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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Inchiostro

L’editore più socievole e simpatico che abbia mai incontrato in Asia si chiama Chu An Min, ha fondato una casa editrice indipendente col nome di INK, e io non sono mai riuscito a parlargli.

L’ho incontrato la prima volta un anno fa, a Taiwan. Il mio amico Yeng Pway Ngon volava su Taipei, andava a incontrare il suo, di editore. Aveva sentito parlare di INK, voleva incontrarli, e mi ha proposto di accompagnarlo.

Chu An Min, entusiasta, ci ha invitato subito a cena. A metà pomeriggio, come si usa da loro. Io mi sono trovato davanti un uomo con un abito blu e una camicia bianca, senza cravatta, scarpe di marca, occhiali spessi, che ha cominciato a versarmi birra nel bicchiere. E a berla, dimostrando una certa tenuta. Purtroppo Pway Ngon parla un inglese stentato, e Chu An Min non ne sa una parola. Quasi impossibile comunicare se non a gesti (versar la birra nel bicchiere, alzarlo per un brindisi), dopo pochi minuti Pway Ngon si è stufato di tradurre, An Min di parlare a frasi mozze e spezzettate da una traduzione che io non capivo.

INK è anche una rivista letteraria, sicuramente anomala. Più di cento pagine su carta patinata, monografie su scrittori da tutto il mondo, che i suoi collaboratori o amici (ne ha dovunque) riescono a intervistare e magari a convincere a lasciargli tradurre un inedito (a Taiwan). Pubblicità d’alto profilo, cadenza mensile: una rivista letteraria non in perdita. Pazzesco, considerata la qualità del prodotto, testo stampa confezione.

A vederlo (l’ho già detto parlando di altri, l’Asia gira così) penso che forse in questo modo si presentavano i Flaiano, i Bianciardi all’epoca in cui facevamo boom economico noi. Persona alla mano, che se la beve (ho declinato l’offerta per i bagordi successivi, e sono tornato in albergo al capezzale di una moglie con l’influenza), che mi dà di gomito in continuazione e io rispondo di sì, rido di non so che. Editore lui, che negli ultimi anni ha saputo pubblicare e valorizzare i nomi più importanti della narrativa taiwanese e è presente massicciamente nelle librerie (il logo INK è scritto all’occidentale, lo riconosco anch’io). Grafica di copertina raffinatissima, beati loro che hanno quei caratteri che da soli fanno disegno.

Durante questi dodici mesi ci siamo scritti (meglio: un mio amico gli ha scritto per conto mio in cinese), abbiamo ricevuto qualche libro. Vi diremo più avanti. Quel che conta è che ora io son di nuovo a Taipei, e finalmente lo posso incontrare di persona, con un traduttore italiano al mio fianco che sicuramente sarà capace di veicolare la nostra chiacchierata non di lavoro, ma libera: che mi racconti quel che vuole di lui, di Taiwan. Che ci porti un po’ in giro.

Il mio traduttore attende conferma telefonica per l’appuntamento della mattina successiva, il telefono di Chu An Min suona a vuoto. Ci presentiamo negli uffici come previsto, alle 10. Chu An Min non c’è. Non sanno dove sia. A volte non dice dov’è, si scusano. Forse è a Pechino. Forse è sbronzo, pensiamo noi? Ci riceve una responsabile editoriale e capiamo che è lei che tiene in mano l’ufficio, è lei che ci ha scritto a nome di Chu An Min, secondo le sue indicazioni, in tutti questi mesi. Ma oggi di indicazioni non ne ha.

Ci sciorina un catalogo: il meglio. Un editore affidabile, un editore vero.

PS Questo post non ha link. Non ci sono link a INK. Intorno a noi, Taipei non a caso è una città a pianta ortogonale di palazzoni anni cinquanta, sessanta (i ricchi cinesi si erano portati fuori dalla Cina comunista i loro averi, e lì si sono costruiti la loro città dal niente o quasi). Alti sette otto piani, grigi, tutti uguali ma vivacizzati dagli ideogrammi che impazzano, colorati, al livello della strada. Cielo bigio d’autunno. Un sacco di gente che fuma. Che nostalgia…

Foto: Levi Durbidge

Chan Ho Kei (o Chen Haoji, in mandarino)

C’è una scala mobile a Hong Kong. È famosa. In realtà è una successione di passerelle in salita, e i tratti in pendenza sono scale mobili o nastri trasportatori. Ogni tanto qualche gradino.

