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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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What Am I Talking About When I Talk About Asia?

Rileggo i post di quest’ultima infornata. L’abbiamo voluta intitolare In diretta dall’Asia, e così è: anche se qualche pezzo è uscito sul blog mentre già mettevo le gambe sotto le molte tavole di questa fine d’anno in Italia, gli incontri e le descrizioni sono in presa diretta, scritte in quelle città d’Asia, con la memoria fresca.

Ma la memoria non è una telecamera. Scrivendo, noi non siamo mai live. La memoria, anche quella di pochi giorni o di una sola notte di sonno buono, seleziona, collega, interpreta. Accende un riflettore (un personalissimo sguardo) e lo punta dove le pare (a questo punto, con più rispetto, dovrei definirla La Memoria). (E per meglio definire il concetto vorrei dialettizzarlo ritmicamente: il riflettore La Memoria lo punta dove le pare a lei). (Il mio è un dialetto lombardo, che taluni politicamente stuprano per i loro personali affaracci, ma i dialetti sono nobili come ci insegnano tanti Zanzotto, Arbasino, Pontiggia).

La Memoria non è solo memoria, visto il modo in cui mi porta regolarmente fuori tema, a deragliare dentro a praterie esplorabili, esplorande. Mi par di ricordare che il latino avesse un tempo verbale proprio per un “dover fare in futuro”: esploratur, ci proviamo? (Ma: occhio ai doveri, lasciamoli stare, fidiamoci de La Memoria solo quando ci porta dove più ci pare e piace).

Niente latino quaggiù: hindi e marathi, cinese mandarino cantonese e hokkien (quello delle comunità immigrate nel sudest), malay così simile all’indonesiano e come quello irrobustito da termini direttamente derivati dall’arabo. Tamil, del Tamil Nadu, India del sud origine della migrazione in Indocina dei progenitori di quel Brian Gomez che porta un nome portoghese, da gente della costa, meticcia e contaminata, e ce lo rende in blues!

Mi par che questo post cominci con una lunga digressione che un po’ è un tirarla in lungo (o in lingua?) un po’, appunto, è La Memoria che mi porta a dare una risposta all’interrogativo di questa mattinata di galaverna in Lombardia: ma io che cerco? Quali sono i temi, quale il sottotesto degli incontri con tutta questa gente, delle perlustrazioni di città in città (Singapore, Kuala Lumpur, Taipei, Hong Kong, Delhi, Mumbai-Bombay-Bom Bahia) correndo dietro agli editori amici (e chissà, futuri soci…).

Perché sì, la risposta è sì: sì che ci voglio fare un libro prima o poi. Ma che ci racconto, io, in codesto libro? (Quando si scrive “io che cerco”, facendo un po’ il verso al “che ci faccio qui” di Chatwin, si scrive in realtà: ma io che voglio scrivere, davvero?) (Una volta, prima di aver mai letto né sentito parlare di quel libro di Chatwin, incominciai un lungo brano dal Burkina Faso con un “Ouagadougou, agosto, stagione delle piogge: ma che ci sono venuto a fare?”, e il direttore dell’amata rivista, letta la prima frase, lo cestinò – in senso letterale, lo gettò luciferinamente nel cestino della carta straccia dicendomi: già letto).

Ci sto girando intorno: quali sono i miei temi, in questi post? E poi: come organizzare un testo lungo sugli scrittori dell’Asia? Che controllo sono in grado di avere del mio narrare? Già: quali sono i miei temi? Rileggere, per capire. Rileggetur.

Meher Pestonji

Atterro a Bombay e scopro che il Nokia d’anteguerra dove archiviavo i numeri indiani mi ha lasciato. Ho le mie scatoline di biglietti da visita, certo, ma sento la mancanza dei numeri degli amici, le cui vecchie caselle di posta elettronica mi rimandano messaggi d’errore.

Ci penso mentre vado a zonzo per le vie di Colaba, sul lungomare, percorrendo l’Apollo Bunder dal Gateway of India (un brutto arco con decorazioni dallo stile incerto che fungeva da segnale di saluto per i navigli in arrivo dalle isole di Sua Maestà Britannica) al Radio Club, passando davanti all’ingresso del Taj Mahal Hotel (che è strano davvero: qualcuno ha detto che l’architetto ha fatto costruire questo magnificente albergo girandolo per il verso sbagliato: qui sembra di entrare dal retro, è vero che i cavalli in pietra segnalano l’ingresso, che però si compone di due porte piccole, basse; dentro, si apre un ambiente che va su fino alla grande cupola, con uno scalone che lo risale: sembra un ingresso tardi anni Ottanta, postmoderno!).

Dietro l’Apollo Bunder c’è un quartiere di strade ortogonali e edifici che nella fatiscenza tipica di Bombay conservano tracce di splendore: porticati, parti in legno, scalinate esterne, finestroni ampi e contornati di colonnine, la scelta stilistica è pure qui incerta, ma i giardini sono lussureggianti di piante tropicali, le vie interne riposano in un silenzio inatteso per questa caotica città. In una di queste vie abita Meher Pestonji, scrittrice di etnia Parsi che mi ha sempre offerto buoni bicchieri di liquore e utili e piacevoli chiacchiere.

Ma non riesco a ritrovarla, la casa. Non ricordo il nome della via, né la posizione esatta, né soprattutto riconosco un edificio. Oliver street? Forse. La casa era in un fiorente stato di abbandono, riconosco un possibile vialetto di ingresso ma a un edificio ristrutturato di recente e dipinto di un rosso granata (presente la maglia del Torino?) un po’ fuori luogo (benchè… ricorda l’Old Fort di Delhi, in fondo il colore è indiano). Chiedo all’immancabile guardiano: Pestonji? Sì, mi fa. Ma è appena uscita, c’è su la figlia.

