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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Han Han in Occidente

Le Tre Porte, poco dopo la sua uscita, fu tradotto in francese e pubblicato, ma gli editori di altri paesi europei o nordamericani si dichiararono non interessati, nonostante i due milioni di copie cartacee vendute in Cina, a cui vanno aggiunti i download, legali e non, da Internet, dove il romanzo era circolato per diversi mesi acquisendo notorietà e divenendo il primo fenomeno di culto per i giovani cinesi.

A dieci anni di distanza Han Han viene acquistato da Simon & Shuster, inizia la sua collaborazione con il New York Times, e gli editori europei cominciano a leggersi i suoi lavori più recenti. Dopo Le Tre Porte infatti sono venuti altri sei romanzi.

A Pechino una giovane editor mi ha detto: “Io sono cresciuta con Han Han. Mi sono divorata Le Tre Porte a ventanni, e ne ho parlato con I miei coetanei, come facevamo tutti allora: era il nostro idolo”. Il romanzo di formazione del giovane Yuxiang, alle prese con il sistema scolastico cinese tanto burocratico e arretrato, quanto paradossalmente votato all’insegnamento della competizione e del carrierismo richiesti oggi a un giovane cinese, è il manifesto di una generazione che non ha vissuto né il maoismo né la primavera di Piazza Tienanmen, ma si trova di fronte semplicemente un paese che non capisce, o che non si fa capire.

È un paese che Han Han sferza dal suo blog: corruzione, inefficienze, indifferenza generalizzata. Verrebbe da utilizzare il termine: cattiveria. È la stessa cattiveria dei compagni di scuola di Han Han, che lo accompagnano nel suo percorso con le loro piccinerie e stravaganze, pronti a prostrarsi di fronte al potere e alle convenzioni.

Ma Han Han non salva neppure il suo Yuxiang: partecipe delle sue disavventure, simpatetico quanto può esserlo un autore con un personaggio nato dalla propria autobiografia, ce ne mostra l’ingenuità sorretta da una vitalità quasi disperata. Quel ragazzo è fuori come un balconcino, direbbe Han Han se fosse italiano. Eppure ha forza, determinazione, tenacia. E potrebbe sfangarla, dunque: come Han Han. E verrebbe da dire: quante similitudini con l’Italia, dunque!

Visitando Shanghai per la prima volta, chiesi se esisteva una giovane voce capace di raccontare l’ultima generazione, cresciuta nella Cina dello sviluppo e del mercato, un autore capace di confrontarsi con questi feticci. Sorprendentemente il nome di Han Han veniva fatto dagli scrittori più vicini all’establishment, come dalle voci dissonanti.

Han Han, fustigato al momento dell’uscita di Le Tre Porte dal mondo accademico, è oggi portato in palma di mano dall’Associazione degli Scrittori di Shanghai. D’altro canto, di lui parla con ammirazione un dissidente puro come Ai Weiwei, che era uno dei principali collaboratori della rivista letteraria che Han Han cercò di lanciare un anno fa, subito chiusa dalla censura.

Non si può rinchiuderlo in uno schema, Han Han. Rifugge dagli stereotipi, che sono, appunto, l’oggetto del suo scherno in Le Tre Porte. Tanto artefatti sono i gerghi degli strampalati, ma reali, personaggi che lo popolano, quanto corrosiva la loro storia e la traiettoria di Yuxiang. Un giovane studente cinese, ma anche un giovane studente in generale.

Han Han: sfidare la censura sul filo del rasoio

Ho già raccontato come Han Han sia capace di dribblare la censura e uscirne sano e salvo. Attento a non toccare i temi sensibili (democrazia, Tibet), non ha peli sulla lingua nel commentare le singole notizie. Questo post, tradotto in inglese, sferza le autorità sul disastro ferroviario (colposo) dello scorso 23 luglio sulla linea della tanto declamata modernissima alta velocità cinese, ed è un buon esempio della sua scrittura corrosiva.

E anche della sua cautela: è rimasto sul blog un giorno solo, ma è ancora rintracciabile via RSS. (A meno che, come qualcuno suggerisce, non sia stato cancellato direttamente dalle mani degli hacker di stato, cosa già accaduta in passato). Dopo la liberazione di Ai Weiwei gli occhi dei media internazionali restano puntati sui diritti umani in Cina, ma la cintura di protezione di cui gode Han Han sono le centinaia di migliaia di contatti giornalieri del suo blog.

E poi, come dice lui quando intervistato, io non sono che un rallysta. E un romanziere. Su questo sono d’accordo: Le Tre Porte è il miglior romanzo di formazione mai scritto da un autore della sua generazione.

