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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Su Mo Yan

Ho detto la mia. La trovate, a preferenza, su In diretta dall’Asia oppure su Doppiozero.

AB

Han Han cancella il tour americano

La notizia ci coglie di sorpresa: non va più negli USA, a ottobre, a promuovere il suo New Generation, edito da Simon and Shuster.  Noi ci aspettavamo un po’ di fuffa mediatica, volevamo approfittarne per restare in scia con Verso Nord, Unonoveottootto, il suo ultimo romanzo che mandiamo in libreria a metà ottobre.

Però la cancellazione è una notizia: dopo che qualche dissidente gli ha dato del venduto, del troppo soft, del compromesso con il regime (io non ci ho mai creduto), ecco che il viaggio non si fa: chiaro che glielo hanno impedito. Non raccontateci balle: che ha paura di volare? Altre paure, in questo autunno di elezioni ai vertici del partito, e strane scomparse dalla scena di dirigenti di spicco, di candidati alla segreteria (Xi Jinping, assente dalle scene per due settimane).

Pensierini asiatici: sull’identità delle classi medie

Il nostro Chan Ho Kei (occhèi, occhèi…), con la sua passione per le amnesie dei suoi personaggi, fa venir voglia di ragionare un po’ sulla questione dell’identità. Più di quanto sia successo a noi in una storia recente la generazione dei trenta quarantenni si confronta con scenari nuovi, e sperimenta sicuramente una rottura con il passato (forse con le visioni del mondo dei propri genitori).

Zheng Yu Ran è una giovane cinese, che si è precipitata a incontrarmi in un ristorante del 697 (il quartiere degli artisti di Pechino) al volante di una Mini fucsia, di quelle con le orme da cagnolone disegnate sul cofano e un grosso orsacchiotto di peluche sul sedile posteriore. Zheng Yu Ran scrive fantasy: eroi con gli spadoni capaci di spostarsi nel tempo e nello spazio. Uno dei suoi punti fermi sono le porte che si aprono su realtà parallele: oltre i confini della realtà, dunque.

Intimidita dalla presenza di uno straniero (parlava come se stesse stringendo a sé l’orsacchiotto) mi diceva con grande naïveté che loro, i giovani della Cina contemporanea, hanno alle spalle una letteratura profondamente legata al reale: sia esso immaginario come ai tempi del realismo socialista, sia esso veritiero come nel caso delle ultime due generazioni di scrittori: che sentono l’urgenza di rimasticare la Rivoluzione Culturale e i suoi orrori e traumi, così come la fine anni Ottanta e la repressione culminata con Tienanmen.

(continua…)

CRONACHE DAL PAESE DI MEZZO: I strongly suggest you do not.

Vien da pensare al I would prefer not to di Bartleby, se non altro c’è un assonanza. È invece inquietante, vagamente minacciosa questa frase, I strongly suggest you do not , soprattutto se pronunciata a pochi giorni di distanza – poche ore in verità –da due diverse persone a Shanghai e a Pechino.

La seconda, in particolare, insiste per vedermi al più presto, appena sbarcato nella capitale. Come se avesse paura che senza il suo avvertimento io possa spingermi troppo in là, superare un limite. Lo avevo preannunciato via mail: vorrei delle introduzioni, vorrei replicare in Cina quel che ho messo in movimento a Singapore, a Delhi, a Kuala Lumpur: entrare in società con editori locali. A Pechino e Shanghai avevo da tempo dei contatti, qualche discussione era iniziata e si era poi arenata.

(continua…)

Ti svegli un giorno e non sai più chi sei

Un giallo vero, finalmente. E viene dalla patria del cinema d’azione, dell’omicidio drammaturgico e del western urbano: la magnificente Hong Kong.

Quando un editore taiwanese, Crown, mi propose di partecipare all’assegnazione del Soji Shimada Mystery Award parlandomi di “giallo a chiave”, avevo storto un pochino il naso. Per giallo a chiave si intendeva infatti il giallo classico: Poirot o Sherlock Holmes, insomma, in caccia di indizi utili alla soluzione del caso.

I maggiordomi son tornati di moda anche da noi (vedi in Vaticano), ma Emily, simpaticissima e irrefrenabile editor tascabile di Crown aveva faticato a convincermi. Io obbiettavo che in Italia preferiamo da tempo lo schema del noir, dove la soluzione all’enigma conta meno rispetto alla grana dei personaggi, agli interrogativi etici: a questi sì, il detective di turno dovrà dare una soluzione.

Emily diceva: ma questa è l’Asia: l’enigma siamo noi. E l’enigma dobbiamo scioglierlo.

(continua…)

Il viaggio del Naga

Non ho mai incontrato di persona Tew Bunnag. Ci siamo sentiti più volte, certo, per telefono e via Skype, ma io non l’ho mai visto in faccia, contrariamente a quel che è successo con tutti gli altri autori di Metropoli d’Asia (e che esagerando un po’ rivendico come una conquista personale) .

Mi piace prendere la decisione definitiva su un romanzo dopo aver visto il suo autore, dopo aver speso del tempo con lui o con lei, in modo da capire meglio quale esperienza abbia generato la sua scrittura, quale personalità, e visione del mondo o di sé stessi conduca all’urgenza, alla necessità di scrivere.

Ho incontrato Massimo Morello, invece, che del Naga è stato il traduttore. Giornalista italiano di stanza a Bangkok, avventuriero delle notizie e delle storie di quel pezzo di mondo, che lui con difficoltà riesce a far passare dentro a una nostra mediasfera ormai ancorata alla ripetizione del già detto, alla via vecchia piuttosto che alla nuova. Propensa a rassicurare il lettore (nulla cambia, siamo sempre dentro a una stessa trama) piuttosto che a stupirlo con ciò che non conosce.

Trovare Morello – Max – a Milano, davanti alla mia scrivania, rappresentava un po’ un coronamento del lavoro di tre anni: un traduttore, dimostrando di aver perfettamente compreso la politica editoriale di Metropoli d’Asia, viene a propormi di sua iniziativa un romanzo ambientato in una delle grandi metropoli del Sud-est, con tre protagonisti – un intellettuale che ha provato e poi rinunciato a farsi monaco buddhista, un pittore e poeta, una produttrice cinematografica e attrice – perfettamente inseriti in una scena contemporanea, eppure mai affrancati dalla cifra secolare di Bangkok, dentro a un campo di forze che resta dominato da valori, o abitudini, o spiriti, o tradizioni, o ambientazioni inconsce e legami immateriali, siano esse amicizie o amori e prossimità o invidie (scusate la lunga locuzione: conoscete un modo migliore per non utilizzare la parola spiritualità? Perché quella parola a me sa troppo di luogo comune, stereotipo) che trascendono il tempo presente.

La indefinibile apparizione del Naga – il dio serpente che rappresenta l’acqua, forza creatrice e distruttrice allo stesso tempo – nelle vite dei nostri tre eroi sarà spunto per il cambiamento, annuncerà e accompagnerà la svolta.

L’apparizione di Morello davanti alla mia scrivania mi ha aperto la strada della Thailandia, così come la pubblicazione di Naga’s Journey a Bangkok e la sua distribuzione nel mondo ne ha accompagnato la storia recente: perché Tew Bunnag ha saputo dimostrarsi profetico, indovinando prima del loro accadere le tensioni tra rossi e blu nella politica Thai, e soprattutto la gigantesca alluvione che, lo scorso novembre, ha seppellito e messo in ginocchio la città.

E allora speriamo davvero di riuscire a incontrarlo, quest’autore, di cui abbiamo sentito raccontare tanto, ma in modo un po’ vago, forse distorto, forse allusivo. Al punto che non ce la siamo sentiti di raccontarlo apertamente, di farne una suo bio completa per il risvolto di copertina e nel nostro comunicato stampa. Ad esempio ci è stato detto che Bunnag viene da una delle più importanti e più antiche famiglie della Thailandia, che di questa famiglia che vanta importanti uomini di stato lui sia una sorta di pecora nera, che per questo abbia deciso di costruirsi un’altra mezza vita in Spagna, a 10.000 chilometri di distanza.