Bene, allora ci sono. Ma: la figlia? Ricordo una giovane donna che si porta dietro un evidente stato di difficoltà. Ricordo la fatica di Meher nel descrivermela. Ricordo gli amici comuni dirmi: eh certo, poi lei ha Nishat. Nishat che si aggira per casa in pigiama, che ha deciso di posizionare la propria stanza da letto proprio all’ingresso di casa, per farsi ben guardare dagli ospiti mentre se ne resta rannicchiata sulla branda traballante che pretende di usare come letto. Nishat comunque discreta, gentile, che saluta distante come una persona in preda a una profonda depressione (o forse semplicemente sotto farmaci).

Salgo, lascerò un biglietto da visita con il mio numero.

Meher, dal canto suo, è una Parsi anomala: ha rotto la tradizione sposando un non Parsi, fatto che come è noto provoca alti lai tra i famigliari e rimostranze a non finire. Nel suo caso una rottura totale (anche se, va detto, è ormai pratica corrente tra le nuove generazione e i Parsi si stanno estinguendo: o almeno, così dicono loro, perché parsi si può definire solo il figlio di due Parsi! Strana attitudine, comune tra le minoranze, quasi un desiderio di suicidio etnico).

Meher ha reagito alla rottura diventando scrittrice. Il suo primo libro di racconti porta il titolo di Mixed Marriage, e ovviamente affronta l’argomento di petto. Dopo il divorzio con il marito (etnia: Cristiano), diventa giornalista e comincia a scandagliare le baraccopoli di Bombay. Ne risultano due romanzi, Sadak Chhaap e Parvez centrati rispettivamente su un bambino di strada e su una attivista.

(Di Meher ho già citato il suo testo per teatro: Feeding Crows, naturalmente organizzato attorno alla tradizione dai funerali Parsi. I corpi vengono lasciati sulla terrazza delle Torri del Silenzio, a Bombay, perché siano divorati dalle aquile pescatrici, o dagli avvoltoi. Problemino: le aquile pescatrici non ci son più, a Bombay, e cominciano a scarseggiare gli avvoltoi…. Un testo la cui evidente ironia aveva provocato crasse risate da parte di un uditorio, così mi disse Meher, in maggioranza Parsi).

Il solito inquietante ascensore sferraglia su fino al quarto piano. L’interno dell’edificio non è certo ristrutturato come la sua facciata, la scala è piena di calcinacci e, direi, materiali vari che danno l’idea di essere abbandonati lì da mesi. Come spesso in queste case la porta in legno è aperta, ma resta chiuso un cancelletto. A destra e a sinistra del corridoio le porte delle due stanze gemelle che Meher affitta: in alto sopra lo stipite la statuetta di Anuman, dio scimmia, da un lato, e il più comune Ganesh dall’altro.

Viene a aprirmi Nishat: che sommessamente mi riconosce, dopo quasi tre anni. Ma appare subito padrona di sé, con semplicità mi invita a sedermi in un salotto che ricordavo come squallido, illuminato da due tubi fluorescenti di gelido neon.

Nishat mi offre un tè. Mi propone i suoi biscotti appena usciti dal forno. Il salotto ora è pieno di oggetti d’arte, soprattutto statue in ferro a metà tra la tradizione e l’arte moderna, dovrò chiedere a Meher di cosa si tratta. E due belle lampade liberty fanno buona mostra di sè, e calore. (Il salotto peraltro è affacciato su due terrazze strepitose: un angolo di mare, i giardini di Colaba).

Certo, è sempre Nishat, il suo sguardo ha un che di opaco, come se ne restasse nascosta dietro a una distanza che le consente di non esibire emozioni, negative o positive che siano, e di non esserne sopraffatta. Come se non reagisse emotivamente.

Ma viene a sedersi con me, mi domanda di Metropoli d’Asia, e mi racconta del suo libro: sì ha pubblicato un libro. Sono ricette di cucina, l’editore è Poular Prakashan: editore locale, ma noto e ben distribuito. Il libro è stato presentato da Crossword, la libreria più importante della città, da una specie di star televisiva, che tiene una trasmissione di cucina molto seguita.

Dietro alla sua compostezza intuisco Nishat raggiante. Le ricette sono una personale reinterpretazione delle molte cucine presenti in India, contaminate tra loro: una sorta di nouvelle cuisine indiana, una fusion: in copertina una papaya farcita di ceci e altri legumi. Mi invita a cena, per una prossima serata.

Dalle nostre parti spesso riemerge una annosa questione (un “dibbattito”): chi scrive non vive, chi vive non scrive. Le Pestonji, madre e figlia, scrivono PER vivere. Meglio.

Kalpana Swaminathan

Kalpana è un’amica. E sono un amico anch’io: da South Bombay a Andheri capita di sorbirsi due ore nel traffico, per incontrarsi una volta ogni tanto a parlare un po’.

Andheri è una delle nuove zone residenziali di classe media a nord, oltre l’aeroporto, e non ha niente di bello da mostrare. C’è un vialone principale piuttosto scalcinato e costantemente in costruzione (serpentine, blocchi improvvisi, cumuli di terra che rendono l’aria opaca di polvere) che esibisce pochi tronfi centri commerciali.

In realtà ci vuole di più a percorrere l’ultimo pezzo di strada fino al ristorante che non a compiere l’intero tratto sud-nord, e i tavolini sulla strada al ristorante sono un controsenso di rumore (quassù circolano i motorisciò) e fumi di scarico. All’interno ci sorprende un incongruo arredamento anni Sessanta italiani, triangoli di plastica, specchi a gogò, e sedie scomode, sembra di essere al tabarin di Milano Calibro 9, con Gastone Moschin e Barbara Bouchet.

Se vien giù lei, meglio. Mi dà appuntamento a Magna Bookstore, una piccola libreria specializzata in narrativa indiana sulla MG (Mahatma Ghandi) Road che dal Regal Cinema attraversa Kala Ghoda e Fort, tra palazzoni grigi (quelli della fantascienza alla Bilal, ne ho già detto), porticati in pietra o in ferro come le stazioni di Parigi.