Collega il porto dei vaporetti che attraversano la baia con i vari livelli di una città addossata alla collina, sul cui versante si alzano i grattacieli residenziali alti e stretti: sembrano alberi, non è un cliché.

La risalgo insieme a Chan Ho Kei (chiamami Simon, ripete), il giallista di Hong Kong che pubblicheremo tra qualche mese. Lui mi cita il film di Wong Kar-wai (a me sembra fosse Hong Kong Express, lui pronuncia un titolo diverso, probabilmente la traduzione letterale del titolo cinese), una lunga scena a due sull’Escalator. E Batman, il secondo, che io però non ho visto.

Qui non mi ci ha portato lui, sono io che gli ho chiesto di fare questa camminata (agevolata). Mangiando i nostri dumplings sopraffini lo avevo visto un po’ ingessato, timoroso. Io gli ho spiegato che ormai è tutto fatto. I diritti sono nostri, prima o poi lo tradurremo in italiano, e lo rivenderemo in tutta Europa e in Asia. Sono curioso di capire chi sei, tutto qui: ma non glielo si può dire in questo modo.

Ha trent’anni, ha lavorato nel software, ora si concederà di fare lo scrittore a tempo pieno. Non che prima non scrivesse in abbondanza: ma scriveva per piccole case editrici. Quella che davvero si può definire pulp fiction: carta leggera, soldini per l’autore quasi niente, editing zero e refusi a manetta, distribuzione nei mercati più che in libreria.

Insomma su una scala mobile avveniristica, dentro a una città che somiglia a quelle descritte dai nostri fumetti di fantascienza anni settanta, tra alcune delle architetture più famose del mondo, Ho Kei (chiamami Simon), si lancia in una appassionata difesa dell’editoria popolare, che non si può definire underground perché sa vendere migliaia di copie.

L’avveniristica Asia ha delle formidabili somiglianze con i nostri anni Sessanta, Settanta (nei Cinquanta ero troppo piccolo per ricordarmeli). Qui spopolano gli Urania e i Gialli Mondadori. E giustamente lui mi dice che sono poco esplorati, che tutti si lamentano di come si legga sempre meno (uff, in Italia non hai idea i pianti, gli dico…), e che gli autori veri si nascondono lì.

Come i nostri Bradbury, le Ursula Le Guin, i Vonnegut (gialli non so, io leggevo solo fantascienza). Che importa se son solo storie di vampiri, horror, fantasy con legioni di guerrieri e semidei. Credono che i ragazzi debbano cominciare solo leggendo i classici? (E qui mi sovviene il protagonista di Le tre porte, cresciuto a lettere classiche cinesi, e finito e rotoli).

Gli racconto che in fondo quello è stato anche il mio percorso: monomaniacalmente fantascientifico, no gialli, no adventures (Salgari: giammai), tutta la meglio ma anche la peggio sci-fi (le saghe di Asimov, di Brunner, mamma mia…). Poi improvvisamente, a ventitrè anni suonati Il castello e a seguire tutto Kafka.

Insomma, era ora che Metropoli d’Asia inciampasse nel romanzo di genere (sì, anche Malesia Blues, è vero…) e ci inciampasse a Hong Kong. Perché qui si respira quel che mi aspettavo di trovare in Asia: un futuro che comincia da un certo punto del nostro passato. Tipo: modernità atto secondo (la vendetta?).

Oppure semplicemente: altro giro, altro regalo. Speriamo di riuscire a salire sulla giostra.

Ma lui, Ho Kei, Haoji, Simon? È lì, alto, con i suoi occhiali dalla montatura spessa, una dentatura smisurata (nerd, direbbero in USA?), sì un’aria da secchione sfigato che ha appena vinto uno dei più importanti premi asiatici, consegnato dalle mani di un autore giapponese di culto come Soji Shimada.

Chiacchieriamo, discutiamo, fermi in piedi sui tratti di scala mobile, o camminando col fiatone su un tapis roulant in salita, o discendendo improvvisamente una decina di anomali scalini. Ci fermiamo ai molti pianerottoli, ci appoggiamo alla ringhiera, bello spettacolo l’acqua, i grattacieli. Il ritmo della conversazione si adatta al ritmo della camminata: o viceversa. Buon ritmo, buoni pensieri.

In cima io prendo un taxi che ridiscende i tornanti, lui se na va, scompare nell’iperspazio (che non è male per un giallista).

