Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

L’auto con a bordo C e Giuditta era ferma ormai da cinque ore sull’autostrada all’altezza del valico di Hangye. Al suo interno i due non facevano nulla, se non attivare ogni tanto il tergicristallo per rimuovere la neve che si accumulava sul parabrezza. Alla radio stavano dicendo che una bufera del genere non si vedeva da vent’anni. La causa apparentemente era una saccatura formatasi in Cina che si era scontrata con una massa d’aria proveniente dalla Siberia. Le auto in fila sulla carreggiata non si muovevano di un millimetro e le catene non potevano nulla contro quella neve che si era depositata fin sul paraurti.
Nei paraggi non si scorgevano abitazioni e, come se non bastasse, stava calando il buio. Il cielo era stato plumbeo fin dalla mattina, e dopo le cinque l’oscurità aveva completamente inghiottito il paesaggio circostante. Quando C fece per mettere in moto il tergicristallo, Giuditta, intenta a limarsi le unghie, interruppe quel lungo silenzio.
«Lascia perdere. È meglio non vedere quello che c’è  fuori».
Quando il tergicristalli si fermò, bastarono pochi attimi perché tutto il parabrezza si coprisse di neve. L’interno dell’auto era buio e a malapena si vedevano, diafane, le luci dei fari. C riusciva a distinguere solo il profilo di Giuditta. In fin dei conti, sebbene la vista fosse affaticata dall’aria secca dell’auto, quell’atmosfera era confortevole.

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