Sull’ultimo numero del settimanale Internazionale, L’atelier, di Yeng Pway Ngon, è stato inserito tra i libri consigliati.
L’atelier citato da Internazionale
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4624
Un’anteprima di L’Atelier su China Files
China Files pubblica un estratto da L’Atelier, di Yeng Pway Ngon, il nuovo libro appena uscito per Metropoli d’Asia.
Il furgoncino correva spedito sulla strada, Hanguang sedeva accanto al guidatore; di tanto in tanto si scambiavano qualche frase mentre Jianxiong, seduto dietro, osservava in silenzio il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa sottosopra che andava su e giù come i bracci sovraccarichi di una bilancia. Dopo che era rimasto per tre anni in un kampung malese ad allevare polli e fare dolcetti senza ricevere mai alcuna notizia, l’organizzazione gli aveva finalmente permesso di unirsi alla guerriglia.
Durante il primo anno Jianxiong trovava la sua situazione assurda e anche molto deprimente; aveva lasciato famiglia e fidanzata e affrontato i pericoli della clandestinità per allevare polli? Hanguang percepiva la rabbia e l’abbattimento di Jianxiong, gli diceva di avere pazienza, che i capi dovevano metterlo alla prova prima di assegnargli dei compiti. E come facevano per metterlo alla prova? Attraverso Hanguang? Era molto confuso.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4609
Il grande romanzo di Singapore: L’atelier, di Yeng Pway Ngon
Il grande romanzo: perchè narra più decenni di vita di questa anomala città stato, piazza finanziaria legata all’occidente un tempo, oggi riciclata in luna park per il turismo asiatico. Dittatura anche feroce sulla via di un progressivo annacquamento, grazie a una opposizione sociale che guadagna consensi (il 40% alle ultime elezioni). Strano, curioso esperimento in vitro per la nuova e prorompente classe media asiatica, che qui sperimenta le gioie e le depressioni di un’esistenza contemporaneamente iperregolata, noiosa, e eccitante di nuova trasformazione.
Ma questo è solo lo scenario. Il romanzo di Yeng Pway Ngon racconta le vite di un gruppo di giovani artisti e del loro più anziano mentore, le storie d’amore, i progetti e le disillusioni, le personalità artistiche e l’impegno sociale, la galera, la guerriglia, la vita famigliare. Personaggi che traspaiono distinti da ogni riga, vividamente descritti dalla penna di uno scrittore che in questa narrazione mette tanto della propria autobiografia.
Artista lui stesso, proprietario di una mitica libreria, la Grassroots Booksroom, scrittore insignito del più grande riconoscimento alla carriera nel suo paese, il Cutlural Medallion, quindici giorni fa insignito (con L’Atelier) del prestigioso South East Asian Writer Award a Bangkok, e citato tre volte (anche per L’Atelier) tra i migliori dieci libri in cinese dell’anno dalla prestigiosa Asia Weekly di Hong Kong . Già: perchè la lingua originaria de L’Atelier è il mandarino, spesso impreziosito dai dialetti utilizzati dalla popolazione cinese di Singapore (la stragrande maggioranza nel paese), dialetti del sud della Cina come il cantonese, l’Hokkien e altri.
Metropoli d’Asia detiene i diritti internazionali di questo romanzo. Ora, grazie a una imminente edizione in inglese a Singapore, lo proporremo all’Asia e al mondo. È la nostra vocazione: scoprire voci trascurate dall industria internazionale del libro, portarle a un pubblico sempre più vasto.
