Sicché ero la seimilasettecentottantasettesima persona in cerca di un lavoro nell’industria cinematografica e televisiva di Pechino. Tra me e un copione c’erano seimilasettecentottantasei altri candidati – giovani e belli, vecchi e brutti. Sentivo la concorrenza, ovvio, ma in confronto al miliardo e passa della popolazione cinese, seimila e rotti non mi sembrava poi un numero così scoraggiante. Equivaleva agli abitanti del villaggio che avevo lasciato. E avvertivo l’urgenza di conquistare quel nuovo mondo.
Sempre senza guardarmi, l’eroe del popolo armato di scacciamosche si è messo a osservare la mia fototessera sulla scheda macchiata. «Mica male, ragazzina. In confronto al resto della faccia, la tua fronte ha qualcosa di speciale: è spaziosa quasi come Piazza Tienanmen. Anche le mascelle sono ok, comunque. Ti porteranno fortuna, credimi. Succede così, con le mascelle squadrate… Bene bene. Anche i lobi delle tue orecchie – belli grassi come quelli di Budda. Più sono grassi e più portano fortuna, lo sapevi? Mmm… Non sei da buttar via. Non puoi immaginare la montagna di cessi che viene qui ogni giorno. Non capisco: ma non si guardano allo specchio, prima?».
L’ho ascoltato con pazienza e alla fine l’ho ringraziato. Lasciandomi dietro le comparse N. 6788, 6789 e 6790, sono uscita. Il sole pomeridiano era talmente forte da friggermi i capelli. L’asfalto sprigionava afa estiva e inquinamento. E io ero intrappolata nel bel mezzo di questa lotta di calore, tanto che sono quasi svenuta nella strada rumorosa. Forse sono svenuta per davvero, non ricordo, e comunque è irrilevante. L’importante è che mi avevano dato un numero. A partire da quel giorno non avrei più vissuto come una patata dolce dimenticata dentro la terra scura. Mai più.
Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo
Posted by Metropoli d'Asia on settembre 6, 2016
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