Non ricordo che ora fosse quando decisi di voltarmi e tornare nel mio appartamento; quel che è troppo è troppo; la gente continuava a camminare ma a questo punto avevo perso del tutto l’interesse per le loro faccende e desideravo solo l’intimità della mia casa, una tazza di caffè caldo e qualche spuntino; e così feci dietrofront; ma, me ne resi subito conto, questa era una delle tante decisioni poco sagge che mi capitava spesso di prendere perché, adesso, non si trattava più di andare nel verso della corrente, ma di contrastarla e per tenermi saldo su due piedi, evitando allo stesso tempo di morire travolto dalla marea di umanità che mi veniva addosso, dovevo raccogliere tutte le mie risorse fi siche e mentali; una delle strategie che sviluppai – per continuare con la metafora – fu di guadare tra la gente come si guada nell’acqua, muovendo le braccia come un nuotatore e, all’occasione, procurando piccoli danni come un cazzotto al naso o un pugno allo stomaco a un paio di persone; la cosa, ancora una volta, non era intenzionale per cui nessuno aveva da ridire ed io continuai a lottare con la corrente; mi venne in mente la solita scena quotidiana alla stazione quando tutta la città si muove verso il centro, scende dal treno e sgorga in un fl usso senza fi ne, rendendo impossibile ai pochi che, come me, vorrebbero dirigersi a nord, nei quartieri alti, raggiungere il binario e salire in treno; e devo ammettere che questo esercizio mi ha fatto spesso sentire orgoglioso a causa del suo implicito simbolismo: fare ciò che la massa non fa, essere così anticonformista da trovare un lavoro nei quartieri alti mentre tutti i lavori sono in centro; ma per tornare al racconto, mi sentivo, da un altro punto di vista, un perdente: mi trovavo adesso faccia a faccia con la folla, dovevo sopportarne gli sguardi indiscreti, curiosi di sapere chi fosse il tale che viaggiava da est a ovest mentre tutti si muovevano nella direzione opposta; vedevo i loro sguardi obliqui, i loro denti appuntiti, e nasi colanti molto più distintamente di prima, e visto che il fl usso di gente era costante, talvolta accadeva che mi trovassi vicino a quella creatura deforme con monconi per braccia, piedi bitorzoluti e, manco a dirlo, con una pelle adornata di pustole, porri e nei; e questo in un certo senso mi dava l’impressione che un enorme mostro con molte teste, occhi, nasi mani e piedi, mi stesse attaccando con ferocia, astio, sicuro di prendermi e divorarmi; nella mia mente si sviluppò così lo stesso malanimo che sarebbe naturale covare verso una creatura del genere e fu una sorpresa anche per me, oltre che una prova della mia maturità, il fatto che non aprii bocca per ringhiare, abbaiare, mordere nel folle tentativo di difendermi; inoltre, dato che la folla man mano per la pendenza premeva sempre più forte, scoprii con sconcerto che, grazie alla mia posizione, ero proprio io l’unica causa del parapiglia in cui, fi la su fi la, caddero, inciamparono, e trovarono la morte in uno dei modi meno dignitosi che si possa immaginare – per intenderci, come fossero lasciati in balia degli elefanti; la faccenda, dunque, si stava facendo pericolosa, ma continuai a camminare perché adesso non vedevo l’ora di avere il comfort del mio appartamento e di una bevanda calda.
Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao
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Il 21 giugno a Milano: Gay made in India. Incontro con lo scrittore R. Raj Rao, in collaborazione con il Milano Pride