Foto: evan.chakroff

Premiazione a Taiwan

Metropoli d’Asia e’ entrata a far parte di un pool di editori asiatici che ha recentemente assegnato un premio a quello che viene considerato il miglior giallo dell’Asia orientale.

Lo abbiamo gia menzionato: si chiama Soji Shimada Mystery Award. Prende il nome da un autore giapponese di culto, una icona del pubblico giovanile, cultore di quelli che qui vengono definiti “gialli a chiave”: quelli in cui c’e’ un mistero, un enigma da risolvere.

Il pool si e costituito attorno a un editore taiwanese, Crown, e vede la partecipazione di editori dalla Cina, Giappone, Corea, Tailandia, Malesia e, appunto, Italia: Metropoli d’Asia pubblichera il romanzo vincitore e ha incarico di rivenderne i diritti in Europa e in alcuni paesi asiatici.

Il vincitore e’ di Hong Kong, si chiama, a seconda dei casi, Chen Haoji, oppure Chan Ho Kei, a seconda che lo si pronunci in mandarino o in cantonese.

Lo incontrerò a Hong Kong nei prossimi giorni, ne parleremo. Intanto possiamo dire che il titolo provvisorio del giallo e’ “Dimenticare. Polizia criminale”. Nella foto ecco Soji Shimada con il nostro Ho Kei, a destra.

Lui è di Hong Kong, dove si parla cinese cantonese, e non mandarino (ma scritto nella versione tradizionale, non in quella semplificata). La questione è… complessa. Sostanzialmente succede questo: il cinese è una lingua unica, ma nel sud della Cina si pronuncia in modo differente che nel resto del paese. I due nomi che ho citato rappresentano appunto, le due pronunce di un nome scritto allo stesso modo.

Naturalmente quando si traslittera nel nostro alfabeto, ecco che spuntano due nomi diversi. Noi scegliamo il secondo. Ce lo ha chiesto Chan Ho Kei, scrivendomi: se preferisci, chiamami Simon.

Ritorno in India

Quando pubblicammo Il mio ragazzo di Raj Rao quasi due anni fa, Mario Fortunato ne scrisse sull’Espresso: «E’ un romanzo che farei leggere nelle scuole». Era la storia di un amore omosessuale a Bombay, scritta da un attivista per i diritti dei gay in India.

Questi sono invece i racconti di uno scrittore colto, raffinato, ironico, capace di scandagliare luoghi e persone della sua città come pochi altri. R Raj Rao è dotato di una versatilità non comune che gli consente di presentarci una finta intervista al famoso scrittore, o lo schema di un trattamento per la televisione, oppure la storia di una relazione omosessuale attraverso le lettere che i due protagonisti si scambiano.

Sa anche essere esilarante, come ne L’assassinio di Salman Rushdie il cui protagonista non è che il proprietario di un’officina meccanica, ma è quasi il sosia del famoso scrittore, e si trova a firmare autografi, e poi a cercare di sottrarsi al linciaggio da parte di un gruppo di fondamentalisti islamici, apparendoci sempre come più simpatico, più umano e meno carogna del suo celebre alter ego.

C’è una critica alla società letteraria, nei racconti di Rao, e il personaggio che visita la Trinidad, patria di V.S. Naipaul, non sembra aver peli sulla lingua.

Ma c’è anche un giovane adulto, figlio di un ferroviere, che percorre l’India in treno spinto da una propria ossessione, o un giornalista cosmopolita che appunta sul proprio block notes il disappunto per la visita imminente di un parente indesiderato.

E poi il racconto che dava il titolo alla accolta originale in inglese, quel quasi intraducibile One Day I Locked My Flat In Soul City, di cui noi non potevamo rendere in italiano la musicalità e il ritmo, allucinato resoconto di un uomo che, uscendo di casa, si trova immerso in una fiumana di persone in cammino verso una meta sconosciuta. E accompagnarla, questa massa indistinta di corpi odori rumori gesti e espressioni, è facile, ma risalire la fiumana per tornare a casa è ardua impresa. E una volta ritornati, con fatica, al proprio appartamento, si chiude la porta a chiave.

È bello tornare in India dopo dodici mesi (dopo Dangerlok di Eunice De Souza). È bello ritornare nella Smog City di Amruta Patil che abbiamo visto a Ferrara di recente, e ritrovarla SOUL. È bello chiamarla Bombay, come fanno gli scrittori, e non Mumbai, come fanno i partiti della destra induista.