Seduti a Magna Bookstore si osserva dalla finestra la David Sassoon’s Library, sassi grigi, mattoni rossi, bifore dal disegno orientaleggiante: mughal dicono qui. Dentro si svolge ogni anno un piccolo festival letterario locale, la sala superiore è tutta in legno, ci sono delle sdraio da spiaggia su cui si accomodano a leggere il giornale vecchi signori in kurta bianca e panciotto ai quali vorrei sempre chiedere la loro storia.

Magna Bookstore al primo piano ha un bovindo in legno sulla strada, lungo e stretto, ci sono cinque tavolini a tre gambe, noi consumiamo un nostro rituale privato: beviamo ginger lemonade ghiacciata.

Di Kalapana Swaminathan qui avevo trovato The Gardener’s Song, il secondo giallo della serie Lalli, una poliziotta che vive in un condominio e in un quartiere dove i vicini le chiedono di risolvere il caso di omicidio che riempie le bocche di gossip popolari.

Divertente, frizzante, quasi una guida a Bombay: era il libro giusto per cominciare Metropoli d’Asia tre anni fa, ma l’ufficio diritti del mio ineffabile ex socio (Giunti Editore) se lo perse per strada (giuro: se lo son dimenticati!). Ritrovai in Italia Lalli a marchio Kowalski come Sapori Assassini a Bombay (in realtà è la traduzione del primo libro, Page 3 Murders) , perché Lalli è un’ottima cuoca. Il libro purtroppo fu letteralmente buttato sugli scaffali, sprecato, Kalpana lo sa, e noi festeggiamo con ginger lemonade il nostro lutto comune, il mancato connubio (il secondo libro della serie non lo si è quasi visto, del terzo hanno l’opzione e chissà).

Kalpana è chirurgo. Sì, avete capito bene. Chirurgo generico, ore e ore in sale operatorie che non riesco a immaginare, a Bombay: una volta mi ha fatto un rapido elenco dei materiali che scopriva mancanti mentre era lì in piedi su un corpo umano aperto, e allora altro che detective Lalli, per trovare una soluzione all’enigma.

Kalpana non è l’unico chirurgo scrittore che incontro in Asia, sembra un po’ una moda (anche avvocati, e giudici: ma questo accade pure in Italia). Il nostro Ambarish Satwick de Il Basso Ventre dell’Impero è chirurgo vascolare a Delhi, e ogni tanto se ne trova qualcuno a Singapore, a Jakarta, a Kuala Lumpur. Ne abbiamo parlato, con Kalpana, e lei mi ha fatto un discorso che ho già sentito.

Mi ha detto che la medicina, l’anatomia, la tecnica chirurgica costruiscono linguaggi. Che formarsi su un testo accademico di medicina (costruirci sopra quindi non solo la professione, ma anche la propria giovinezza) è un esercizio mentale che va oltre la disciplina in questione, è un mondo intero che si apre. Insomma: il gergo tecnico come un mondo parallelo.

Kalpana scrive spesso in coppia: con Ishrat Syed, anche lui chirurgo che con lei si fonde nello pseudonimo Kalpish Ratna. Lalli è di Kalpana, ma Uncertain Life and Sure Death è il capolavoro di Kalpish Ratna, un impubblicabile saggio in forma narrativa su una pestilenza del XVI Secolo a Bombay che è un virtuosismo linguistico perché mezzo trattato di scienza medica mezzo racconto individuale. (A ben pensarci: e il libro del chirurgo vascolare Ambarish Satwick non è forse un trattato di linguistica applicata?).

Così come di Kalpish Ratna è Quarantine Papers, un romanzo che non ha avuto grande fortuna in patria, ma che ci presenta un fascinoso racconto dell’India coloniale mescolando medicina, storia, arte: con i loro linguaggi specifici, e il tutto shakerato nel noir.

A me viene in mente (glielo ho raccontato) un corso di scrittura tenuto da Giuseppe Pontiggia nella Milano degli anni Ottanta. C’ero anch’io, e sui gerghi Pontiggia costruì una lezione di un’ora, raccontandoci come i testi universitari di anatomia fossero tra le sue letture preferite. Ora è difficile ricordarne i dettagli, ma ricordo una sua appassionata dissertazione sull’uso degli avverbi in quei testi.

Pontiggia sosteneva che il mestiere dello scrittore non è quello di raccontare storie, ma invece quello di innovare il linguaggio: e cioè di lavorare sul filo di una lingua corrente modificandola di continuo, portandola ogni passo più in là. Mostrando dentro alla sua scrittura proprio questo gioco di frattura e ricomposizione, come un equilibrista sull’abisso.

Per chiarire il concetto con un esempio ci parlò a lungo anche di calcio. Prima ricordando il grande Gianni Brera come un Arbasino della cronaca sportiva. Poi spiegandoci che il gioco del calcio è in sé un linguaggio: infatti lega persone diverse (i giocatori di una stessa squadra) che devono al contempo capirsi tra di loro con i movimenti del corpo, e ingannare gli avversari con gerghi a loro ignoti, o nuovi. E, diceva Pontiggia, i grandi del calcio sono coloro che sanno inventare dalla tradizione un linguaggio nuovo: secondo lui il più grande fu Platini.

(Di Platini ho provato a raccontare a Kalpana, con un po’ di vergogna. E lei? Mezzora sul cricket!).

Bombay vs. Singapore

Tornare a Bombay dopo quasi tre anni è buona occasione di confronti. Tutti mi chiedono: hai visto com’è cambiata? Io abbozzo, perché non vedo quasi niente.

Vengo da Singapore, da Hong Kong, da Kuala Lumpur, e non posso stupirmi più che tanto individuando – lontane da dove passo io – sagome di nuovi grattacieli all’orizzonte in certe zone centrali della città, Dadar, Lower Parel, Worli.