E, a proposito, cari lettori: grazie dei vostri incoraggiamenti, grazie della vostra amicizia su Facebook, grazie dei vostri rilanci su Twitter. Grazie di tenerci in tante librerie italiane nonostante la crisi dell’editoria che morde grandi e piccoli. Siete voi, che continuate a premiare le nostre scelte.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4591
Yeng Pway Ngon vince il SEA Award 2013
Il 14 ottobre l’autore singaporeano Yeng Pway Ngon riceverà uno dei South East Asian Writers Awards a Bangkok, sede dell’evento. Di lui Metropoli d’Asia manderà in libreria a breve L’Atelier, il suo romanzo più recente, citato da Asia Weekly di Hong Kong tra ‘i migliori dieci romanzi in lingua cinese dell’anno. Ecco una sua intervista precedente su YouTube.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4521
Poesie di Yeng Pway Ngon
Su Cha viene presentata la traduzione in inglese di cinque raccolte di poesie di Yeng Pway Ngon, lungo un periodo che parte dai suoi esordi negli anni ’60. Nelle varie opere ci sono osservazioni sulla scena artistica e sulla società cinese, nonché su quella di Singapore, da dove l’autore proviene. Il suo libro Art Studio uscirà a settembre in italiano con Metropoli d’Asia, con il titolo L’atelier.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=4323
Art Studio di nuovo premiato
Art Studio di Yeng Pway Ngon, che uscirà con Metropoli d’Asia all’inizio del prossimo anno, ha vinto la sezione cinese del Singapore Literature Prize 2012.
Da qui, ingrandendo l’immagine, si può vedere l’elenco dei premiati di questa edizione.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=3376
Art Studio premiato, aspettando la versione italiana
La rivista Asia Weekly di Hong Kong ha inserito Art Studio, del singaporeano Yeng Pway Ngon, tra i migliori dieci romanzi in cinese del 2011. Il libro uscirà a inizio 2013 con Metropoli d’Asia, che ne detiene i diritti mondiali. Qui sotto un ritaglio dallo Straits Times, giornale di Singapore che parla del libro.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=2039
Ballard a Singapore
Altro che esangui esistenze, come avevo intitolato un mio post due mesi fa. Singapore è il futuro.
Singapore, città stato di cinque milioni di abitanti, highways, grattacieli e quartieri residenziali, parchi giochi e casinò, acque, fuochi d’artificio, cielo sempre in movimento e stagioni immutabili, una eterna estate piovosa che non lascia traccia del suo passare.
Il giorno prima di partire ho incontrato il mio amico editore Fong Hoe Fang in un coffee-shop a Paya Lebar, sotto a un ufficio postale cilindrico contornato da ascensori a vista che salgono e scendono come navette spaziali.
Seduti al tavolino all’aperto, dopo la pioggia (e quindi con una luce molto favorevole, devo ammettere) io lo ascoltavo parlarmi dei suoi poeti e del progetto di portare la poesia contemporanea nelle scuole, su uno sfondo da cartoon: la stazione sopraelevata del metrò, il binario sopra i piloni, i treni in arrivo o in allontanamento davanti a una infilata di palazzi tutti uguali ma di colori diversi.
Il tutto circondato da altissime acacie a loro volta ricoperte di rampicanti. Pensavo, cos’è? Cos’è che mi attira di questo luogo per alcuni asfittico, per altri opprimente, e per molti semplicemente l’unica esistenza possibile al di là dell’emigrazione. E finalmente mi è venuto in mente Ballard.
J.G. Ballard, scrittore di fantascienze sociali che rappresentano qui un presente di ceto medio diffuso, tutto uguale, tutto egualmente percorso dalla paura di non farcela, di restarne tagliati fuori (per esempio: Condominium, Cocaine Nights, Super-Cannes). La piccola borghesia (cosmica), se ancora ha un senso questo termine in un mondo che come dice giustamente qualcuno, rischia di non avere altro all’infuori di sé.
Interrogato sul futuro Ballard rispondeva: questo è il mio timore, che il futuro sia un vasto e vuoto quartiere residenziale dell’anima. Ed eccolo qua: Singapore. Singapore che io proprio per questo adoro, perché è PURO, un esperimento sociale senza interferenze, senza vie di fuga per lo sguardo, senza possibilità di fraintenderlo, di disconoscere la nostra società e le nostre esistenze (esangui) per quel che sono.
A Ballard chiedevano: come è possibile che proprio tu, il cantore della violenza sottesa, dell’inespresso, del banale orrore quotidiano connaturato a questa condizione sociale, poi ti sia rintanato a vivere, appunto , in un banalissimo quartiere suburbano, residenziale, di una media cittadina inglese? E lui rispondeva: perché è qui che si gioca la partita. Questo è il luogo della lotta, dove questa gente si scontra giorno dopo giorno. È qui che lo si vede senza filtri.