Ancora su Cina e eurocentrismo

Questo articolo su China Daily incrocia i miei interrogativi: che relazione c’è tra ciò che leggono e scrivono i cinesi e ciò che “va bene in Europa”, per usare il linguaggio dell’industria editoriale? Qui Jo Lusby di Penguin sembra accettare il punto vista che io ho già definito eurocentrico: in Europa interessano la Rivoluzione Culturale e le storie femminili scandalose, e secondo lei c’è molto da pescare.

Questo è un punto di vista da grande editore, ma a me pare andrà poco lontano. Dal Giappone giunsero inattesi un paio di decenni fa prima Banana Yoshimoto, e poi Haruki Murakami, ma spiazzando chi in quel paese cercava solo saghe da arti marziali. Quando un paese entra così prepotentemente sulla scena mondiale (la Cina), ecco che ne nasce una letteratura nuova. E arrivano i nuovi autori giovani.

Noi li abbiamo sott’occhio, al punto da sentirci inadeguati, piccolo editore indipendente che rischia di trovarsi tra le mani i nomi del futuro.

Il Corriere della Sera su Han Han

Bellisimo paginone del bravo Marco Del Corona sul nostro Han Han (di cui MdA pubblica Le Tre Porte il 14 di settembre). Ne viene fuori un personaggio atipico nel panorama letterario cinese, capace di comunicare con le giovani generazioni del suo paese (4 miloni di copie vendute!) sopratutto attraverso un blog che non ha peli sulla lingua, anche per l’abilità di Han Han nell’evitare le questioni spinose, quelle che porterebbero a spegnere la sua voce critica: Il Tibet, l’assenza di democrazia. Certo la sua rivista è stata chiusa (tra i collaboratori di spicco c’era Ai Wei Wei di cui Del Corona cita una frase significativa: “Han Han ha più influenza di Lu Xun, perchè nell’era di interent la sua scrittura raggiunge più gente.”) Certo, Han Han si atteggia a popstar, e nelle risposte alle interviste, rarissime, alla stampa occidentale, fa il consueto slalom per riuscire a non dare risposte chiare, precise. E quindi può passare per un superficiale, un arrampicatore in carriera. E’ invece intellettuale a tutto tondo, scaltro e prudente come deve esserlo chi ha deciso di far sentire la propria voce in Cina, e non da qualche esilio dorato da dissidente. Spero che i commentatori italiani non si facciano fuorviare (ricordo Pincio che sul Manifesto di un anno fa censurava Zhu Wen che a un giornalista occidentale aveva dichiarato di non aver partecipato ai fatti di Piazza Tien an Men perché lui è “un pigro, e probabilmente quel giorno era a casa a dormire”. Risposta che va correttamente interpretata con: grazie della domanda, ma preferirei non finire in galera domani mattina”).

Angloindiano e lingue locali

Stiamo traducendo una raccolta di racconti di R. Raj Rao, e ci ritroviamo di fronte una questione già molto dibattuta (internamente, a MdA). In India gli scrittori contemporanei usano la lingua inglese, lingua della comunicazione in quel paese (lingua dei media, delle università, delle scuole d’azienda e delle relazioni tra top manager e politici).

Lingua correntemente utilizzata dai più giovani, sopratutto negli strati medi e alti della popolazione, ma costantemente arricchita da termini, frasi, espressioni dell’Hindi o delle lingue locali (ce ne sono più di venti, in India, appartenenti a due gruppi linguistici principali).

Nella lingua scritta questi termini compaiono oramai in tondo (una decina di anni fa ancora si usava il corsivo) sia quando indicano cibi, o vestiti, o figure religiose che non hanno una traduzione equivalente in inglese, e sembrano entrati a far parte di un unico corpus linguistico che si è guadagnato la definizione di angloindiano. Ora la domanda è: come tradurlo in italiano?

Anni fa l’uso imponeva l’evidenziazione in corsivo dei termini in Hindi o altre lingue locali, e a fine volume un glossario, con la traduzione. Negli anni molti editori hanno iniziato a introdurre il tondo per termini ormai entrati nell’uso comune: sari, kurta, masala. Ma come definire questo spartiacque? Cosa fare con i nomi di elaborate pietanze che sarebbe ridicolo tradurre? E perché, in altri casi, imporre al lettore di andare fino al glossario per conoscere la traduzione di un termine, invece che averla immediatamente sott’occhio?

È arrivato Amitav Gosh, a sciogliere con la sua spada il nostro nodo. In una lettera ai suoi editori ha chiesto che nessun termine in corsivo e nessun glossario fossero utilizzati per i suoi romanzi. In sostanza: siete editori (in italiano, francese, spagnolo), traducetemi. Che fare?