Godetevi questa intervista: un intellettuale vero.

Autobiografia di un indiano ignoto è in libreria da oggi, 16 novembre.

La forza di Taiwan

Ho enfaticamente intitolato un recente post La guerra (fredda) delle lingue, riferendomi al confronto in atto tra prevalenza dell’inglese e del cinese nella narrativa (e in genere nelle pubblicazioni) di questa parte del continente.

Relativamente al campo della lingua cinese, la piccola Taiwan, che vive gli ultimi anni in uno stato di attesa, ormai preparata a un quasi inevitabile ricongiungimento con la Cina continentale, ha un ruolo di primo piano.

In Cina continentale è stato introdotto decenni fa il cinese semplificato, e cioè una versione della lingua scritta che prevede una drastica riduzione del numero dei caratteri e una loro semplificazione grafica, questo per facilitarne la sua diffusione a livello di massa, e cancellare l’analfabetismo.

Taiwan restò ancorata al cinese tradizionale (o complesso). Lo stesso accadde nelle numerose comunità cinesi dislocate in altri paesi asiatici e non solo (si parla di 140 milioni di cinesi residenti all’estero da generazioni), emigrate (in Asia) come rappresentanti delle classi commerciali, ma in seguito anche come reazione alle trasformazioni in atto in Cina (la rivoluzione anti-imperiale dell’inizio del secolo scorso, e quella comunista nel dopoguerra).

In tutta l’Asia del sud-est si utilizzava il cinese complesso, fino a pochi anni fa, e solo la nuova generazione ha cominciato a adottare il semplificato. Il risultato è che scrittori appartenenti alle grandi comunità cinesi di Singapore, d Hong Kong e della Malesia sopratutto, ma anche alle minoranze cinesi di altri paesi del Sud-est asiatico, non trovando una editoria cinese locale, si rivolgono agli editori di Taiwan, capaci poi a loro volta di distribuire nel Sud-est. Una narrativa della diaspora che dunque si rivolge più verso Taipei che verso Pechino.

Foto: robbed

Il fenomeno della freemium fiction in Cina

Tra fiuto per gli affari e sfruttamento delle nuove tecnologie, prende piede in Cina la cosidetta freemium fiction, come spiega Publishing Perspectives in un articolo segnalato da Finzioni.

Non è una novità assoluta: molti degli autori giovani che più tardi hanno guadagnato notorietà anche internazionale hanno cominciato postando su Internet i loro lavori, che anche prima di essere poi pubblicati su carta in Cina erano conosciuti magari da centinaia di migliaia di lettori (ma in Cina i numeri sono sempre enormi, il paese è bello grande, come si sa).

Il nostro Han Han cominciò così la sua carriera: e il successo fu tale da poroiettarlo entro pochi mesi dentro all’editoria ufficiale.

Il sistema della freemium publishing è in realtà interessante per i suggerimenti che può fornire a noi editori italiani, che stiamo qui a domandarci perchè l’eBook non decolla nel nostro paese. E la risposta è: il Web ha regole sue.

L’idea di rendere disponibile sotto forma di rivista o antologia che esce a scadenze regolari dei romanzi che il lettore può iniziare senza pagare, decidendo solo in seguito se acquistare il libro completo è solo un indizio di quel che potrebbe succedere a breve anche in Europa.

Ad esempio cliccando qui  si può scaricare l’anteprima del nostro Le Tre Porte, di Han Han. Se ne possono leggere le prime pagine, e se piace lo si acquista.

La guerra (fredda) delle lingue

Una delle architetture piu belle della scintillante Singapore è la National Library, un raffinato esercizio di equilibri di vetro e acciaio bianco, sulla cima del quale spicca, tondeggiante, il POD, una struttura che ricorda lo Scrigno del Lingotto a Torino, appoggiato su un angolo dell’edificio, sporto sulla citta.

Ci si appoggia alla balaustra e ci si gode il passaggio dal giorno alla notte, in questa metropoli che sta diventando una delle piu belle del mondo.

Del resto, non si puo far altro che guardar fuori: la presentazione del nuovo romanzo di Yeng Pway Ngon è interessante, un’ora di discussione serrata, ma rigorosamente in cinese… Non sono l ‘unico sorpreso dalla scelta, ma il romanzo è scritto in cinese complesso (quello di Taiwan, per intenderci, che perfino i nostri traduttori piu esperti fan fatica ad affrontare), il mio amico Pway Ngon si sente piu a suo agio in cinese che in inglese, e…

E a questo punto anche a Singapore si comincia a sentire l’influenza del Dragone. Arriva la letteratura cinese in cinese, se ne prendono le televisioni, e la sua popolazione di origine cinese si chiede perché fare la fatica di comunicare sempre e cominque in inglese, visto che in casa si parla il dialetto Hokkien, Cina meridionale.

