Avevo trovato il suo The Boyfriend (Il mio ragazzo) in tutte le librerie di Bombay. L’avevo letto, mi era piaciuto.
Non solo avevo scovato quel che cercavo, un romanzo che dimostrasse l’esistenza di un India nuova, contemporanea, capace di affrontare temi che sono anche i nostri, lontana dalle saghe famigliari di villaggio, a base di sari colorati e spezie.
La storia di un amore omosessuale a Bombay aveva la capacità di raccontare la città in molti suoi aspetti: la vita dei professionisti a cavallo tra giornalismo e pubblicità, la relazione tra le caste e i ceti sociali alti e gli intoccabili, anche le bombe e gli scontri tra fondamentalismi religiosi che hanno segnato la storia dell’India. Qualcuno, in Italia, mi aveva fatto notare: è un romanzo di costume, c’è poca letteratura alta. Sì, embè? Perché Pennacchi o la Avallone, allora?
Trovato il contatto, scoperto che il Professor Raj Rao dell’Università di Pune scendeva sempre a Bombay nel weekend, gli ho chiesto un incontro.
Cinquant’anni suonati, nessuna intenzione di esibire la propria omosessualità, Rao mi viene incontro davanti all’ingresso del Regal Cinema, uno dei luoghi simbolo della South Bombay. Non dovrei descrivere così uno dei più grandi scrittori indiani contemporanei, lo so: ma mi ha fatto l’effetto di un cagnolone che ti viene incontro con le orecchie basse, orecchie peraltro parecchio aperte ai lati del viso (una volta si diceva “a sventola”).
E un atteggiamento di dolore composto e trattenuto, una malinconia questa sì esibita, ma senza rancori, senza rimostranze. Vestito con blue jeans e camicia dello stesso colore, mi ringrazia con un certo ossequio per la mia decisione di pubblicarlo in Italia.
Io commetto l’errore tipico dei quelle mie prime settimane a Bombay: lo invito in un noto ristorante di Colaba, dove la qualità delle pietanze non è necessariamente superiore a quella dei ristoranti popolari (quindi eccelsa), ma lo sono i prezzi, e lo status dei clienti: siamo all’Indigo, giusto alle spalle del Taj Mahal Hotel, cucina fusion tra la francese e l’indiana, molti bianchi, indiani giovani stile Bollywood (cioè l’aria tamarra, camicia aperta sul petto, oro ai polsi e barba non fatta), indiani anziani stile funzionario di governo (kurta bianca e pancia prominente, arrivati sulla vecchia Ambassador bianca con autista e lampeggiane sul tetto).
È evidente la timidezza di Rao in questo ambiente, ma anche qui dovrei dire: timidezza contenuta, che non gli impedisce di richiamare un cameriere per precisare la sua ordinazione, ma vedo che gli sguardi che si lancia attorno sono di controllo. Preferisce un tavolo addossato al muro, e a tratti mi parla appoggiandosi con una spalla al muro stesso, un gesto da ragazzo.
Leggendo i suoi racconti (quelli che abbiamo appena pubblicato), avevo capito che mi trovavo di fronte a un autore di livello, ben determinato a non nascondere, anzi a rilevare nella scrittura la propria omosessualità.
Un intellettuale che nel corso di una già lunga vita ha affrontato le ovvie difficoltà (recentemente ha vinto una battaglia in università per ottenere il posto che gli spettava di diritto, Vice-Chancellor), e che si è abituato a muoversi con il passo lento e regolare di chi sta camminando in salita, su per un ghiaione di alta montagna, cercando di mantenere la propria velocità al di sotto della soglia aerobica (insomma: senza doversi fermare ogni cinquanta passi per il fiatone), tenendo per sé una fatica di cui è meglio dimenticarsi, senza stare mai a domandarsi perché si è scelto di camminare in salita, ma continuando passo dopo passo, difendendo l’integrità e la serenità del proprio pensiero: una libertà sotto tutela, insomma.
Ripensandoci, è quando gli ho chiesto quanto la propria condizione di omosessuale lo mettesse in pericolo in questa India ancora pervasa di fondamentalismo religioso e maschilistiche ovvietà, che Rao si è per la prima volta appoggiato con la spalla al muro, parlandomi.
Dopo la cena mi ha portato nel luogo simbolo del suo romanzo, tappa fondamentale della propria esistenza: il Testosterone, discoteca gay aperta da un decennio a Bombay lungo l’Apollo Bunder, in faccia al Gateway of India, a due passi dal Taj e soprattutto di fianco al Radio Club, un circolo tutto legno e vetri smerigliati per ricchi signori che immagino disturbati da una tale contiguità. Dal Testosterone escono i protagonisti de Il mio ragazzo la notte nella quale, rompendo davvero gli schemi, invece di lasciarsi intimidire da due poliziotti con i baffoni regolamentari (che sono lì, come è ovvio, a pretendere il servizietto gratis, lo stupro della Legge), li pestano per bene, tra le risate.
All’ingresso Raj mi presenta al cassiere, un po’ spaventato della mia presenza (scoprirò di essere l’unico bianco all’interno, l’accordo con le autorità quattro anni orsono era: non coinvolgete i turisti, tanto meno quelli in cerca di ragazzini; il Testosterone resta aperto, pare, grazie ai favori di qualche alto papavero, per motivi non specificati, con le intuibili relazioni di vassallaggio che Rao ben descrive ne Il mio ragazzo).
Sono il suo editore italiano, voglio vedere i luoghi descritti nel romanzo. Dentro, in un antro scuro che pare un centro sociale, con pochi tavolini e tanti ragazzi appoggiati alle pareti, i pochi che stanno ballando si ritraggono, al nostro ingresso. Raj mi chiede di aspettarlo e va a salutare qualcuno. In realtà, mi spiega, deve rassicurarli. Due ragazzini, con un po’ di trucco sugli occhi, mi si avvicinano con qualche moina. Rao mi dirà: sono molto pericolosi, anche violenti, il padrone non riesce a tenerli fuori dal locale.