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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Il segno di Troy

Ho raccontato, nel post precedente a questo, la mia impressione, una volta terminata la lettura del suo Resident Tourist, di ritrovarmi dentro alle sue tavole.

Come quando si guardava il Blob dei bei tempi su Rai3, e poi ogni trasmissione ti pareva finta, un Blob di sé stessa, perché ne veniva fuori la comicità involontaria, la fiera delle assurdità.

Ma Singapore perché rende questa impressione, da fumetto? Troy Chin ha un segno nitido, quasi geometrico, iperrealistico ma allo stesso tempo virato sulla leggerezza.

Allora mi sono chiesto: forse perché così è Singapore? Una città semplificata, una città giocattolo? È noto come le forme del design contemporaneo vadano d’abbrivio verso un segno infantile (mi vengono in mente le nuove Mini, o le 500, che sembrano la replica dei modelli originali ad opera dei disegnatori di Topolino, con tutte quelle belle curve e i fanaloni; o tanti oggetti d’uso quotidiano che sembrano prodotti dalla Chicco, senza spigoli perché non si faccian male i bambini).

Troy non compie questa deriva (né le architetture di Singapore lo fanno), ma aggiusta il tiro comunque su un segno giocattolo che è ESATTAMENTE quello sui cui si innestano le architetture di Singapore: grattacieli sulle cui forme ci si interroga invano (il famoso Marina The Sands si compone di tre torri oblique, ondeggianti come belle signore, sulla cima delle quali si posa una specie di barca!), una altissima ruota panoramica da luna park, un peraltro bellissimo teatro e sala da concerti che assomiglia a un porcospino (qui lo chiamano il Durian, un frutto locale), i grattacieli di vetro sotto ai quali, orizzontale, la mole di un ex ufficio postale coloniale sembra rifatto dagli architetti di Disneyland.

Insomma, la bravura di Troy Chin è quella di far muovere le esistenze giocattolo dei suoi personaggi (scuola, università, ufficio, matrimonio, centro commerciale, e il tutto disperatamente, e senza pensiero critico) dentro a questo segno giocattolo.

Segno che si è inventato da solo, da completo autodidatta, disegnando cinque libri l’ultimo dei quali, il quinto, gli fa venir voglia di ridisegnare i primi due. Bravo Troy.

Troy Chin, turista residente

Trovare il modo giusto per descrivere questo artista non è semplice. Vorrei evitare di andare per frasi fatte.

Sul palco del Singapore Writers Festival era a confronto con altri due graphic novelists locali. Gli altri sorridevano soddisfatti, lui aveva l’aria più incazzata che mai.

Al centro della sua produzione artistica (cinque volumi intitolati The Resident Tourist, la storia di un sé stesso ritornato a Singapore a trent’anni, dopo un decennio a New York) sta una sensazione di perdita e di rancore: la Singapore della sua giovinezza non c’è più, i suoi amici di un tempo (erano compagni di scuola ma anche una rock band) li ritrova sfiniti dietro a un sogno o un progetto di vita che prevede unicamente – a dir lui – soldi soldi soldi. La carriera, la famiglia, ogni genere di consumo concesso.

Non c’era niente di cos’ straordinario, in questo suo dire: il rischio delle frasi fatte e del luogo comune lui lo corre tutto. Neppure è una novità trovare anche in lui quel po’ di narcisismo che, non appena gli viene messo tra le mani un microfono, lo illumina dall’interno, lo aiuta a pronunciare frasi argute da uditorio.

Ma se il Troy Chin protagonista del Tourist è davvero lo stesso Troy Chin che ho davanti io adesso (il banco del bar, per me una Guinness per lui un tè al limone perché, dice , alle otto va a correre tutte le sere: la disciplina dello scrittore), c’è molto di vero nell’incazzatura che esibisce.

Come ogni scrittore, se lo conduco su un piano di conversazione piatto, lui esibisce luoghi comuni che anche noi ci raccontiamo spesso nella nostra Italietta, le relazioni tra le persone che non sono più le stesse, la scomparsa dei luoghi di incontro, l’eterno telefonino o mail o Facebook, tutti in carriera insoddisfatti e consumatori.

Ma se lo imbroglio un po’, se lo conduco a parlar d’altro più semplicemente (che so, sua nonna, o gli autobus di Singapore) senza chiedergli dichiarazioni programmatiche, vien fuori una persona incazzata sinceramente, se pur con garbo.

Nel Resident Tourist, non a caso, tutto acquisisce spessore. A cominciare dagli occhi del protagonista Troy, rivestiti di un paio di occhiali dalle lenti CIECHE: cioè, lui è l’unico di cui non si vedono gli occhi.