Che nel formarsi della sua personalità molto abbia contato il suo essere maestro di Tai Chi (o di Taijiquan? Anche questa andrebbe chiarita), che è la versione meditativa del Kung Fu, e che lui sia un esperto di arti marziali, più di quanto non emerga dai suoi libri sul tema. Cose che lui, a voce, nega o conferma a mezza bocca.

Abbiamo bisogno di vederlo Tew Bunnag: speriamo di poterlo avere in Italia, di poterlo presentare al pubblico, a raccontarci tutto. A dirci, soprattutto, come ha fatto a prevedere la furia delle acque, il Naga.

E poi vorremo vedere Morello: il medium che per noi ha evocato Bunnag. Prima che si stufi definitivamente dei nostri media, e vada magari a ritirarsi in una lontana e sperduta isola, insieme a qualche monaco: da cui tornerà, come il Phra Boomtan del romanzo, per reimmergersi in un mondo nuovo, più interessante.

Il viaggio del Naga (in libreria dal 26 aprile)

Zhu Wen

Zhu Wen mi aveva accolto con molti onori. Arrivato a Pechino per la mia prima volta, io ero l’unico editore straniero che avesse deciso di tradurre e pubblicare Dollari la mia Passione (ci fu anche un’edizione francese, ma solo un paio d’anni dopo: Metropoli d’Asia apriva la strada).

(continua…)

Una rivista, un intellettuale, una rivolta: da rivedere a Londra, domani

Ou Ning mi spaventa una sera a cena, dichiarandomi l’intenzione di cercare un incontro con Toni Negri quando visiterà Parigi, in aprile. Di tanti, proprio lui? Provo a spiegargli i danni (eufemismo) fatti nella seconda metà dei Settanta da questo ineffabile professore, che lasciò dietro di sé una scia di delitti e qualche migliaio di ragazzotti in galera, e si accomodò poi nella bellissima Parigi.

Gli dico anche: ecco, se devo fare un paragone, per la sua arroganza e violenza, per il disprezzo dell’avversario e per il fanatismo, Negri mi fa pensare alla vostra Rivoluzione Culturale: che fu ribellione contro la burocrazia, ma presa dal lato sbagliato (eufemismo).

Ou Ning (che come tanti nel mondo lesse Impero, bigino e instant book no global del professore, che mettendo in fila buoni pensieri elaborati da altri migliori di lui si vide così moltiplicata d’acchito la quota di mercato), mi capisce: certo, dice, prima di scrivere del presente, avrebbe dovuto “chiedere scusa per il passato” (locuzione che immagino sia una traduzione abborracciata nel suo inglese scarso del “fare autocritica” in cinese).

Perché la ribellione che cerca Ou Ning è sicuramente differente. La sua Chutzpah (qui c’è anche una sua buona biografia) è una rivista di letteratura pura, nonostante il nome (parola che in yiddish significa “insolente”, o “faccia tosta”, e che lui riproduce senza però una particolare vocazione alla storia dell’ebraismo: lo fa così, gli piace il termine).

Intende portare all’attenzione del pubblico (in parte internazionale perché al suo interno l’inserto Peregrine traduce ogni volta tre o quattro racconti in inglese, dei trenta che Chutzpah presenta in cinese) la generazione di quarantenni, a suo dire schiacciati tra i più vecchi nomi noti dell’editoria internazionale (ad esempio Mo Yan, e poi a cascata Yu Hua, Yan Lianke, Su Tong, Bi Feyu) e la generazione del giovanissimi, mezza sesso e rock and roll, mezza blog (tra parentesi, Ou Ning mi parla malissimo di Han Han, che secondo lui è una versione edulcorata del potere, un ribelle di facciata, e quando invece gli chiedono chi sia il migliore scrittore cinese contemporaneo dice senza esitazione: Zhu Wen! Come a dire: Metropoli d’Asia ha il meglio e il peggio).

La generazione che interessa a Ou Ning è quella nata nei primi settanta: la sua, che da giovanissima ha visto le timide aperture della censura nella seconda metà degli Ottanta, e si è poi schiantata contro la repressione di Piazza Tian an Men.

E questa generazione oggi osserva e rendiconta con favore ciò che si muove nel paese di mezzo, su tutte la ribellione di Wukan: una cittadina intera che scende in piazza contro la corruzione dei dirigenti di partito locali.

Ou Ning quindi, che è stato a Milano ospite del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, cerca incontri con i ribelli d’Europa (da un punto di vista intellettuale, certo): a Roma andrà al Teatro Valle Occupato, a Parigi s’è detto, a Milano Stefano Boeri gli promette un incontro coi Wu Ming che però non si realizza. Dopo il rush milanese, purtroppo, parte in fretta per Londra (e chi incontrerà laggiù?).

Io passo quindi qualcuna delle mie giornate a ruminare, in ritardo: ma chi avrei potuto presentargli, io? Cosa avrei potuto dirgli? Come indirizzarlo su intellettuali, scrittori, artisti consci del fatto che le ribellioni e le rivoluzioni comportano sempre un pericolo: non solo l’eterogenesi dei fini, ma banalmente la costruzione di leaderships orrende (i miei conoscenti fine anni Settanta in Italia si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che hanno sfiorato la criminalità politica e si sono adagiati su un proprio fallimento, e quelli che direttamente si impiegarono a Mediaset; schematizzzo, è ovvio: ma come si fa a fomentare una ribellione che in sé contenga i germi del meglio e non del peggio? This is the question). Discorso che vale per tutti i no Tav nostrani, e grillini, o chissà che.

Eppure lui, loro, gli elementi per starci attenti ce li hanno: appunto, la Rivoluzione Culturale, quando Mao diceva “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, e il risultato furono orrori e vite spezzate, in cambio di nuovi equilibri negli apparati dirigenti (tipo: un Berlusconi al posto di un Andreotti, un Bossi al posto di un Almirante o di un Toni Negri, magari un Di Pietro al posto di un D’Alema, e chissà cosa ci riserva l’oggi). Ou Ning, vorrei dirgli: perchè il rappresentante dei ribelli in Cina è stato Bo Xilai (oggi silurato), che dichiarava di rifarsi all’ortodossia maoista?

E di nuovo: chi gli faccio leggere? Chi gli faccio incontrare? Un manciata di nomi: Colin Ward, ma crederete mica che basti. E a Roma avrebbe potuto incontrare Pascale, Piccolo, quelli de Lo Straniero, forse. E sopratutto: io chi incontro? Chi si ribella sapendo nessuna Causa giustifica nessuna Schifezza, che le rivoluzioni non riguardano i fini, ma i mezzi? Ou Ning, questo potrebbe essere il vostro ruolo: prevedere e precedere la degenerazione dei movimenti, mettere in guardia fin d’ora.

Ma ora: pausa. Questo post poteva avere un altro incipit. Avrei scritto:

Ou Ning, a Pechino, una sera a cena mi racconta dei suoi anni ottanta. “Eravamo giovanissimi, e allora chi poteva viaggiare in Cina era fortunato. Se arrivava a Pechino qualcuno da Nanjing, passavamo le nottate a parlare di filosofia, di letteratura. Bevevamo. Alla fine ci conoscevamo tutti, poche centinaia di ragazzi usciti dalle università, ci sembrava che il futuro fosse a un passo. Il primo Deng Tsiao Ping aveva aperto il nostro paese: improvvisamente si discuteva senza paura.” Mi dice: si fumava tantissimo.

Quando provo a domandargli di Piazza Tian an Men, come al solito svicola. Fa finta di non sentire la domanda: l’ho capito, puoi essere ovunque, Pechino, Milano, o Singapore, puoi essere davanti a un pubblico con un microfono in mano o davanti a una salsiccia, io, lui, e la sua fidanzata, ma è sempre la stessa cosa: di quello non si parla. Criticare la Rivoluzione Culturale è possibile, e il potere, la corruzione, i singoli leader di partito, o la manutenzione ferroviaria e la distruzione dei generi alimentari. Ma silenzio sulle three T (Tian an Men, Tibet, Taiwan) one F (Falun Gong). E quando gli chiedo di Wukan, della rivolta di una cittadina intera, lui svicola: e, appunto, si finisce su Bo Xilai.

Insomma, ribelli con il limite: ribelli davvero.

Bello: questo sì un ponte tra l’Occidente e l’Oriente, loro e noi alle prese con una rivolta, e con la necessità di farle partire con il piede giusto, ciascuno con un passato che di riferimenti è pieno.

PS: Berardinelli sul domenicale del Sole24 la settimana scorsa, dentro a un articolo fortemente condivisibile, scriveva: in occidente oggi avremmo bisogno di un Lenin, o forse di un Ghandi. Hmm…: ma non dovremmo cercarci di meglio, noi e i cinesi?

PPS: con Ou Ning ci siamo dati appuntamento il più presto possibile, a Pechino. Sperando di trovarlo libero e non blindato…

E domani a Londra!

Foto: Alessandra Vinci

 

 

L’India dei conflitti

Venerdì scorso Internazionale ha tradotto e pubblicato un lungo articolo di Arundhati Roy da Outlook India, sull’India dei conflitti: da un lato le cinquanta famiglie più ricche del paese, dall’altro mezzo miliardo e passa di contadini poveri e abitanti degli slum, che dello sviluppo economico impetuoso beneficiano poco assai, divenendo invece le vittime delle frequenti espulsioni di massa, naturalmente senza indennizzi, da terreni che poi verranno sfruttati per l’estrazione mineraria o per la costruzione di impianti industriali: ed è vero, sì, che tutto ciò produce posti di lavoro e salari, ma sempre a lungo termine.

Insomma, non è certo che lo sviluppo vada a benificio dei ceti più poveri, di sicuro non in quest’India ostaggio delle oligarchie economiche. A parte l’utilizzo a piene mani del vocabolo “capitalismo” (che a me pare come se tutte le volte si ricordasse che gli umani respirano) la critica coglie nel segno.

E allora consiglio la lettura del suo ultimo libro (In marcia con i ribelli), uscito con Guanda: rispetto al nostro I miei luoghi di Annie Zaidi, i libri della Roy sono più sistematici, mentre Annie Zaidi resta magistralmente piu’ vicina all’oggetto del suo sguardo: dove la Roy spiega, la Zaidi splendidamente racconta, e ciascuno scelga a seconda delle sue preferenze, perché poi l’oggetto della ricerca è sempre lo stesso.

Una cosa mi piace segnalare dell’articolo di Arundhati Roy: anche lei sostiene che le polemiche sollevate attorno al Festival di Jaipur per il boicottaggio a Rushdie hanno avuto solo l’effetto di sottrarre l’attenzione del pubblico dai temi reali che al Festival si andavano trattando: l’India dei conflitti, appunto. E la polemica di Arundhati ha un bersaglio: molta della cultura indiana, e il Festival di Jaipur tra tutti, è vastamente sponsorizzata dai megagruppi indistriali indiani. A Jaipur perfino l’ufficio stampa del Festival aveva uno sponsor di tal fatta…

Insomma: agli amici che avevano criticato certi miei post da Jaipur, e molti tweet, nei quali io dicevo lo stesso (parliamo dell India, e non di Rushdie!) adesso posso dire: visto? Non sono il solo a pensarla cosi. Insomma: mi sento meglio.

A tutti dico: leggetevi Tehelka, che e sempre online: è cosi si che si capisce l’India.

Foto: Satish Krishnamurthy

Errare

L’editore errante incontra. E’ questo il bello del mestiere.

Oggi, in tour nel Sud Est asiatico, mi trovavo in una stanza spoglia, seduti in quattro attorno ai tavolini di ferro nel retro di una libreria indipendente di Kuala Lumpur: Silverfish Books, di Raman Krishnan, che oramai conosco da anni: ogni volta lo passo a trovare e lui ascolta paziente la mia storia, ma non abbiamo mai trovato il modo di collaborare. Raman ha costruito attorno alla sua libreria una piccola casa editrice che riesce a pubblicare ottima narrativa e saggistica in lingua inglese: mi dice che è il suo ‘progetto politico’ che è affermazione abbastanza inusuale da queste parti, anche se è forse solo una traduzione ambigua: politics, cosa davvero si intende? Ma è chiaro che per lui, di origine indiana, è il modo per coltivare una battaglia culturale contro l’imperare di un islam invadente anche se non oppressivo: e la lingua inglese lo situa in un ambito di autonomia intellettuale.