Mi dicono che i palazzi vengano su alti e stretti (o schietti?…) lasciando però la vecchia Bombay a prosperare ai loro piedi.

Come a dire che chi si può permettere un micro appartamento al trentaquattresimo piano in superlusso, una volta uscito dal portone ritrova sporcizia, gente che dorme per strada, baracchini che vendono ogni cosa, spazzatura e il consueto e cordiale odore misto di fognature, spezie e incenso che è sempre stata l’India (non dimenticherò mai il giorno del mio primo atterraggio nella città, ancora in aeroporto davanti al nastro bagagli un manager olandese incazzato che mi diceva: India stinks. L’India puzza: è vero, quell’odore lo senti appena passato il controllo passaporti. A me piace, guarda un po’).

Del resto, appunto, questa è la differenza tra le tante metropoli d’Asia e le grandi città indiane: una democrazia sostanziale, che impedisce alla classe media tronfia e imperante di liberarsi dei propri servitori che invece restano saldamente aggrappati alle sue caviglie. Costruendo questa organizzazione sociale profondamente interconnessa, dove gli intoccabili e i padroni delle ferriere convivono gomito a gomito e nessun ricco può dimenticare cosa c’è fuori dal recinto, perché il recinto non è stato costruito.

Le grandi città cinesi, Pechino, Shanghai, sono invece organizzate per gradi di separazione: come vigesse un’apartheid di censo, che lascia la povertà a venti chilometri dal centro scintillante, un’apartheid che separa i due mondi in modo netto e anestetizza le differenze sociali, creando zone franche, asettiche, emancipate dalla confusione e dal conflitto.

È l’India, questa, corrotta e ingovernabile, che cresce senza infrastrutture perché il Centro (lo chiamano così, il governo nazionale: molto Orwelliano, sì) è immobile e ci mette sette anni a costruire il nuovo ponte che dalla Highway (si fa per dire) dell’aeroporto, porta in un balzo alle soglie di Bombay South con un risparmio di mezzora buona sul traffico intasato.

E tutti a dire: e ci vorranno altri sette anni perché il ponte arrivi fino a Marine Drive, qui non siamo mica in Cina, qui per costruire qualcosa ci vogliono generazioni. E io faccio notare che il ponte lo ho attraversato quattro volte in taxi: c’è un casello, dove a mano si scambiano cinquanta rupie con una ricevutina, e a questo casello non ho mai trovato code perché cinquanta rupie per attraversare Bombay non se le può permettere nessuno qui: il ponte separa, per la prima volta, i due mondi.

Il famoso attore Bollywoodiano che uscendo dal pesante cancello di metallo della sua villa a Bandra si trova di fronte le baracche maleodoranti, e le vede dalla vetrata del salotto di casa sua, le sente nel naso, nelle ossa. Qui, sul ponte, è isolato. E percorre la baia osservando lontane, appunto, le nuove torri di Lower Parel, sognando una Singapore o una Hong Kong che qui non c’è e non ci sarà mai.

Io, ben protetto e isolato all’origine (Milano, Italy, Europe, In The West), resto a Bombay South ben protetto dentro a un appartamento signorile. Ne esco per godermi questo pezzo della città che ricorda un’altra fantascienza rispetto a Singapore (non Ballard) o Hong Kong (non le coreografie di Blade Runner): quella di certo fumetto nostro fine settanta primi ottanta (Bilal?), il degrado, il fatiscente del barocco aggredito dalle piante rampicanti che si infilano in ogni crepa di palazzi maestosi, arcate sovrastate da leoni assirobabilonesi, o più gentili architetture misto legno di bovindi, balconate, con pezzi interi di muro sradicati dalle radici di mandorli indiani improbabilmente affacciati a un quarto piano (altro che giardini verticali archistar di Singapore!).

E i palazzi vittoriani ed elisabettiani lasciati dai Brits, circondati di giardini abbandonati a sé stessi, al loro squallore ma alla loro frescura e silenzio, perché appena fuori il marasma è la regola, i corpi esalano, le esistenze stentate dei chaiwalla che portano il tè negli uffici delle società di marketing contaminano i creative managers, e si mangia con le mani, sporcandosi le dita di condimenti risultato di mille incroci, di ventidue lingue ufficiali riconosciute dal Centro, di culture e religioni e sette lontane tra di loro fino a tremila chilometri, dall’Himalaya all’equatore, dal Sud-est asiatico all’universo islamico.

Foto: ShashiBellamKonda

Raj Rao, quattro anni fa a Bombay

Avevo trovato il suo The Boyfriend (Il mio ragazzo) in tutte le librerie di Bombay. L’avevo letto, mi era piaciuto.

Non solo avevo scovato quel che cercavo, un romanzo che dimostrasse l’esistenza di un India nuova, contemporanea, capace di affrontare temi che sono anche i nostri, lontana dalle saghe famigliari di villaggio, a base di sari colorati e spezie.

La storia di un amore omosessuale a Bombay aveva la capacità di raccontare la città in molti suoi aspetti: la vita dei professionisti a cavallo tra giornalismo e pubblicità, la relazione tra le caste e i ceti sociali alti e gli intoccabili, anche le bombe e gli scontri tra fondamentalismi religiosi che hanno segnato la storia dell’India. Qualcuno, in Italia, mi aveva fatto notare: è un romanzo di costume, c’è poca letteratura alta. Sì, embè? Perché Pennacchi o la Avallone, allora?

Trovato il contatto, scoperto che il Professor Raj Rao dell’Università di Pune scendeva sempre a Bombay nel weekend, gli ho chiesto un incontro.

Cinquant’anni suonati, nessuna intenzione di esibire la propria omosessualità, Rao mi viene incontro davanti all’ingresso del Regal Cinema, uno dei luoghi simbolo della South Bombay. Non dovrei descrivere così uno dei più grandi scrittori indiani contemporanei, lo so: ma mi ha fatto l’effetto di un cagnolone che ti viene incontro con le orecchie basse, orecchie peraltro parecchio aperte ai lati del viso (una volta si diceva “a sventola”).

