercato delle pulci. Ho girato a lungo prima di trovare qualcuno che se ne intendesse. Era un tale con il volto scavato, i capelli bianchi e gli occhiali da presbite; dallo sguardo sembrava una persona onesta. Speravo facesse la stima, pagasse e arrivederci. Dopo aver esaminato il pezzo, è ammutolito. Ho domandato qual era il valore. Ha balbettato come per parlare, ma ha desistito ed è rimasto a fissarmi imbarazzato. Quando l’ho sollecitato, ha chiesto: «Secondo te, ragazzo?».
«Sono io che lo chiedo a te, sei tu l’esperto».
Ha sfiorato il Buddha con il pollice: «Per essere giada, è giada, ma è un tantino torbida».
«Quindi?»
«Cinquecento».
Mi sono ripreso il Buddha: «Comprati gli spaghetti precotti con i cinquecento yuan».
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Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
Quando tornai in Thailandia alla fine degli anni Novanta, il paese era in un caos peggiore del solito a causa del crollo dell’economia asiatica. Ero stato via per quasi quattro anni e mi ero ormai abituato alle strade ordinate di Melbourne. Non volevo lasciare l’Australia e tornare nella caotica città in cui ero nato, ma la mia borsa di studio si era esaurita senza che mi fossi laureato e le mie prospettive erano tutt’altro che rosee. Mio padre era malato; un fatto che mia madre continuava a sottolineare. Erano impazienti che tornassi per dare il mio contributo alla società thailandese, che ai loro occhi stava per essere radicalmente trasformata, di nuovo, ma quella volta per via della situazione economica. Avevano partecipato al movimento studentesco a metà degli anni Settanta e restavano aggrappati a qualsiasi ideale scampato al naufragio di quella breve fioritura di democrazia. Mi avevano cresciuto facendomi capire che si aspettavano di vedermi proseguire dal punto in cui loro avevano lasciato. Avevano detto che era la mia occasione per farlo.
Tornai malvolentieri e trascorsi i primi mesi vivendo con i miei genitori, aiutando ad accudire mio padre, evitando i tentativi di mia madre di trovarmi un lavoro e sentendomi in colpa perché non ero in grado di mantenermi. Mi impegnai seriamente a far rivivere l’idealismo precario della mia giovinezza, riuscendo a convincermi che risvegliando la coscienza collettiva sarebbe stato possibile promuovere il tipo di cambiamenti cruciali per il futuro della Thailandia, il tipo di cambiamenti che i miei genitori sembravano ansiosi di vedere prima di morire. A tale scopo mi dedicai al giornalismo e iniziai a scrivere sulla crisi nazionale e sulle ingiustizie nella nostra società. Non ero ambizioso. Salvare la Thailandia non era nei miei programmi. Volevo solo dare un contributo decente. Ma non avevo previsto l’indifferenza che avrei incontrato. Né mi ero reso conto di quanto era difficile vivere in una città in cui mi sentivo come un attore: recitavo una parte che era stata scritta per me, non quella che avevo scelto o che avrei potuto scegliere.
Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
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I nove continenti nell’”oroscopo” del Fatto Quotidiano
Nella rubrica La Libromante su Il Fatto Quotidiano è stato citato I nove continenti, ultimo libro di Xiaolu Guo pubblicato da Metropoli d’Asia.
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Segnalazioni per I nove continenti
Articoli dalla stampa e dal Web che hanno parlato di I nove continenti, l’ultimo libro di Xiaolu Guo pubblicato da Metropoli d’Asia (in aggiornamento).
Il Fatto Quotidiano (ottobre 2018)
il manifesto (settembre 2018)
Promozione Distribuzione Editoriale – PDE (agosto 2018)
Internazionale (luglio 2018)
L’Espresso (luglio 2018)
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Xiaolu Guo citata sul manifesto
In un articolo del manifesto su Londra e su come alcuni scrittori inglesi l’hanno raccontata, la giornalista Franca Cavagnoli cita anche Xiaolu Guo, autrice con Metropoli d’Asia di La Cina sono io, 20 frammenti di gioventù vorace e I nove continenti.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=7749