Asiatici che scrivono di altri asiatici

Biblio è la rivista letteraria e culturale più nota e più interessante dell’India. I suoi articoli sono scaricabili, alcuni gratis altri a pagamento. Il numero di maggio/giugno è interessante per la sua vocazione inter-asiatica: focus sulla Cina con un articolo di Amartya Sen, solo per citare il nome più noto.

Sì, gli indiani discutono di Cina e dintorni più di quanto non discutano dell’Occidente. Analogamente da Hong Kong una rivista in lingua inglese, Asia Literary Review, si concentra in questo numero sul Giappone.

Un Booker eurocentrato

Che dire? Niente Africa, niente Asia, nulla dai Caraibi. I tredici nomi della longlist del Man Booker Prize 2011 sono invariabilmente… bianchi. L’imbarazzo del Presidente di Giuria Stella Rimington è evidente proprio nel tentativo di affermare una pluralità che non esiste (“dall’ Occidente Selvaggio alla Londra multietnica passando per la Mosca del dopo guerra fredda a Bucarest”. Non certo per via delle personalità degli autori!).

Va bene, non è stato l’anno dell’India quello appena trascorso, che sembra aver smarrito non tanto una vena quanto una prolificità esasperata e alla fine premiante. Ma siamo sicuri di essere in pieno 2011? L’anno dell’Asia rampante, del SudAfrica sugli scudi, della nuova narrativa pakistana celebrata da Granta, dell’Occidente che boccheggia nel suo debito e nella sua crisi…

È chiaro l’avvitamento su sè stessi dell’industria editoriale euro-americana: quando guarda ai paesi emergenti cerca ancora sè stessa, storie “adatte” al lettore europeo, che “possono andare” nei nostri mercati. E allora non lamentiamoci se troviamo mediocrità. Ci vuole una marcia in più, ci vuole uno sforzo verso uno scouting senza pregiudizi, il tentativo di trovare voci nuove e promuoverle, offrire loro un pubblico. E sopratutto di portare a noi, lettori, una ventata fresca di novità.

(continua…)

Ibischi, Gelsomini, Indignados and so on

Mi ha stupito la coincidenza: la reazione di Brian Gomez allo ‘scippo’ di Bersih, (la Rivoluzione dell’Ibisco in Malesia) da parte dei politici, anche di opposizione assomiglia a alla reazione di tanti giovani in Europa o nel mondo arabo.

Sembra questa la cifra di un movimento globale come non si vedeva dalla fine degli anni sessanta: un rivolta di individui che questa volta si pongono come tali (ognuno a partire dalla sua pagina Facebook, Twitter ecc.) e non come gruppi (sindacati, associazioni studentesche) e che proprio in quanto somma di individui contestano qualunque forma organizzata del potere: i grandi gruppi industriali, i governi, i partiti, e i media tradizionali. E’ un nuovo ceto sociale?

Da editore, la domanda che mi pongo è: cosa leggeranno? Cosa scriveranno? E dove, come, utilizzando quali forme di comunicazione?

Anjum Hassan su Last Man in Tower

Una recensione di Anjum Hassan su Caravan di Last Man in Tower, nuovo romanzo di Aravind Adiga, che vise il Booker nel 2008 con il suo La tigre bianca (in Italia per Einaudi).

Io trovo spettacolare l’incipit dell’articolo di Hassan:

Il romanzo è ambientato esattamente nel tipo di inferno da classe media dal quale uno vorrebbe fuggire leggendo romanzi

Meditiamo.

B-novels dall’India

Blaft è l’editore più innovativo dell’intera nazione indiana. Due anni fa fece parlare di sé con la prima antologia di “pulp fiction” Tamil tradotta in inglese, dove per pulp si intende il suo significato originario: la carta da poco con la quale si stampano i romanzetti di grande circolazione e bassisimo prezzo , tutti regolarmente nelle lingue locali, di cui gli indiani vanno ghiotti.

Come se ci fosse un circuito narrativo di serie B (e delle serie B conosciamo il valore ovunque nel mondo). Blaft ha tradotto in inglese gialli dall’Hindi, fantascienza dal Tamil, e ora ecco la serie Jasusi Duniya di Ibne Safi, che ha fatto la storia della narrativa popolare Urdu, in una recensione della nostra Annie Zaidi (ripresa dal suo blog). La cosa più straordinaria di Blaft? Le loro copertine, sopratutto dove rirpendono le copertine dell edizioni originali.

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