Quando si accorgerà che ho svuotato la cassaforte, la zia caccerà un urlo e andrà su tutte le furie; se si dispera, tanto meglio. Se lo merita. Io e i miei non dobbiamo niente allo zio, sono venuto a stare nel capoluogo della provincia grazie a uno scambio di favori, tra i più importanti nella storia del-la famiglia. Quando era ragazzo, mio padre, nonostante fosse più bravo a scuola, aveva lasciato che fosse suo fratello a studiare e lo aveva mantenuto all’università lavorando in miniera, dove poi si era beccato un cancro ai polmoni. Eppure la zia, che prima era una mediocrissima bigliettaia di autobus, è con-vinta che siamo in debito con lei, soltanto perché è nata in città. Quando mi aveva accompagnato a casa loro, mia madre aveva portato in regalo alcuni prodotti locali, che la zia aveva rifiutato con spocchia: «Tienili tu, tienili tu, che non ve la passate bene». «Mia mamma ha molti più soldi di te!» avrei voluto gridare. A quell’epoca avrei preferito suicidarmi, tanto ero a disagio, e me ne stavo tutto il giorno rannicchiato nella veranda. Se facevo la doccia, lei spegneva il gas, e le rare volte che guardavo la tivù, lei camminava avanti e indietro sui suoi tacchi alti. Non mi proibiva di sedermi sul divano, però spolverava appena mi alzavo e, alla minima impronta sul pavimento, passava il mocio, con il gusto con cui un vecchio contadino raccoglie sterco di vacca per concimare.
Da E adesso?, di A Yi
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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra
Mentre Shishir e io salivamo i gradini in stile catacomba sentii uno strano profumo nell’aria. Era così in contrasto con quello che avevo visto al piano terra – fogne a cielo aperto, pavimenti bagnati, isole di spazzatura, soffitti neri di fuliggine e roditori iperattivi – che mi sembrava di entrare in uno di quei mondi artificiali concepiti per stimolare i sensi e tenerli in forma.
Era tutto bagnato, e in più pioveva forte. Shishir era già fradicio. Io ero riuscito in qualche modo, con balzi e saltelli e acrobazie varie, a trovare quasi sempre un riparo, quindi non ero da strizzare.
«Sei riuscito a mettere in salvo la scatola delle sigarette?», chiese Shishir mentre raggiungevamo un altro pianerottolo e ci fermavamo prima di continuare a salire. Un tizio magro, in canottiera e occhiali spessi, venne verso di noi tenendo in equilibrio un grosso vassoio di metallo ricoperto di piatti coperti da altri piatti e un bicchiere d’acqua.
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Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
Mangiamo finché c’è luce. Durante queste cene mi riferiscono le notizie che hanno sentito alla radio o i pettegolezzi locali. Aspetto con ansia questi incontri quotidiani. Per fortuna, nonostante nessuno di loro tocchi alcolici, non sono infastiditi dal fatto che io mi porti il mio bicchiere di whisky. Normalmente ci separiamo subito dopo aver finito di mangiare. A volte però uno di loro inizia a parlare, ricordando eventi di prima dell’arrivo dell’inondazione, come se sentissero il bisogno di restare legati a un passato che sta scomparendo. Li ho già sentiti quasi tutti, ma mi stupisce il modo in cui riescono a continuare ad aggiungere particolari ai loro ricordi. Mi accorgo sempre di più che le loro storie irrompono nella mia mente e si mescolano con le mie reminescenze delle cose successe, di quelle che sarebbero potute succedere e di altre scivolate fuori da tempi remoti. Così l’acqua dissolve i confini tra le nostre realtà separate. Trasportate dalla stessa corrente, le nostre esperienze stanno iniziando a fondersi in una massa informe.
Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag
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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham
Prima di arrivare in questa città, non sapeva bene cosa aspettarsi. Forse nutriva una speranza ingenua che la città le cadesse ai piedi, spalancandosi come uno scrigno di gioielli e lasciando rotolare fuori tutti i suoi tesori, mentre resta ostinatamente e impenetrabilmente chiusa di fronte a lei. Le lunghe ore in laboratorio le lasciano poche occasioni per socializzare; la cosa più simile a un amico che abbia è il signor He.
Il suo anonimato in città è al tempo stesso liberatorio e demoralizzante. Alla sera, dopo il lavoro, ha preso l’abitudine di girare per la città, guardare le vetrine, osservare le persone, contemplare la vita delle strade come se fosse un suo diorama privato. La città non è una delle grandi metropoli, non ancora, almeno; è una arrivista sfacciata, che abbatte e ricostruisce tutto quanto c’è in vista, freneticamente, l’aria stessa elettrizzata e carica di promesse sfuggenti, come doveva essere stata New York agli albori del ventesimo secolo, una città pulsante avviata verso un’ambizione di grandezza. In città, Ling coglie qualche ombra, qualche indizio di una vita che per lei rasenta la fantasia, tanto è distante dal mondo in cui abita. Intorno alla circonvallazione principale della città c’è un agglomerato di alberghi a cinque stelle. La sera un flusso ininterrotto di auto di lusso scarica uomini in completi su misura e donne che indossano abiti luccicanti con varie gradazioni di trasparenze. Lei osserva soprattutto le donne, il modo in cui emergono dai veicoli, un tacco a spillo alla volta, sondando esitanti il terreno prima di allontanarsi volteggiando in una nuvola di seta o jacquard e di un profumo così intenso da permetterle di sentirlo anche a quella distanza. Le guarda e pensa: Potrei essere io, quella.
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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha
L’auto con a bordo C e Giuditta era ferma ormai da cinque ore sull’autostrada all’altezza del valico di Hangye. Al suo interno i due non facevano nulla, se non attivare ogni tanto il tergicristallo per rimuovere la neve che si accumulava sul parabrezza. Alla radio stavano dicendo che una bufera del genere non si vedeva da vent’anni. La causa apparentemente era una saccatura formatasi in Cina che si era scontrata con una massa d’aria proveniente dalla Siberia. Le auto in fila sulla carreggiata non si muovevano di un millimetro e le catene non potevano nulla contro quella neve che si era depositata fin sul paraurti.
Nei paraggi non si scorgevano abitazioni e, come se non bastasse, stava calando il buio. Il cielo era stato plumbeo fin dalla mattina, e dopo le cinque l’oscurità aveva completamente inghiottito il paesaggio circostante. Quando C fece per mettere in moto il tergicristallo, Giuditta, intenta a limarsi le unghie, interruppe quel lungo silenzio.
«Lascia perdere. È meglio non vedere quello che c’è fuori».
Quando il tergicristalli si fermò, bastarono pochi attimi perché tutto il parabrezza si coprisse di neve. L’interno dell’auto era buio e a malapena si vedevano, diafane, le luci dei fari. C riusciva a distinguere solo il profilo di Giuditta. In fin dei conti, sebbene la vista fosse affaticata dall’aria secca dell’auto, quell’atmosfera era confortevole.