E un atteggiamento di dolore composto e trattenuto, una malinconia questa sì esibita, ma senza rancori, senza rimostranze. Vestito con blue jeans e camicia dello stesso colore, mi ringrazia con un certo ossequio per la mia decisione di pubblicarlo in Italia.

Io commetto l’errore tipico dei quelle mie prime settimane a Bombay: lo invito in un noto ristorante di Colaba, dove la qualità delle pietanze non è necessariamente superiore a quella dei ristoranti popolari (quindi eccelsa), ma lo sono i prezzi, e lo status dei clienti: siamo all’Indigo, giusto alle spalle del Taj Mahal Hotel, cucina fusion tra la francese e l’indiana, molti bianchi, indiani giovani stile Bollywood (cioè l’aria tamarra, camicia aperta sul petto, oro ai polsi e barba non fatta), indiani anziani stile funzionario di governo (kurta bianca e pancia prominente, arrivati sulla vecchia Ambassador bianca con autista e lampeggiane sul tetto).

È evidente la timidezza di Rao in questo ambiente, ma anche qui dovrei dire: timidezza contenuta, che non gli impedisce di richiamare un cameriere per precisare la sua ordinazione, ma vedo che gli sguardi che si lancia attorno sono di controllo. Preferisce un tavolo addossato al muro, e a tratti mi parla appoggiandosi con una spalla al muro stesso, un gesto da ragazzo.

Leggendo i suoi racconti (quelli che abbiamo appena pubblicato), avevo capito che mi trovavo di fronte a un autore di livello, ben determinato a non nascondere, anzi a rilevare nella scrittura la propria omosessualità.

Un intellettuale che nel corso di una già lunga vita ha affrontato le ovvie difficoltà (recentemente ha vinto una battaglia in università per ottenere il posto che gli spettava di diritto, Vice-Chancellor), e che si è abituato a muoversi con il passo lento e regolare di chi sta camminando in salita, su per un ghiaione di alta montagna, cercando di mantenere la propria velocità al di sotto della soglia aerobica (insomma: senza doversi fermare ogni cinquanta passi per il fiatone), tenendo per sé una fatica di cui è meglio dimenticarsi, senza stare mai a domandarsi perché si è scelto di camminare in salita, ma continuando passo dopo passo, difendendo l’integrità e la serenità del proprio pensiero: una libertà sotto tutela, insomma.

Ripensandoci, è quando gli ho chiesto quanto la propria condizione di omosessuale lo mettesse in pericolo in questa India ancora pervasa di fondamentalismo religioso e maschilistiche ovvietà, che Rao si è per la prima volta appoggiato con la spalla al muro, parlandomi.

Dopo la cena mi ha portato nel luogo simbolo del suo romanzo, tappa fondamentale della propria esistenza: il Testosterone, discoteca gay aperta da un decennio a Bombay lungo l’Apollo Bunder, in faccia al Gateway of India, a due passi dal Taj e soprattutto di fianco al Radio Club, un circolo tutto legno e vetri smerigliati per ricchi signori che immagino disturbati da una tale contiguità. Dal Testosterone escono i protagonisti de Il mio ragazzo la notte nella quale, rompendo davvero gli schemi, invece di lasciarsi intimidire da due poliziotti con i baffoni regolamentari (che sono lì, come è ovvio, a pretendere il servizietto gratis, lo stupro della Legge), li pestano per bene, tra le risate.

All’ingresso Raj mi presenta al cassiere, un po’ spaventato della mia presenza (scoprirò di essere l’unico bianco all’interno, l’accordo con le autorità quattro anni orsono era: non coinvolgete i turisti, tanto meno quelli in cerca di ragazzini; il Testosterone resta aperto, pare, grazie ai favori di qualche alto papavero, per motivi non specificati, con le intuibili relazioni di vassallaggio che Rao ben descrive ne Il mio ragazzo).

Sono il suo editore italiano, voglio vedere i luoghi descritti nel romanzo. Dentro, in un antro scuro che pare un centro sociale, con pochi tavolini e tanti ragazzi appoggiati alle pareti, i pochi che stanno ballando si ritraggono, al nostro ingresso. Raj mi chiede di aspettarlo e va a salutare qualcuno. In realtà, mi spiega, deve rassicurarli. Due ragazzini, con un po’ di trucco sugli occhi, mi si avvicinano con qualche moina. Rao mi dirà: sono molto pericolosi, anche violenti, il padrone non riesce a tenerli fuori dal locale.

Ballard a Singapore

Altro che esangui esistenze, come avevo intitolato un mio post due mesi fa. Singapore è il futuro.

Singapore, città stato di cinque milioni di abitanti, highways, grattacieli e quartieri residenziali, parchi giochi e casinò, acque, fuochi d’artificio, cielo sempre in movimento e stagioni immutabili, una eterna estate piovosa che non lascia traccia del suo passare.

Il giorno prima di partire ho incontrato il mio amico editore Fong Hoe Fang in un coffee-shop a Paya Lebar, sotto a un ufficio postale cilindrico contornato da ascensori a vista che salgono e scendono come navette spaziali.

Seduti al tavolino all’aperto, dopo la pioggia (e quindi con una luce molto favorevole, devo ammettere) io lo ascoltavo parlarmi dei suoi poeti e del progetto di portare la poesia contemporanea nelle scuole, su uno sfondo da cartoon: la stazione sopraelevata del metrò, il binario sopra i piloni, i treni in arrivo o in allontanamento davanti a una infilata di palazzi tutti uguali ma di colori diversi.