Sono d’accordo: è un iniezione di verità, di solido terreno reale su cui poggiare i piedi. Singapore lista grigia, dove ancora fanno tappa alcuni tra i peggio capitali del globo. Singapore dove ciascuno ne ha una sua fettina, Singapore che teme e confina gli immigrati (più del 10% dei residenti) che fa lavorare nei suoi cantieri, lungo le nuove strade pagate dalla congestion charge. Leggete Carver, amici miei poeti di Singapore, leggete Cheever: quando, qui, un grande romanzo sul millennio suburbano?
Foto: hkfuey97
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1651
Art Studio
La presentazione a Singapore del suo romanzo era in cinese, ma a cena Pway Ngon mi parla in inglese. Una lingua imperfetta, ma sufficiente per raccontarmi di questo suo ultimo romanzo, Art Studio appunto.
C’è molta autobiografia. Ci sono le vite di un gruppo di artisti, seguiti dalla loro giovinezza (gli anni Sessanta) ai giorni nostri. Artisti, ma anche scrittori e giornalisti che Pway Ngon ha visto passare per trent’anni dalla sua libreria, piccola ma prestigiosa: la Grassroots Book Room.
Una libreria che ancora oggi combatte per la sopravvivenza, dentro a un mall (cioè a un edificio a più piani dove sui corridoi e sulle balconate si affacciano negozi di ogni tipo), oramai troppo vecchio: costruito negli anni Settanta, appunto, non in grado di competere con le nuove e magniloquenti architetture contemporanee, con l’esibizione del lusso.
Ma la Grassroots Book Room ha ancora un nome importante, il mall in questione è proprio di fronte alla National Library. Pway Ngon, stufo di passarci la giornata dopo più di trent’anni, la sta affidando in gestione, e finalmente si prenderà più tempo per scrivere.
Scrivere: di sé stesso, direi. È uno di quegli scrittori che della propria esistenza fanno il fulcro della narrazione. Pway Ngon, credo, ha bisogno di farci sapere quel che ha visto attorno a sé, e sa farlo senza indulgere in narcisismi esasperati anche quando si tratta di menzionare i suoi anni di galera, la miseria conseguente a questi, la difficoltà di affermarsi come scrittore.
Quando Pway Ngon mi racconta dei suoi anni giovanili, racconta raramente di sé: dice io, ma solo per introdurmi a ciò che lo circondava.
Qui a cena gli argomenti sono vari. Mi racconta Chennai, in India, dove lui è andato a stare per qualche settimana, per capire l’ambiente di provenienza di uno dei suoi personaggi, indiano di origine. Mi parla di un pittore, e io non riesco a distinguere il personaggio del romanzo dalla persona reale, l’amico che lo ha accompagnato per molti anni.
E poi, inevitabilmente, si torna a parlare della lingua, il cinese in cui scrive. Qui, di nuovo, la questione si fa complessa. Il cinese si basa sugli ideogrammi, ciascuno dei quali è foneticamente una sillaba, ma ha comunque un significato autonomo.
In sostanza: quando un cinese scrive o legge è come se avesse due piani di lettura, ogni parola ne contiene in sé altre due o tre. Quando scrive, invece di cercare una musica, un suono per le proprie parole, cerca una successione di immagini attinenti alla narrazione. Per questo la letteratura cinese è di così difficile traduzione nelle nostre lingue.
Ma da Pway Ngon scopro qualcosa di nuovo. Perché la domanda è: scrivendo al computer, cosa succede? Che tastiera usi? Come fai ad avere a disposizione centinaia di ideogrammi? E la risposta è sorprendente: io scrivo con il vostro alfabeto. Pway Ngon, e così tutti coloro che scrivono direttamente al computer, traslittera automaticamente. Pensa una parola pronunciandola dentro di sé, la scrive su una tastiera qwerty come tutti noi, e un programma fa comparire sulla pagina l’ideogramma corrispondente.