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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen
Rincasando, Xiao Ding trova Xiao Chu in salotto davanti alla libreria di bambú, intenta a darsi una truccatina veloce: sul ripiano più alto è appoggiato uno specchietto grande quanto il palmo di una mano. Coprendosi con la sinistra il viso gonfio e bluastro, Xiao Ding fila dritto in bagno, con uno sforzo immane si china sul rubinetto del lavandino e si sciacqua via dalla faccia e dalle mani le tracce di sangue. Com’è che oggi non sei al lavoro?, chiede dal bagno in tono decisamente aggressivo. Xiao Chu si giustifica: Adesso ci vado, al lavoro, ma che dici? Stasera c’è un cliente che ci invita a cena al «Città di Chaozhou», non lontano da qui, così già che c’ero sono passata a dare un’occhiata. Hanno vissuto insieme in quella casa per un anno, ma per evitare litigi Xiao Chu è tornata a trasferirsi nel dormitorio aziendale e ora si fa vedere solo il fine settimana o il mercoledì. Come volevasi dimostrare, il loro rapporto – che aveva imboccato ben presto una fase discendente – ne è uscito notevolmente rafforzato. Cena?, protesta lui, ma è ancora presto per cenare. Ma se ti ho detto che sto peruscire! ribatte Xiao Chu spazientita senza smettere di pettinarsi. Ho dimenticato delle cose e devo prima fare un salto in ufficio. Ma che razza di cliente è questo qui che ti invita a cena, eh, che razza di cliente è? A quanto pare i clienti sono tizi che non fanno altro che invitare a cena la gente.
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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao
La mia passione per i treni risale al tempo in cui mio padre, un funzionario delle ferrovie, portava a casa alcune copie degli orari e poi le lasciava in giro. Avevo appena otto o nove anni. Raccoglievo quei volumi uno a uno e li studiavo attentamente, con un entusiasmo che di rado ho rivolto ai testi scolastici. Spesso mio padre commentava che se avessi studiato per gli esami con la stessa meticolosità con cui leggevo gli orari ferroviari, sarei stato il primo della classe. Voleva che diventassi dottore. Ma libri ed esami erano faccende noiose. Rabbrividivo all’idea che un giorno sarei stato sufficientemente istruito da saper badare a me stesso. A tenermi incollato agli orari era l’idea eccitante che collegavo alla possibilità di viaggiare, il senso di libertà e di avventura che prometteva ogni viaggio verso posti sconosciuti. L’immagine di tre locomotive convergenti, a vapore, elettrica e diesel, sulla copertina di alcuni opuscoli è un ricordo che mi resterà per tutta la vita. Mentre scorrevo le pagine, i nomi dei treni avevano un effetto magico sulla mia mente. Scoprii così che c’erano due postali per Calcutta da Bombay, uno via Nagpur, l’altro via Allahabad. Decisi che se un giorno fossi andato a Calcutta, avrei preso il Postale che passava da Allahabad, così la tratta più lunga mi avrebbe permesso di restare di più sul treno. Conoscevo a memoria il nome di ogni stazione tra Bombay e Pune e alcune dal suono buffo, tipo «Vangani», mi facevano ridere tra me e me.
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Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry
Il morto era steso su un catafalco di ferro al centro del pavimento all’interno del padiglione di pietra.
Accanto, in un turibolo su un vassoio d’argento, crepitavano le braci. L’odore purificante di fumo, incenso e sandalo si diffondeva ovunque. Su tre lati della stanza – Buchia aveva ragione: i famigliari erano già presenti e in attesa – si accalcavano donne di età diverse, avvolte in sari bianchi freschi di bucato, eleganti come cigni pur nel loro dolore. Sedevano spalla a spalla su seggiole di legno accostate l’una all’altra, con i capelli coperti dai foulard o dai lembi del sari fissati da una spilla. Si trattenevano, come il loro lutto, in un decoro composto e curato. Alcune dialogavano a sussurri.
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Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao
«Come mai non hai ancora la barba?»
«Perché da piccolo avevo l’abitudine di mangiare direttamente dalla tava», rispose, stupendo Yudi. Non aveva mai sentito una risposta tanto assurda, per quanto sapesse che ai maratti mancava un venerdì.
«Che c’entra la tua barba con una pentola calda?», domandò, per poi pentirsene, vedendo il ragazzo a disagio.
«Non so, ma al mio villaggio dicono così».
«Dove si trova?»
«Khed Taluka, distretto di Raigad».
«Ah ma allora sei un discendente di Shivaji».
«Neanche per idea. Shivaji non mi piace», il ragazzo fece un sorriso a ventiquattro denti.
Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao
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