Il tutto circondato da altissime acacie a loro volta ricoperte di rampicanti. Pensavo, cos’è? Cos’è che mi attira di questo luogo per alcuni asfittico, per altri opprimente, e per molti semplicemente l’unica esistenza possibile al di là dell’emigrazione. E finalmente mi è venuto in mente Ballard.

J.G. Ballard, scrittore di fantascienze sociali che rappresentano qui un presente di ceto medio diffuso, tutto uguale, tutto egualmente percorso dalla paura di non farcela, di restarne tagliati fuori (per esempio: Condominium, Cocaine Nights, Super-Cannes). La piccola borghesia (cosmica), se ancora ha un senso questo termine in un mondo che come dice giustamente qualcuno, rischia di non avere altro all’infuori di sé.

Interrogato sul futuro Ballard rispondeva: questo è il mio timore, che il futuro sia un vasto e vuoto quartiere residenziale dell’anima. Ed eccolo qua: Singapore. Singapore che io proprio per questo adoro, perché è PURO, un esperimento sociale senza interferenze, senza vie di fuga per lo sguardo, senza possibilità di fraintenderlo, di disconoscere la nostra società e le nostre esistenze (esangui) per quel che sono.

A Ballard chiedevano: come è possibile che proprio tu, il cantore della violenza sottesa, dell’inespresso, del banale orrore quotidiano connaturato a questa condizione sociale, poi ti sia rintanato a vivere, appunto , in un banalissimo quartiere suburbano, residenziale, di una media cittadina inglese? E lui rispondeva: perché è qui che si gioca la partita. Questo è il luogo della lotta, dove questa gente si scontra giorno dopo giorno. È qui che lo si vede senza filtri.

Sono d’accordo: è un iniezione di verità, di solido terreno reale su cui poggiare i piedi. Singapore lista grigia, dove ancora fanno tappa alcuni tra i peggio capitali del globo. Singapore dove ciascuno ne ha una sua fettina, Singapore che teme e confina gli immigrati (più del 10% dei residenti) che fa lavorare nei suoi cantieri, lungo le nuove strade pagate dalla congestion charge. Leggete Carver, amici miei poeti di Singapore, leggete Cheever: quando, qui, un grande romanzo sul millennio suburbano?

Foto: hkfuey97

Art Studio

La presentazione a Singapore del suo romanzo era in cinese, ma a cena Pway Ngon mi parla in inglese. Una lingua imperfetta, ma sufficiente per raccontarmi di questo suo ultimo romanzo, Art Studio appunto.

C’è molta autobiografia. Ci sono le vite di un gruppo di artisti, seguiti dalla loro giovinezza (gli anni Sessanta) ai giorni nostri. Artisti, ma anche scrittori e giornalisti che Pway Ngon ha visto passare per trent’anni dalla sua libreria, piccola ma prestigiosa: la Grassroots Book Room.

Una libreria che ancora oggi combatte per la sopravvivenza, dentro a un mall (cioè a un edificio a più piani dove sui corridoi e sulle balconate si affacciano negozi di ogni tipo), oramai troppo vecchio: costruito negli anni Settanta, appunto, non in grado di competere con le nuove e magniloquenti architetture contemporanee, con l’esibizione del lusso.

Ma la Grassroots Book Room ha ancora un nome importante, il mall in questione è proprio di fronte alla National Library. Pway Ngon, stufo di passarci la giornata dopo più di trent’anni, la sta affidando in gestione, e finalmente si prenderà più tempo per scrivere.

Scrivere: di sé stesso, direi. È uno di quegli scrittori che della propria esistenza fanno il fulcro della narrazione. Pway Ngon, credo, ha bisogno di farci sapere quel che ha visto attorno a sé, e sa farlo senza indulgere in narcisismi esasperati anche quando si tratta di menzionare i suoi anni di galera, la miseria conseguente a questi, la difficoltà di affermarsi come scrittore.

Quando Pway Ngon mi racconta dei suoi anni giovanili, racconta raramente di sé: dice io, ma solo per introdurmi a ciò che lo circondava.

Qui a cena gli argomenti sono vari. Mi racconta Chennai, in India, dove lui è andato a stare per qualche settimana, per capire l’ambiente di provenienza di uno dei suoi personaggi, indiano di origine. Mi parla di un pittore, e io non riesco a distinguere il personaggio del romanzo dalla persona reale, l’amico che lo ha accompagnato per molti anni.

E poi, inevitabilmente, si torna a parlare della lingua, il cinese in cui scrive. Qui, di nuovo, la questione si fa complessa. Il cinese si basa sugli ideogrammi, ciascuno dei quali è foneticamente una sillaba, ma ha comunque un significato autonomo.

In sostanza: quando un cinese scrive o legge è come se avesse due piani di lettura, ogni parola ne contiene in sé altre due o tre. Quando scrive, invece di cercare una musica, un suono per le proprie parole, cerca una successione di immagini attinenti alla narrazione. Per questo la letteratura cinese è di così difficile traduzione nelle nostre lingue.

Ma da Pway Ngon scopro qualcosa di nuovo. Perché la domanda è: scrivendo al computer, cosa succede? Che tastiera usi? Come fai ad avere a disposizione centinaia di ideogrammi? E la risposta è sorprendente: io scrivo con il vostro alfabeto. Pway Ngon, e così tutti coloro che scrivono direttamente al computer, traslittera automaticamente. Pensa una parola pronunciandola dentro di sé, la scrive su una tastiera qwerty come tutti noi, e un programma fa comparire sulla pagina l’ideogramma corrispondente.

A me sembra un processo faticoso, pazzesco: lui mi dice, mentre scrivo è come se cantassi. Mentre rileggo, come se guardassi un mio dipinto.

Foto: Singapore Writers Festival

Un indovino gli disse

L’abbiamo già sentita: la minacciosa profezia valse a Terzani un libro, uno dei suoi migliori (ma io non stravedo per Terzani), perché fu costretto a viaggiare un anno intero senza prendere aerei, quindi via terra, attraversando le frontiere più remote e battendo le strade più dissestate.