Per continuare con la compassione con cui ascolta tante storie di delusioni e sfighe da parte dei suoi amici, e dalla misura con la quale si incazza con loro. O con una ragazza, Mint (ma questa è la storia che convince meno, come se ci fosse da parte dell’autore la necessità di raccontarsela, più che raccontarla).

Io, qui seduto al bar, cerco di andar di sguincio, di non farlo parlare di queste sue vere e proprie ossessioni. Per il passato, il presente e il futuro. Il passato che in questa storia in cinque volumi, scritta e disegnata in poco meno di tre anni, compare come passato distante (i dieci anni a New York, il fallimento di un aspirante musicista che si ritrova dietro una scrivania negli uffici di un produttore rock), o come passato presente (l’infanzia e la scuola superiore a Singapore, con i suoi luoghi e le sue relazioni).

E il futuro del suo progetto attuale: una striscia quotidiana, LOTI, su un gruppo di bambini e il loro cane volante, e c’è chi lo vede e chi invece non ci riesce: un modo – spiega lui all’uditorio – di ricordare come era più semplice essere bambini ai suoi tempi, quanto più gioco e immaginazione: come un monito, dice, ai genitori di oggi.

E sicuramente una voglia di futuro: lo confessa il personaggio Troy Chin alla sua Mint, in cima al Flyer di Singapore, la ruota panoramica più alta del mondo, dove lei gli dice, papale papale: tu non hai un lavoro, Troy, che futuro vuoi costruire con me? Perché così è: quando Troy tornò a Singapore non aveva in mente altro se non raccontare quel che ritrovava e quel che avrebbe voluto ritrovare.

Scrive le sue tavole, il personaggio Troy Chin del Tourist, e così fece l’omonimo artista, sentendosi dire da ciascuno: perché tu non lavori? Chi sei, se non lavori? E lui si incazza, ma scrive, disegna (senza che mai l’abbia saputo fare: e si vede la differenza tra il segno del primo volume e quello del quinto). Si è autopubblicato per tutti questi anni, i volumi sono in tutte le librerie, racimola qualche lira (Singaporean Dollars in verità) con lavori su commissione, ma non manca mai la sua LOTI-striscia quotidiana.

Che pubblica sul suo sito, naturalmente: nessun giornale, fino a ora, l’ha voluto (dice candidamente: il mio pubblico è fatto di adulti, tra i trenta e i quarantacinque, altro che bambini).

Venerdì, nel salone delle cerimonie del palazzo presidenziale, hanno consegnato gli Young Artists Award 2011: lui è uno dei cinque. Un paginone sullo Straits Times. Chissà che adesso Mint non cambi idea, e che non gli dica più: Troy, che futuro vuoi che diamo ai nostri figli, in QUESTA città? E lui risponda: è la MIA città. Qui voglio vivere.

A me, terminata la lettura del quinto Tourist, resta questa sensazione: percorro le strade di Singapore e la vedo disegnata dal tratto leggero, pulito, di Troy Chin: i grattacieli, i monumenti, gli autobus e le macchine: vuol dire che funziona no? O vuol dire che è Singapore, la città stessa, a essere un fumetto, un cartone animato?

Mi dice: ma questo è il centro, per i turisti e i businessmen. Un giorno ti porto su da me, nei quartieri residenziali, a nord. Dove c’era il mio parco giochi.

Il suo sito: DrearyWeary, che tradotto sta per: triste e annoiato. E in home page, non per caso, ha una muta di bambini ridanciani.

Foto: Eustaquio Santimano

La guerra (fredda) delle lingue

Una delle architetture piu belle della scintillante Singapore è la National Library, un raffinato esercizio di equilibri di vetro e acciaio bianco, sulla cima del quale spicca, tondeggiante, il POD, una struttura che ricorda lo Scrigno del Lingotto a Torino, appoggiato su un angolo dell’edificio, sporto sulla citta.

Ci si appoggia alla balaustra e ci si gode il passaggio dal giorno alla notte, in questa metropoli che sta diventando una delle piu belle del mondo.

Del resto, non si puo far altro che guardar fuori: la presentazione del nuovo romanzo di Yeng Pway Ngon è interessante, un’ora di discussione serrata, ma rigorosamente in cinese… Non sono l ‘unico sorpreso dalla scelta, ma il romanzo è scritto in cinese complesso (quello di Taiwan, per intenderci, che perfino i nostri traduttori piu esperti fan fatica ad affrontare), il mio amico Pway Ngon si sente piu a suo agio in cinese che in inglese, e…

E a questo punto anche a Singapore si comincia a sentire l’influenza del Dragone. Arriva la letteratura cinese in cinese, se ne prendono le televisioni, e la sua popolazione di origine cinese si chiede perché fare la fatica di comunicare sempre e cominque in inglese, visto che in casa si parla il dialetto Hokkien, Cina meridionale.

