Verso Nord unonoveottootto (la versione originale in cinese riportava la traduzione in inglese del titolo: 1988, I want to talk with the world, ma la nostra promozione si è impuntata: ha detto che in italiano sarebbe sembrato il titolo di un saggio, non di un romanzo, e noi ci siamo dovuti adeguare) è un romanzo sgangherato, come sgangherata è l’esistenza del suo autore, o quanto meno la maschera che di sé ha voluto fare.
Leggetevi la postfazione di Silvia Pozzi sul nostro rallysta, blogger, dissidente che negozia con il potere e lo sferza, leggetevi il materiale che metteremo online in questi giorni. Ma leggetevi Verso Nord unonoveottootto, soprattutto, senza storcere il naso davanti a qualche frase sghemba, a qualche parolina apparentemente fuori posto che giustamente Pozzi ha voluto mantenere tale e quale anche in italiano, a qualche affermazione ingenuamente apodittica: lasciatevi assorbire dal ritmo ipnotico di questa cavalcata infantile e disincantata al tempo stesso.
È, forse, il romanzo di chi dall’infanzia e dall’adolescenza (anche letteraria) ha deciso finalmente di uscire (Han Han non è più il ragazzino prodigio che a neanche diciottanni vende milioni di copie del suo Le tre porte, ora è marito, e padre, e personaggio pubblico sulle copertine patinate che stringe (quando e se ha tempo) mani di presidenti.
Il suo protagonista imbarca Nanà, prostituta e incinta, su quest’auto che è un vestito di arlecchino, assemblaggio di carrozzeria e pezzi di motore raccolti qua è là (e si chiama 1988, quest’auto, perché così è il numero di serie del telaio: ma che il 1988 sia l’anno prima della repressione di Piazza Tien an Men è una coincidenza che non viene rimarcata mai), e non gli fa un baffo di entrare e uscire di prigione così come di entrare e uscire dal tempo presente di quel viaggio verso nord, per uscirne con lunghe incursioni in un tempo passato, quello dell’infanzia, a ricordare l’amico Ding Ding che disse: andrò via, verso ‘nord.
Ci si lascia catturare con facilità da questa prosa imperfetta e imperturbabile, e dopo un po’ si pensa: beh, mi ci sento anch’io, sulla 1988, sto viaggiando con lui e Nanà. E i ricordi d’infanzia, tanto assurdi quanto verosimili, di un realismo non magico ma visionario, strampalato, verosimile fino al midollo, sembrano appartenerci in fretta. E negli occhi ti resta l’immagine del ragazzino che ha osato troppo con il suo salto, e sta aggrappato all’asta della bandiera rossa cinese, lassù, mentre sotto insegnanti e compagni di scuola si affannano a cercare di salvarlo ammonticchiando cartelle e materassi della palestra.
Di lassù il bambino Han Han ancora ci osserva tutti: è un elogio dell’ingenuità, lo stile di Han Han, il suo registro. E a me pare una scelta meditata, una specie di tensione a un grado zero della scrittura, un vocabolario semplice che diventa sofisticato nelle citazioni: i proverbi, i modi di dire, le locuzioni gergali così come qualche testo di musica pop taiwanese, dai quali sempre prende distanza.
A me piace, questo linguaggio antiretorico che scava nei sentimenti – nudi e crudi, spesso terribili come sono nella realtà – a botte di ingenuità successive, senza però lasciare mai il campo alla dissimulazione. Anche i piccoli plot che stanno dentro a questa vicenda densa di flash back, di ricordi, sono micro racconti che una pretesa di letterarietà banalizzerebbe: Han Han non è mai banale, invece, proprio perché non cerca mai di non esserlo.
Riesce così, nella verità delle relazioni che descrive, a non essere cinico perché determinato a raccontare, a descrivere: e quindi non arreso. E’ un narratore che gioca a rimpiattino, il nostro Lu Ziyie alla guida della 1988, un folletto, un trickster che ti lascia spiazzato: e questa scelta stilistica è la stessa di Han Han personaggio pubblico: io?, dice a chi lo intervista Han Han, io sono un semplice rallysta: che ne so io di come va il mondo per davvero.
E intanto ha milioni di follower sul blog, e continua inesorabile a muovere i suoi passi sulla strada del successo che significa leadership: e quindi l’intellettuale vero, che sa parlare ai milioni, alle centinaia di milioni. E Intanto Lu Ziyie viaggia, apparentemente senza meta per le strade di una Cina che qui ci rendiamo conto tanto somiglia all’America, quella reale e quella dell’immaginario: individui sempre in movimento da una città all’altra, o dalla campagna alla città e dalla città alla campagna, senza genitori alle spalle, nutriti solo dei fantasmi degli amici e delle donne perse per strada, e con una gran voglia di futuro.
Ma tutto un po’ per scherzo neh? Non credeteci mica tanto… Li Zuyie va a zonzo, Han Han non è altro che un rallysta…
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