Qui abbiamo un giovane indiano di 28 anni, trapiantato a Singapore dove si è laureato in ingegneria, e dove ci è rimasto: a fare film, a dipingere, a racimolare qualche soldone come consulente finanziario part-time (sic!), perfino a scrivere un romanzo, The Diary of an Unreasonable Man, che Penguin India pubblicò qualche anno fa.

La domanda che pongo a Madhav Mathur è: non ne fai troppe? Tra l’altro lui esibisce sempre un paio di occhiaie che denotano sonno arretrato (dormo due tre ore per notte, mi confessa): il suo primo film, uscito in sala a Singapore, si intitolava The Insomniac e raccontava uno scrittore alle prese con una sindrome da autodistruzione, incapace di staccarsi mentalmente dal proprio romanzo, che finisce col vagare la notte per le strade di Singapore inseguito da mostri di vario tipo, suoi e altrui.

Lo salverà una donna? Tra l’altro Madhav ha una bellissima giovane moglie, una consulente finanziaria (sic2!) russa, biondissima insieme a lui nero negli occhi nei capelli e nella pelle, che lavora per Deutshe Bank.

Ripeto: non ne fai troppe, Madhav Mathur? The Outsiders, l’ultimo film, è stato a Venezia a un evento collaterale alla mostra, poi in California, e ovviamente al Singapore Film Festival. I suoi quadri sono stati esposti (e dice lui molto ben venduti) anche a Delhi e Hong Kong. Ora mi parla di un suo script nelle mani di una produzione di Bollywood, forse con regia addirittura di Anurag Kashyap.

E la storia che ha per la testa in questo momento non sa se diverrà un libro, un film o più probabilmente un testo teatrale: una storia ambientata in un India del futuro, dominata dal fascismo induista.

Digressione: quando un intellettuale laico in Asia vuole definire l’oppressione fondamentalista, sia essa islamica, induista o perfino cristiana, usa il termine “fascismo”. Non integralismo o fondamentalismo. Perché non ne sottolinea la costrizione esercitata da una morale arbitraria, sul piano del comportamento individuale, ma sente piuttosto l’esercizio del potere, la dittatura dentro a ogni segmento della società. Insomma: del velo gli frega meno. E quest’uso del termine “fascismo” l’ho ritrovato in India, in Malesia, in Bangladesh.

Mathav è comunque uno che si diverte un mondo a fare quel che fa: e la conversazione corre sciolta, veloce, intorno al mestiere dello scrittore, al rapporto con la famiglia e la religione (induista appunto) di sua madre, con il pubblico giovanile e meno, con le ossessioni che spesso muovono gli artisti.

Ed ecco comparire l’indovino: non uno solo, ma cinque! Cinque indovini che a sua madre dissero: tuo figlio morirà a trent’anni. È forse per questo, dice ridacchiando, che penso di dover fare tutto subito, senza perdere tempo. E capisco che non lo dice mica per scherzo. Con un sospirone dice: beh, se mia madre avesse evitato di portarmeli per casa, quelli, mi avrebbe fatto un piacere.

Io penso, e non gli dico: questa è quasi la maledizione di una madre. Poi pero’ glielo dico. Lui conferma, senza esitazioni. E aggiunge: comunque uno di questi cinque recentemente ha detto che no, le cose son cambiate, non morirò più. Provo a fargli raccontare di più: la sua famiglia. C’è un blocco, strada chiusa, non si procede.

Chiedo: ma tu ci credi, agli indovini?

Lui: direi proprio di no. Però, chissà cosa ho per la testa, io. E poi: ma gli indovini, dai! Non sono mica matto!

Il segno di Troy

Ho raccontato, nel post precedente a questo, la mia impressione, una volta terminata la lettura del suo Resident Tourist, di ritrovarmi dentro alle sue tavole.

Come quando si guardava il Blob dei bei tempi su Rai3, e poi ogni trasmissione ti pareva finta, un Blob di sé stessa, perché ne veniva fuori la comicità involontaria, la fiera delle assurdità.

Ma Singapore perché rende questa impressione, da fumetto? Troy Chin ha un segno nitido, quasi geometrico, iperrealistico ma allo stesso tempo virato sulla leggerezza.

Allora mi sono chiesto: forse perché così è Singapore? Una città semplificata, una città giocattolo? È noto come le forme del design contemporaneo vadano d’abbrivio verso un segno infantile (mi vengono in mente le nuove Mini, o le 500, che sembrano la replica dei modelli originali ad opera dei disegnatori di Topolino, con tutte quelle belle curve e i fanaloni; o tanti oggetti d’uso quotidiano che sembrano prodotti dalla Chicco, senza spigoli perché non si faccian male i bambini).

Troy non compie questa deriva (né le architetture di Singapore lo fanno), ma aggiusta il tiro comunque su un segno giocattolo che è ESATTAMENTE quello sui cui si innestano le architetture di Singapore: grattacieli sulle cui forme ci si interroga invano (il famoso Marina The Sands si compone di tre torri oblique, ondeggianti come belle signore, sulla cima delle quali si posa una specie di barca!), una altissima ruota panoramica da luna park, un peraltro bellissimo teatro e sala da concerti che assomiglia a un porcospino (qui lo chiamano il Durian, un frutto locale), i grattacieli di vetro sotto ai quali, orizzontale, la mole di un ex ufficio postale coloniale sembra rifatto dagli architetti di Disneyland.

Insomma, la bravura di Troy Chin è quella di far muovere le esistenze giocattolo dei suoi personaggi (scuola, università, ufficio, matrimonio, centro commerciale, e il tutto disperatamente, e senza pensiero critico) dentro a questo segno giocattolo.

Segno che si è inventato da solo, da completo autodidatta, disegnando cinque libri l’ultimo dei quali, il quinto, gli fa venir voglia di ridisegnare i primi due. Bravo Troy.