Mi avevano detto che la narrativa di lingua cinese e malese qui sta riducendosi al lumicino. In tutto il mondo dove l’inglese è disponible (penso all’India, a tanti paesi africani, alle Filippine della diaspora), prima o poi l’inglese vince. Ora invece, in Asia, comincia a regredire: l’altroieri ho postato su Fixi, la collana in malese di Amir Muhammad a Kuala Lumpur. E ora questo segnale chiaro.

In ogni caso daremo in lettura a un esperto di cinese complesso il romanzo di Pway Ngon: una storia che si nutre nella sua autobiografia, e segue un gruppo di personaggi dagli anni Sessanta ai Dieci, da una giovinezza ribelle di mobilitazioni per lindipendenza prima e per la democrazia poi, alla Singapore odierna, dove nasce un’opposizione parlamentare che prende il 40% dei voti e il Web detta legge. Singapore comincia a lievitare nella mediasfera: se ne e’ accorto anche Pascale, sul Post.

Foto: inju

Chisura di festival a Singapore

L’ultimo weekend del Singapore Writers Festival ha visto finalmente la presenza di qualche ospite di prestigio dall’Asia.

Il paradosso è stato però la discussione con Murong Xuecun e Xi Er sulle problematiche della traduzione dal cinese nelle lingua occidentali. Molti ne hanno parlato, a margine del festival, delusi dal fatto che la sessione fosse in cinese senza… traduzione.

In questo paese dalle molte lingue l’argomento potrebbe generare utile dibattito, anche perché qui si sta cominciando a fare esperienza di un ritorno al cinese, dopo decenni in cui l’inglese si è imposto come lingua franca e del sistema scolastico.

I ragazzi, abituati fino a pochissimi anni fa a parlare cinese tra di loro e in famiglia ma a leggere in inglese, ora trovano una produzione letteraria (e cinematografica) in cinese. Questo porta alla ribalta anche una narrativa singaporeana in cinese che in passato restava nell’ombra. Insomma, tra Chinese e English speakers, bisognerà che cominciamo a parlarci davvero. Qui e nel mondo intero.

Tra gli autori presentati, Bi Feyu si è trovato di fronte a un uditorio sorprendentemente striminzito. Bi Feyu è autore di due romanzi che in inglese sono stati tradotti con Moon Opera e Three Sisters. È un esponente di quella schiera di scrittori cinesi più famosi all’estero che in patria, perché capaci di andare a incontrare il gusto dei lettori occidentali narrando di cambiamenti a cavallo delle varie epoche storiche (la conquista del potere da parte dei comunisti, la Grande rivoluzione culturale, gli Anni ’80 delle speranze di cambiamento frustrate dalla repressione di Piazza Tien an Men, il boom economico recente delle metropoli).

Abbiamo già citato un’intervista di Jo Lusby, prestigiosa editor di Penguin a Pechino, che elencava questi elementi del gusto occidentale che a suo parere gli scrittori cinesi possono andare a incontrare con successo. Ma a Singapore casca l’asino: Bi Feyu interessa meno un popolo di lettori di origine cinese che non è disposto a mediazioni di quel tipo.

Sempre in tema di relazioni tra lingua inglese e lingue locali asiatiche, ecco l’annuncio della long list del Man Asian Literary Prize di Hong Kong. Il premio era nato in origine per favorire l’accesso al mercato globale di opere scritte in cinese, indonesiano, coreano, malese o hindi e tamil (infatti concorrevano opera non ancora pubblicate in inglese, ma per le quali fosse disponibile una traduzione in inglese che veniva commissionata appositamente dalle case editrici o dagli autori stessi).

Ora partecipano opere già pubblicate, con il risultato sì di innalzare il livello dei romanzi che concorrono, ma al contrario l’effetto di prensentare romanzi che già sono stati pubblicati o lo saranno a breve in italiano. Murakami, Gosh, Shin Kiung-sook e tanti altri. Insomma meno interessante per chi fa scouting, e forse anche fuori tempo massimo per qualche edizione europea.

Il Singapore Writers Festival diventa a partire da questa edizione annuale: vedremo che direzione saprà prendere nel 2012. Io spero che riesca a guadagnarsi, magari anche per la posizione geografica, un ruolo di crocevia asiatico. Certo però, con traduzione simultanea dell’inglese in cinese e del cinese in inglese.