Mi avevano detto che la narrativa di lingua cinese e malese qui sta riducendosi al lumicino. In tutto il mondo dove l’inglese è disponible (penso all’India, a tanti paesi africani, alle Filippine della diaspora), prima o poi l’inglese vince. Ora invece, in Asia, comincia a regredire: l’altroieri ho postato su Fixi, la collana in malese di Amir Muhammad a Kuala Lumpur. E ora questo segnale chiaro.

In ogni caso daremo in lettura a un esperto di cinese complesso il romanzo di Pway Ngon: una storia che si nutre nella sua autobiografia, e segue un gruppo di personaggi dagli anni Sessanta ai Dieci, da una giovinezza ribelle di mobilitazioni per lindipendenza prima e per la democrazia poi, alla Singapore odierna, dove nasce un’opposizione parlamentare che prende il 40% dei voti e il Web detta legge. Singapore comincia a lievitare nella mediasfera: se ne e’ accorto anche Pascale, sul Post.

Foto: inju

Amir Muhammad

Abbiamo già parlato di Amir Muhammad, su questo blog. Un cineasta malese, noto in tutto il mondo per i suoi documentari, e da pochi anni anche un editore di qualità, con la sua Matahari Books, che pubblica saggi sul suo paese.

Non ultimo questo Growing up with ghosts che, raccontando di una coppia mista in un passato di discriminazioni razziali, sta spopolando in tutto il multirazziale Sud-est asiatico. Ma Amir non è contento, e ne ha inventata una nuova. Si chiama Fixi, termine indonesiano che naturalmente significa fiction.

Guardate questo sito, avviate la traduzione automatica e qualcosa se ne capisce. Da intellettuale intelligente qual è, Amir cerca di raggiungere un pubblico più vasto possibile, giovane, che legge solo in malese. Lo fa con una serie di gialli, mistery, spystories scritti da esordienti assoluti (quanto meno per quanto riguarda la scrittura). L’ultima uscita parla di zombie! E, ovviamente, già sono in coda le case di produzione cinematografica per farne un film.

Ho incontrato Amir in un ristorante sotto gli uffici della radio più ascoltata di Kuala Lumpur, BFM. Mi ha giocato uno scherzetto: siamo entrati in uno studio di registrazione ed è partita l’intervista. A Metropoli d’Asia.

Chisura di festival a Singapore

L’ultimo weekend del Singapore Writers Festival ha visto finalmente la presenza di qualche ospite di prestigio dall’Asia.

Il paradosso è stato però la discussione con Murong Xuecun e Xi Er sulle problematiche della traduzione dal cinese nelle lingua occidentali. Molti ne hanno parlato, a margine del festival, delusi dal fatto che la sessione fosse in cinese senza… traduzione.

In questo paese dalle molte lingue l’argomento potrebbe generare utile dibattito, anche perché qui si sta cominciando a fare esperienza di un ritorno al cinese, dopo decenni in cui l’inglese si è imposto come lingua franca e del sistema scolastico.

I ragazzi, abituati fino a pochissimi anni fa a parlare cinese tra di loro e in famiglia ma a leggere in inglese, ora trovano una produzione letteraria (e cinematografica) in cinese. Questo porta alla ribalta anche una narrativa singaporeana in cinese che in passato restava nell’ombra. Insomma, tra Chinese e English speakers, bisognerà che cominciamo a parlarci davvero. Qui e nel mondo intero.

Tra gli autori presentati, Bi Feyu si è trovato di fronte a un uditorio sorprendentemente striminzito. Bi Feyu è autore di due romanzi che in inglese sono stati tradotti con Moon Opera e Three Sisters. È un esponente di quella schiera di scrittori cinesi più famosi all’estero che in patria, perché capaci di andare a incontrare il gusto dei lettori occidentali narrando di cambiamenti a cavallo delle varie epoche storiche (la conquista del potere da parte dei comunisti, la Grande rivoluzione culturale, gli Anni ’80 delle speranze di cambiamento frustrate dalla repressione di Piazza Tien an Men, il boom economico recente delle metropoli).