Troy Chin, turista residente

Trovare il modo giusto per descrivere questo artista non è semplice. Vorrei evitare di andare per frasi fatte.

Sul palco del Singapore Writers Festival era a confronto con altri due graphic novelists locali. Gli altri sorridevano soddisfatti, lui aveva l’aria più incazzata che mai.

Al centro della sua produzione artistica (cinque volumi intitolati The Resident Tourist, la storia di un sé stesso ritornato a Singapore a trent’anni, dopo un decennio a New York) sta una sensazione di perdita e di rancore: la Singapore della sua giovinezza non c’è più, i suoi amici di un tempo (erano compagni di scuola ma anche una rock band) li ritrova sfiniti dietro a un sogno o un progetto di vita che prevede unicamente – a dir lui – soldi soldi soldi. La carriera, la famiglia, ogni genere di consumo concesso.

Non c’era niente di cos’ straordinario, in questo suo dire: il rischio delle frasi fatte e del luogo comune lui lo corre tutto. Neppure è una novità trovare anche in lui quel po’ di narcisismo che, non appena gli viene messo tra le mani un microfono, lo illumina dall’interno, lo aiuta a pronunciare frasi argute da uditorio.

Ma se il Troy Chin protagonista del Tourist è davvero lo stesso Troy Chin che ho davanti io adesso (il banco del bar, per me una Guinness per lui un tè al limone perché, dice , alle otto va a correre tutte le sere: la disciplina dello scrittore), c’è molto di vero nell’incazzatura che esibisce.

Come ogni scrittore, se lo conduco su un piano di conversazione piatto, lui esibisce luoghi comuni che anche noi ci raccontiamo spesso nella nostra Italietta, le relazioni tra le persone che non sono più le stesse, la scomparsa dei luoghi di incontro, l’eterno telefonino o mail o Facebook, tutti in carriera insoddisfatti e consumatori.

Ma se lo imbroglio un po’, se lo conduco a parlar d’altro più semplicemente (che so, sua nonna, o gli autobus di Singapore) senza chiedergli dichiarazioni programmatiche, vien fuori una persona incazzata sinceramente, se pur con garbo.

Nel Resident Tourist, non a caso, tutto acquisisce spessore. A cominciare dagli occhi del protagonista Troy, rivestiti di un paio di occhiali dalle lenti CIECHE: cioè, lui è l’unico di cui non si vedono gli occhi.

Per continuare con la compassione con cui ascolta tante storie di delusioni e sfighe da parte dei suoi amici, e dalla misura con la quale si incazza con loro. O con una ragazza, Mint (ma questa è la storia che convince meno, come se ci fosse da parte dell’autore la necessità di raccontarsela, più che raccontarla).

Io, qui seduto al bar, cerco di andar di sguincio, di non farlo parlare di queste sue vere e proprie ossessioni. Per il passato, il presente e il futuro. Il passato che in questa storia in cinque volumi, scritta e disegnata in poco meno di tre anni, compare come passato distante (i dieci anni a New York, il fallimento di un aspirante musicista che si ritrova dietro una scrivania negli uffici di un produttore rock), o come passato presente (l’infanzia e la scuola superiore a Singapore, con i suoi luoghi e le sue relazioni).

E il futuro del suo progetto attuale: una striscia quotidiana, LOTI, su un gruppo di bambini e il loro cane volante, e c’è chi lo vede e chi invece non ci riesce: un modo – spiega lui all’uditorio – di ricordare come era più semplice essere bambini ai suoi tempi, quanto più gioco e immaginazione: come un monito, dice, ai genitori di oggi.

E sicuramente una voglia di futuro: lo confessa il personaggio Troy Chin alla sua Mint, in cima al Flyer di Singapore, la ruota panoramica più alta del mondo, dove lei gli dice, papale papale: tu non hai un lavoro, Troy, che futuro vuoi costruire con me? Perché così è: quando Troy tornò a Singapore non aveva in mente altro se non raccontare quel che ritrovava e quel che avrebbe voluto ritrovare.

Scrive le sue tavole, il personaggio Troy Chin del Tourist, e così fece l’omonimo artista, sentendosi dire da ciascuno: perché tu non lavori? Chi sei, se non lavori? E lui si incazza, ma scrive, disegna (senza che mai l’abbia saputo fare: e si vede la differenza tra il segno del primo volume e quello del quinto). Si è autopubblicato per tutti questi anni, i volumi sono in tutte le librerie, racimola qualche lira (Singaporean Dollars in verità) con lavori su commissione, ma non manca mai la sua LOTI-striscia quotidiana.

Che pubblica sul suo sito, naturalmente: nessun giornale, fino a ora, l’ha voluto (dice candidamente: il mio pubblico è fatto di adulti, tra i trenta e i quarantacinque, altro che bambini).

Venerdì, nel salone delle cerimonie del palazzo presidenziale, hanno consegnato gli Young Artists Award 2011: lui è uno dei cinque. Un paginone sullo Straits Times. Chissà che adesso Mint non cambi idea, e che non gli dica più: Troy, che futuro vuoi che diamo ai nostri figli, in QUESTA città? E lui risponda: è la MIA città. Qui voglio vivere.

A me, terminata la lettura del quinto Tourist, resta questa sensazione: percorro le strade di Singapore e la vedo disegnata dal tratto leggero, pulito, di Troy Chin: i grattacieli, i monumenti, gli autobus e le macchine: vuol dire che funziona no? O vuol dire che è Singapore, la città stessa, a essere un fumetto, un cartone animato?

Mi dice: ma questo è il centro, per i turisti e i businessmen. Un giorno ti porto su da me, nei quartieri residenziali, a nord. Dove c’era il mio parco giochi.

Il suo sito: DrearyWeary, che tradotto sta per: triste e annoiato. E in home page, non per caso, ha una muta di bambini ridanciani.

Foto: Eustaquio Santimano

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