Cronache (tardive) dal Singapore Writers Festival

Due weekend, e in mezzo un mercoledì festivo (Diwali, il festival indiano delle luci, perché qui un bel pezzo della popolazione è Tamil).

Il primo weekend del Singapore Writers Festival è dedicato agli ospiti anglosassoni: Australia e UK soprattutto, paesi che sono ancora riferimenti culturali imprescindibili per una popolazione all’80% di origine cinese (ma che usa l’inglese come lingua ufficiale e del sistema scolastico).

Noto una certa condiscendenza nel corso degli incontri, certo qualcuno (per esempio Andrew Motion, poeta) è anche baronetto, ma è chiaro che sia per i poeti locali che per il pubblico a uno scrittore inglese ci si rivolge in un modo, a uno asiatico in un altro.

Mica male il panel “Cosa significa appartenere”, con tre donne. Alice Pung, concepita nella Cambogia di Pol Pot da genitori cambogiani ma fortunatamente nata in Australia.

Poi la spettacolare (perdonate l’esagerazione) poetessa Grace Chia Krakovic, singaporeana moglie di un diplomatico che ha condotto la propria vita cambiando casa ogni tre anni (intendiamoci: Brasile, Finlandia, Filippine, Perù…) portandosi dietro tre figli tre e conquistandosi uno spaesamento che si trasforma in parola, una di quelle persone che non si finirebbe mai di ascoltare, una specie di aliena che sicuramente prefigura un futuro che ci riguarda.

E Oka Rusmini, Indonesiana che come tutti gli indonesiani non parla inglese. Rusmini è una delle autrici/autori tradotti in inglese dalla Lontar Foundation. Ne abbiamo già parlato sul blog. Bella iniziativa, almeno l’editoria internazionale si può leggere un po’ di narrativa indonesiana. Una pecca: mancano autori più giovani, narrativa degli ultimi dieci anni.

Mercoledì, bella festa per i dieci anni della Quarterly Literary Review of Singapore, magazine online che abbiamo da tempo tra i nostri siti consigliati. Presenti i maggiori poeti e critici letterari di Singapore, musica, vino, chiacchiere.

Sabato e Domenica 29-30, una pattuglia di asiatici, finalmente: Bi Feyu, Vikas Swarup (che dopo Q & A –  Slumdog Millionaire è come il prezzemolo, lo trovi dovunque), Kunal Basu e Jose Dalisay dalle Filippine. Vi racconteremo.

Non possiamo invece raccontarvi di una discussione sicuramente interessantissima tra Murong Xuecun, Xi Er e lo stesso Bi Feyu, sul tema della difficoltà di tradurre narrativa dal cinese: la discussione è in cinese. Così come sono in malay tutti i panel con scrittori di lingua malay. Non pare una furbata.
Singapore multilingual…

Toh Hsien Min

Da un anno cerco di scrivere un post su Toh Hsien Min, uno dei maggiori poeti di Singapore, probabilmente il più interessante nella generazione entro i cinquantanni.

Intendevo cominciare con una panoramica sui grattacieli che circondano il bacino di Marina Bay, quello dove si è costruito negli ultimi dieci quindici anni – con una accelerazione recente che ne sta facendo un’icona turistica per l’Asia intera.

La panoramica dovrebbe terminare sui parallelepipedi blu – o trasparenti, o meglio ancora translucenti di luci da scrivania, scrivanie che ospitano gli operatori finanziari di una tra le piazze appunto finanziarie più importanti dell’Asia, e svelare che su una di quelle importanti scrivanie siede il mio importante poeta.

Dedito, mi spiega lui, a “costruire modelli di aggiustamento dei default”. Gli ho chiesto: sarai mica uno di quelli che han combinato il megacrac? Dice no, semmai i miei modelli servirebbero a rientrare. Ma io sono solo un matematico, di soldi non ne so nulla. Dunque finanziario, matematico, poeta, di cognome fa Toh e Hsien Min di nome.

Mi piace spendere del tempo con lui, ma la difficoltà a raccontarlo deriva dalla difficoltà nel parlargli. Uno slang stretto in quello che loro definiscono Singlish, bofonchiato da un piccoletto incline al gioco di parole, e che le parole, come si dice, se le mangia, e mi rende quasi impossibile mantenere l’attenzione accesa per più di un’ora o due.

Insomma: si resta ai preliminari. Che sono una cena autenticamente local (questa piazza finanziaria è anche turistica e gourmet, ma lui mi porta in un quartiere popolare, dove sotto una grande tettoia stanno le baracchette degli hawkers, come dicono qui, sportelli dietro ai quali si confezionano pietanze insuperabili: altro che chef internazionali!) Insomma io mangio, lui si mangia le parole. Non la Parola, che è il suo vero mestiere e la sua passione: ma questa me la regala solo in forma scritta, sorry.