Abbiamo già citato un’intervista di Jo Lusby, prestigiosa editor di Penguin a Pechino, che elencava questi elementi del gusto occidentale che a suo parere gli scrittori cinesi possono andare a incontrare con successo. Ma a Singapore casca l’asino: Bi Feyu interessa meno un popolo di lettori di origine cinese che non è disposto a mediazioni di quel tipo.

Sempre in tema di relazioni tra lingua inglese e lingue locali asiatiche, ecco l’annuncio della long list del Man Asian Literary Prize di Hong Kong. Il premio era nato in origine per favorire l’accesso al mercato globale di opere scritte in cinese, indonesiano, coreano, malese o hindi e tamil (infatti concorrevano opera non ancora pubblicate in inglese, ma per le quali fosse disponibile una traduzione in inglese che veniva commissionata appositamente dalle case editrici o dagli autori stessi).

Ora partecipano opere già pubblicate, con il risultato sì di innalzare il livello dei romanzi che concorrono, ma al contrario l’effetto di prensentare romanzi che già sono stati pubblicati o lo saranno a breve in italiano. Murakami, Gosh, Shin Kiung-sook e tanti altri. Insomma meno interessante per chi fa scouting, e forse anche fuori tempo massimo per qualche edizione europea.

Il Singapore Writers Festival diventa a partire da questa edizione annuale: vedremo che direzione saprà prendere nel 2012. Io spero che riesca a guadagnarsi, magari anche per la posizione geografica, un ruolo di crocevia asiatico. Certo però, con traduzione simultanea dell’inglese in cinese e del cinese in inglese.

Malesia Rock?

Brian Gomez vuole scrivere il sequel di Malesia Blues. Ma non trova il tempo.

Videomaker per la pubblicità, ha impegni continui e senza orari, spesso (crisi per tutti) non pagati o dilazionati allo sfinimento (cioè: mi dovevano tre e mi accontento di uno, dice lui). È stufo.

Tra l’altro ci sono buone prospettive per la realizzazione di un film da Malesia Blues (Devil’s Place in inglese): una importante casa di produzione (niente nomi per ora) gli ha comprato un trattamento, un regista è stato scelto. Naturalmente sarà in malay, per un pubblico locale. Ma l’industria cinematografica malese è una delle più importanti del continente, i suoi film girano il mondo, chissà.

La sua voglia di scrivere è genuina, urgente. Mi racconta la trama non solo del suo secondo romanzo, ma anche del terzo. Certi personaggi ritornano, altre figure secondarie divengono protagonisti di una narrazione che non disveliamo qui, lasciamola correre in libertà dentro alla testa di Brian e alle sue dita sui tasti del computer.

Ma come trovare il tempo per lavorare ogni giorno, quattro o cinque ore? Capisco che non sia solo questione di tempo, ma di tempi: Brian, che virava sul grassottello come tutti gli indiani alla sua età, è dimagrito per la frustrazione di un lavoro che lo costringe a lunghe trattative, a orari che non può controllare, a continui scambi di informazione via cellulare.

Me ne ha mostrato la cronologie e dice: come faccio a scrivere se mi chiamano ogni venti minuti, e molte volte è per dirmi che di un dato lavoro non se ne fa nulla, o che non possono pagarmi prima di sei mesi?

Quindi ci vuole un lavoro a orari fissi, possibilmente la sera. Brian Gomez, che come il Terry Fernandez di Malesia Blues ha passato un molti dei suoi anni giovanili a suonare blues nei locali, ha il suo progetto.

Cinque sere la settimana, una band già avviata, richieste da tutte le parti e un chitarrista disposto a tenere i contatti con i proprietari dei locali. Si chiamano Have-Nots, eccoli qua.

Li ho sentiti un sabato sera al ChillOut, un grosso bar all’aperto sulla terrazza di uno shopping mall, Subang Parade, che fa da centro di gravità per Petaling Jaya, un sobborgo residenziale da classe media a un bel venti chilometri dal centro di Kuala Lumpur.

Bassista cinese, seconda voce e chitarra solista malay, batterista bianco. Brian Gomez è di origine indiana. Suonano evergreen del pop anni settanta per scaldare il pubblico, e poi un sacco di roba sua, composta da lui, riarrangiata e vissuta da lui, a metà strada tra il rock e le sonorità del pop malay. Mooolto interessante!

freehofferlonna@mailxu.com hampel.dario aguire.susan@mailxu.com