A me sembra un processo faticoso, pazzesco: lui mi dice, mentre scrivo è come se cantassi. Mentre rileggo, come se guardassi un mio dipinto.
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1612
Un indovino gli disse
L’abbiamo già sentita: la minacciosa profezia valse a Terzani un libro, uno dei suoi migliori (ma io non stravedo per Terzani), perché fu costretto a viaggiare un anno intero senza prendere aerei, quindi via terra, attraversando le frontiere più remote e battendo le strade più dissestate.
Qui abbiamo un giovane indiano di 28 anni, trapiantato a Singapore dove si è laureato in ingegneria, e dove ci è rimasto: a fare film, a dipingere, a racimolare qualche soldone come consulente finanziario part-time (sic!), perfino a scrivere un romanzo, The Diary of an Unreasonable Man, che Penguin India pubblicò qualche anno fa.
La domanda che pongo a Madhav Mathur è: non ne fai troppe? Tra l’altro lui esibisce sempre un paio di occhiaie che denotano sonno arretrato (dormo due tre ore per notte, mi confessa): il suo primo film, uscito in sala a Singapore, si intitolava The Insomniac e raccontava uno scrittore alle prese con una sindrome da autodistruzione, incapace di staccarsi mentalmente dal proprio romanzo, che finisce col vagare la notte per le strade di Singapore inseguito da mostri di vario tipo, suoi e altrui.
Lo salverà una donna? Tra l’altro Madhav ha una bellissima giovane moglie, una consulente finanziaria (sic2!) russa, biondissima insieme a lui nero negli occhi nei capelli e nella pelle, che lavora per Deutshe Bank.
Ripeto: non ne fai troppe, Madhav Mathur? The Outsiders, l’ultimo film, è stato a Venezia a un evento collaterale alla mostra, poi in California, e ovviamente al Singapore Film Festival. I suoi quadri sono stati esposti (e dice lui molto ben venduti) anche a Delhi e Hong Kong. Ora mi parla di un suo script nelle mani di una produzione di Bollywood, forse con regia addirittura di Anurag Kashyap.
E la storia che ha per la testa in questo momento non sa se diverrà un libro, un film o più probabilmente un testo teatrale: una storia ambientata in un India del futuro, dominata dal fascismo induista.
Digressione: quando un intellettuale laico in Asia vuole definire l’oppressione fondamentalista, sia essa islamica, induista o perfino cristiana, usa il termine “fascismo”. Non integralismo o fondamentalismo. Perché non ne sottolinea la costrizione esercitata da una morale arbitraria, sul piano del comportamento individuale, ma sente piuttosto l’esercizio del potere, la dittatura dentro a ogni segmento della società. Insomma: del velo gli frega meno. E quest’uso del termine “fascismo” l’ho ritrovato in India, in Malesia, in Bangladesh.
Mathav è comunque uno che si diverte un mondo a fare quel che fa: e la conversazione corre sciolta, veloce, intorno al mestiere dello scrittore, al rapporto con la famiglia e la religione (induista appunto) di sua madre, con il pubblico giovanile e meno, con le ossessioni che spesso muovono gli artisti.
Ed ecco comparire l’indovino: non uno solo, ma cinque! Cinque indovini che a sua madre dissero: tuo figlio morirà a trent’anni. È forse per questo, dice ridacchiando, che penso di dover fare tutto subito, senza perdere tempo. E capisco che non lo dice mica per scherzo. Con un sospirone dice: beh, se mia madre avesse evitato di portarmeli per casa, quelli, mi avrebbe fatto un piacere.
Io penso, e non gli dico: questa è quasi la maledizione di una madre. Poi pero’ glielo dico. Lui conferma, senza esitazioni. E aggiunge: comunque uno di questi cinque recentemente ha detto che no, le cose son cambiate, non morirò più. Provo a fargli raccontare di più: la sua famiglia. C’è un blocco, strada chiusa, non si procede.
Chiedo: ma tu ci credi, agli indovini?
Lui: direi proprio di no. Però, chissà cosa ho per la testa, io. E poi: ma gli indovini, dai! Non sono mica matto!
https://www.metropolidasia.it/blog/?p=1605