Quando tornai in Thailandia alla fine degli anni Novanta, il paese era in un caos peggiore del solito a causa del crollo dell’economia asiatica. Ero stato via per quasi quattro anni e mi ero ormai abituato alle strade ordinate di Melbourne. Non volevo lasciare l’Australia e tornare nella caotica città in cui ero nato, ma la mia borsa di studio si era esaurita senza che mi fossi laureato e le mie prospettive erano tutt’altro che rosee. Mio padre era malato; un fatto che mia madre continuava a sottolineare. Erano impazienti che tornassi per dare il mio contributo alla società thailandese, che ai loro occhi stava per essere radicalmente trasformata, di nuovo, ma quella volta per via della situazione economica. Avevano partecipato al movimento studentesco a metà degli anni Settanta e restavano aggrappati a qualsiasi ideale scampato al naufragio di quella breve fioritura di democrazia. Mi avevano cresciuto facendomi capire che si aspettavano di vedermi proseguire dal punto in cui loro avevano lasciato. Avevano detto che era la mia occasione per farlo.
Tornai malvolentieri e trascorsi i primi mesi vivendo con i miei genitori, aiutando ad accudire mio padre, evitando i tentativi di mia madre di trovarmi un lavoro e sentendomi in colpa perché non ero in grado di mantenermi. Mi impegnai seriamente a far rivivere l’idealismo precario della mia giovinezza, riuscendo a convincermi che risvegliando la coscienza collettiva sarebbe stato possibile promuovere il tipo di cambiamenti cruciali per il futuro della Thailandia, il tipo di cambiamenti che i miei genitori sembravano ansiosi di vedere prima di morire. A tale scopo mi dedicai al giornalismo e iniziai a scrivere sulla crisi nazionale e sulle ingiustizie nella nostra società. Non ero ambizioso. Salvare la Thailandia non era nei miei programmi. Volevo solo dare un contributo decente. Ma non avevo previsto l’indifferenza che avrei incontrato. Né mi ero reso conto di quanto era difficile vivere in una città in cui mi sentivo come un attore: recitavo una parte che era stata scritta per me, non quella che avevo scelto o che avrei potuto scegliere.
Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag