Il contatto me lo aveva dato Peter Griffin, di Caferati, una fanzine (una volta si diceva così) on line. Lui, non ero riuscito a incontrarlo (abitava a Navi Mumbai, due ore e passa di treno, al di là dello stretto). Andavo a Delhi, e allora mi aveva dirottato su Annie.
Delhi non era facile da girare, allora. Non c’era ancora il metrò (costruito, alla faccia delle lentezze indiane, a tempo di record), la città è immensa perchè il Raj (l’impero britannico) decise di estendere la piccola Delhi verso sud, e Nuova Delhi (oggi nessuno la chiama così) fu costruita come una serie di lunghi vialoni alberati, interconnessi da gigantesche rotatorie e circondati di verde e di palazzi governativi, o residenze dei potenti, o ambasciate.
Attorno a questa zona di urbanesimo museale nascono poi le cosiddette enclave, e cioè quartieri circondati da un muro, ai quali si accede da cancellate a voste presidiate da guardiani: dentro, si ritrova spesso l’India dei vicoli, e meno spesso un’India di stradine silenziose e edifici bassi, tante piante. Ma taxi, neanche a parlarne, quattro anni fa. Nemmeno un numero per chiamarli, o almeno un numero affidabile. Quindi bisognava viaggiare in autorisciò, nei dieci gradi scarsi delle mattinate di gennaio, a macinare chilometri a decine, aria gelida sulla faccia e fumi di scarico opulenti.
Eccomi dunque a accettare la proposta del mio hotel: una loro macchina a pagamento, prezzi irrisori da India (ma sta cambiando), e, sorpresa, un macchinone grande come una nave e un autista in livrea con tanto di berretto: mai visto in vita mia. E quando penso al mio arrivo sotto la villeta a schiera dove viveva Annie ai tempi provo un senso di vergogna: per i discorsi che ci siamo poi fatti, per i racconti miei di viaggi a piedi dentro alle baraccopoli africane, che incrociavano i racconti suoi di inchieste sul campo, nei villaggi lontani. Parlammo molto di Kapuscinski. Zio Ryszard.
Perché mi presentavo ancora come scrittore, allora: bei tempi, mannaggia. Ero in India a occuparmi d’altro, ma cominciavo a incontrare scrittori più per curiosità che altro. Un’antologia, chissà. Manco sapevo come funzionava davvero, l’editoria. Anche se cominciavo a stupirmi di quanta roba buona leggevo, in inglese, roba di cui nessuno si interessava nel mondo (bei tempi, mannaggia).
Insomma, mi accoglie una giovane ragazza, bellissima e spaventata dal transatlantico con ammiraglio posteggiato sotto casa. Ricordo che, credo per vincere l’imbarazzo, mi offrì un breakfast all’indiana, un ottimo piatto di patate e paratha, pane al burro. C’era una donna, nell’appartamento, intenta a rigovernare, con la quale Annie aveva una relazione evidentemente di complicità. Il donnone mi guardava raggiante, esibendo un sorriso larghissimo che sembrava dire: è arrivato il principe azzurro. Il quale principe si vergognava proprio un bel po’.
E sì che Annie non viene certo dagli slum: una laurea, una madre che le telefona tre volte al giorno (non una parola sul padre, da parte di una scrittrice che della violenza sulle donne fa il perno della propria indagine sul mondo), la bella casa con balcone, una libreria dove trovo Vonnegut (non sarà la prima volta, a Delhi) e altre chicche, tracce esplicite della condivisione con altre due ragazze della sua età (ventisei, ventotto, trenta?), da giovani privilegiate.
Alta middle class, ma con la voglia di guardarsi attorno. Non so bene di cosa ci siamo detti quel giorno, io avrò raccontato i miei monfalconesi, lei i suoi tentativi nella redazione di una rivista per farsi mandare in giro, a fare inchiesta. Griffin me la aveva presentata come giovanissima poetessa, ma qui c’era ben altro: una donna adulta con dei desideri adulti (non sto sminuendo la poesia, sto esaltando la voglia di conoscere, la necessità: la brama, pensa un po’).
Poi sul transatlatico, in mezzo al traffico, a vergognarmi ancora. La portiamo in redazione. A pochi metri dal parcheggio, in coda al semaforo, Annie chiede all’autista di fermarsi, perché una bambina batte sul vetro. Ma non chiede niente. Parlano, in hindi. Annie sembra rassicurarla, le mette una mano sulla testa. Ripartiamo e le chiedo di spiegarmi: dice che conosce la bambina, la vede lì tutti i giorni, per quel che può la fa da chioccia. La bambina le ha detto: ho bisogno di parlarti. Annie ha risposto: arrivo tra dieci minuti.
Dieci minuti: il tempo di salutare questo europeo in transatlantico, e il suo autista in livrea e berretto a visiera rigida (che si è rifiutato di togliersi anche a fronte di una mia precisa richiesta: e, per dirla tutta: allora chi era, quell’uomo silenzioso? Cosa avrà pensato di me? E di Annie?).
Ci siamo rivisti qualche volta, a Bombay e al festival di Jaipur. Lei ha pubblicato Known Turf, con Tranquebar, io lo ho tradotto con I miei Luoghi. Il primo non-fiction di Metropoli d’Asia, forse il libro più bello che abbiamo pubblicato (parola mia: da scrittore).