Il lavoro piu importante di Hsien Min è Means to an End, una raccolta di poesie che l’anno scorso era tra i tre finalisti del Singapore Literature Prize, assieme a una raccolta di racconti e a un romanzo (e a quello, City of Small blessings di Simon Tay, è andato il premio). Alcune sue poesie sono uscite anche in una curiosa antologia si Ethos Books: singaporeani tradotti in italiano e un italiano, Tiziano Fratus da Torino, tradotto in inglese. L’antologia si chiama Double Skin, forse in qualche libreria di Torino…

Peccato, noi non ce la facciamo a fare poesia. Ma forse, con l’imporsi dell’e-book…

Mannaggia, riuscissi a parlarci con più facilità. Qui mi confermano: sì lui spesso si esprime in modo criptico, poco comprensibile. È quasi un gergo underground. Mi domando che gergo usi nel suo ufficio di luci e vetri (però di giorno appare di un blu intenso).

Le librerie di Singapore

A una anno di distanza, una verifica dei cambiamenti in atto a Singapore. Ha chiuso Borders, qui come altrove. Ma nessuno ha cercato di rimpiazzarla, non sembra essere nato un nuovo spazio di quel livello.

La libreria più grande resta Kinokuniya, catena giapponese presente in tutto il Sud-est asiatico. Ci sono due entrate: quella, diciamo così, casuale, dalle scale mobili che risalgono piano dopo piano il centro commerciale, e quella principale, accessibile direttamente dalla strada.

Quella casuale è posizionata sui reparti dell’illustrato e del cosiddetto self-help: tomi di vario tipo che insegnano a sopravvivere nella modernità raggiunta di recente.

L’entrata dalla strada è invece sulla fiction (qui definita come Literature). Sui primi banchi e nello scaffale bestsellers spiccano romanzi americani, britannici, australiani, insieme all’ultimo di Aravind Adiga, indiano nato in australia.

Però subito a seguire c’è una scaffalatura nuova di zecca: letteratura cinese, giapponese, asiatica, indiana e “local“. Segnale di attenzione da parte dei lettori per il proprio continente in ascesa.

Naturalmente stiamo parlando dei volumi in lingua inglese, perchè in un paese dove l’inglese è la lingua del sistema scolastico, la più grande libreria conserva ancora quasi la metà dello spazio ai libri in cinese. Che, mi dicono, sono per la maggior parte di editori cinesi, ma con una buona presenza dei taiwanesi. In ogni caso la literature cinese o inglese che sia, occupa non più di un quinto dello spazio totale.

Foto: penguincakes

Esangui esistenze a Singapore

È un piccolo paese, Singapore: quattro milioni di abitanti su un’isola di 40 chilometri per 30. Praticamente un centro città degli affari, un’ampia fascia residenziale, una piccola e forse residua zona industriale, e una periferia dove vivono i lavoratori immigrati. Molto turismo, sopratutto asiatico: parchi giochi e casinò.

Il mio amico Fong Hoe Fang, di Ethos Books, mi dice: è difficile che emerga della buona narrativa da un paese di centri commerciali e pendolari. In effetti la scena dei romanzi locali è spesso asfittica.

Come in Heartland, di Daren Shiau, che lui ha pubblicato qualche anno fa, dove un gruppo di ragazzi alle soglie della laurea confrontano le loro esistenze. Razze diverse, culture e religioni lontane tra di loro (qui ci sono cinesi, bianchi di origine inglese, Malay e un po’ di immigrati anche recenti dall’India), in fondo ciò che è più interessante è proprio la capacità di convivere senza conflitti da parte dei personaggi del romanzo, a causa di un appiattimento che pare senza scampo, dove il passaggio dalla scuola al lavoro sembra non avere soluzione di continuità, così come quello dalla giovinezza all’età adulta.

In questa sorta di Svizzera asiatica gli artisti e gli scrittori più acuti restano concentrati su un minimalismo del quotidiano (un buon esempio è il poeta Cyril Wong), e la loro via di fuga sembra essere il viaggio verso l’Occidente, e recentemente anche verso la Cina.

I romanzi che sanno alzare lo sguardo sono quelli di autori più in là con gli anni, che parteciparono ai movimenti pro democrazia negli anni ottanta, come Su-Chen Christine Lim, il cui Rice Bowl bene racconta quegli anni.

Foto: AndyLeo@Photography

teach_kim@mailxu.com