Oggi Raman faceva da chaperon a un incontro con due editor locali che mi presentavano il loro progetto: Linda Lingard e Dayaneetha Da Silva intendono lanciare una casa editrice che traduca dalle lingue locali del sud est asiatico: in inglese, ovviamente. Bel progetto, vuol dire dare aria a una narrativa che altrimenti resta confinata nel Sud Est. Ma quanto costa farlo? A chi la vendi? Linda e Dayan apparivano impreparate.

E quindi ecco apparecchiata una conversazione a largo raggio che spazia dalla narrativa bengali all’e-book, e queste persone mi erano estremamente simpatiche, Linda clumsy, cinese che va all’ingrasso, facilmente imbarazzabile, Raman come sempre un po’ in difesa dietro a frasi altisonanti (modello, struttura di costi) e a qualche affermazione messa giù solo per dimostrare una conoscenza enciclopedica dell’editoria asiatica, ma intelligente e appassionato, capace di scovare talenti che ora tenterà di imporre al mercato europeo, e vedremo.

E Dayan (più tardi mi ha accompagnato a prendere un taxi e mi ha detto: io sono stata invitata da Linda a questa riunione, sapevo grosso modo chi sei tu, ma non ho capito per niente il ruolo di Raman: io le ho risposto: se conosco bene Linda, ha sempre bisogno di farsi accompagnare da qualcuno che la rassicuri). Dayan, direi, è editor di origine indiana, qualche capello bianco come un aureola attorno al viso, anche lei bella larga di fianchi ma giovanile nello sguardo, vispa, acuta.

Ma che stavo a dire? Ah sì l’editore. In realtà quel che mi premeva qui ricordare è il primo incontro in assoluto, nel corso del mio errare (che humanum est, sì, ma l’etimo che mette insieme lo spostamento nello spazio e l’errore va indagato). Dalla lista di un gruppo di amici di Bombay, un nome e un numero di telefono: Meher Pestonji. A casa sua, la bella e cupa casa di Colaba, dentro a una stanzetta dove c’è il suo computer, e soprattutto il suo brandy. Lei versava, versava, parlava di ‘social work’ (io di microcredito) e di un paio di romanzi suoi (io dei ‘narrative non fiction’ miei). Di bicchiere in bicchiere io pensavo: bel mestiere, l’editore errante!

Al di là dei giochi e delle sbronze, nel corso del tempo che mi ha portato in quattro anni da una scrittrice a un gruppo di publishers, da Bombay a Kuala Lumpur, a me è restato in mano una sorta di album delle figurine. Quelli che incontro non solo sono artisti e operatori culturali di civiltà lontane nello spazio (anche se sempre più contigue a noi nelle forme). Sono purissimi esponenti di una middle class asiatica che sta oggi imponendosi al mondo: perché consuma, perché fa attività economica che cresce, perché distilla comportamenti e visioni del proprio mondo che a me piace confrontare con il mio. Un Altro, insomma. Ma un Altro non dissimile da me, di cui mi affascina questo ripartir da zero: cosa sono le metropoli asiatiche se non un mondo nostro, di ceto medio (piccola borghesia, si diceva una volta), consueto, eppure desueto perché loro alle spalle hanno poco, si vedono questo futuro nuovo di zecca davanti agli occhi e possono ancora ragionare su come strutturarlo, decidere cosa farci, lì dentro. Gli piace? Non gli piace? Cosa gli pare giusto e cosa sbagliato?

Due pensierini finali.

1. Mi pare si chiamasse Claudio Lolli il cantautore italiano che scrisse questi interessanti versetti: Vecchia piccola borghesia / per piccina che tu sia / non so dire se fai più rabbia / pena, schifo, o malinconia. Ecco: la piccola borghesia asiatica no, non fa né schifo né malinconia: anzi!

2. Dal Dizionario Italiano Ragionato G.D’Anna – Sintesi, Firenze 1988 (molto pre-twitter): errare v. intr. Nell’accez. orig. Andare senza una meta precisa. Vagare (…). Viaggiare senza una meta. / Dall’idea del vagare deriva il signif. di Sbagliare, Incorrere in errore. Allontanarsi dal vero (essendo l’idea dell’errore connessa a quella dello smarrimento della giusta strada).

Perseverare diabolicum.

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