L’editoriale di Andrea Berrini sull’uscita di Ho il diritto di distruggermi, il nuovo libro di Kim Young-ha appena uscito per Metropoli d’Asia. Originariamente pubblicato sul blog In diretta dall’Asia.
Tra me e la Corea si è formato una sorta di schermo. E’ l’unico grande paese dell’area che non posso dire di conoscere davvero. A Seoul sono stato quattro giorni in tutto.
Kim Young-ha è venuto a Mantova, lo scorso settembre. Ci siamo seduti attorno a un tavolo un paio di volte, insieme a sua moglie. Tortelli di zucca, certamente. Ma non ci siamo raccontati quasi nulla, e mi dispiace.
In Corea del Sud mi invitò anni fa una istituzione locale legata all’editoria. Insieme a un leggendario agente britannico (agente letterario, intendo, non James Bond) mi ritrovai a tenere discorsi a gruppi di editor (e più di che quel che dissi io, ricordo quel che imparai da Toby Eadie). Il pubblico di qui giorno era un giardino fiorito di faccine femminili, forse un uomo su venti ma non di più. Dovrei dire: piccole editor sorridenti, tutto molto orientale, ma il mio ricordo crea solo macchiette, è troppo sfrangiato e lontano. Chi lavora nell’editoria in Corea, mi dissero, sono le donne: nove su dieci. E la platea dei lettori non si discosta molto da quella squilibrata relazione percentuale.
Kim Young-ha è un omone, a confronto. Ne ho capito una forza e una convinzione in quel che fa, ma non so cosa ci stia dietro, che personalità, che formazione. È figlio di un militare di carriera, la sua giovinezza si radica in questa condizione, e non trova radici geografiche per i frequenti spostamenti ai quali è costretta la famiglia.
Quando decisi di acquistare Impero delle Luci, Young-ha mi fece avere un suo messaggio: diceva, non credevo che un editore italiano avesse il coraggio di pubblicarmi, e te ne ringrazio. Cosa intendeva dire?
Era convinto che nel paese del Vaticano il suo nome fosse off limits: a causa proprio di questo Ho il diritto di distruggermi, in libreria da oggi. Che gira intorno a una tematica “sensibile”: il protagonista è un killer a contratto, che aiuta a suicidarsi chi lo desidera. Esteta egocentrico, perversamente convinto di una sua missione: far emergere le pulsioni autodistruttive delle sue vittime, o beneficiari.
Gli scrissi che no, la censura Vaticana non ha questa forza. Ne ha, ma non al punto da impedirmi di pubblicare Kim Young-ha. Che forse si è fatto sviare dal moralismo delle cento sette cristiane presenti nel suo paese. Di Seoul, in quei quattro giorni scarsi, mi aveva colpito la proliferazione di croci: ovunque, sui tetti, grandi croci al neon colorate. Nemmeno fossimo in una degradata baraccopoli del terzo mondo: siamo al contrario in una metropoli modernissima, con pochi segni del passato, viadotti e autostrade, palazzi nuovissimi. Ma è evidente che la condizione di solitudine degli abitanti di Seoul non è distante da quella degli abitanti di una baraccopoli.
E questa cifra sudcoreana la si sente, nella scrittura di Kim Young-ha. Come fosse la storia che la Corea ha il bisogno di raccontare al mondo.
I romanzi di Kim Young-ha sono stati tradotti in Francia, Germania, Spagna, Turchia, Polonia, Cina e Vietnam. Una breve presentazione del romanzo e qualche nota biografica le trovate qui.
A Seoul bisognerà tornarci, prima o poi.