Quando ho lasciato il mio villaggio, è stato come aver fatto un passo con il piede destro e aver impiegato quattro anni per farlo raggiungere dal sinistro. Durante quei quattro anni sono stata una specie di sedia di riserva abbandonata nell’angolo buio di un magazzino. Il mio primo lavoro a Pechino è stato come inserviente in un albergo chiamato Ostello del popolo. Non ero autorizzata a pulire le stanze, soltanto i corridoi e i cessi, ma se non altro potevo dividere una camera da letto con altre quattro inservienti. Sono rimasta lì per circa un anno, ma alla fine ho mollato. Poi ho lavorato in una fabbrica statale di giocattoli che produceva pistole di plastica e aeroplanini. Eravamo grosso modo cinquemila operaie, non sopportavo il rumore e la puzza del dormitorio e perciò ho lasciato anche quel lavoro. Da allora, ho praticamente vagato da un lavoro all’altro. Ho trascorso qualche mese in una fabbrica di lattine monitorando le macchine di assemblaggio, quando a un certo punto sono approdata in un vecchio cinema fatiscente chia-mato I Giovani Pionieri. A dispetto del nome, non proiettava pellicole in stile giovani pionieri ma soltanto film hongkonghesi di arti marziali. Monaci che se le danno e cose del gene-re. Dopo ogni proiezione dovevo spazzare scorze di canna da zucchero, ali di pollo smangiucchiate, gusci di arachidi, bucce di melone e altra merda che la gente si lasciava dietro – a volte perfino rane fritte.
Quel lavoro però non mi dispiaceva. Dormivo su un di-vano sgangherato nella sala proiezioni e guardavo film tutto il giorno. Inoltre, potevo tenermi le cose dimenticate dagli spettatori sotto i sedili. Una volta ho trovato un dizionario di inglese. È stata una scoperta elettrizzante. C’era quel famoso liceale di Shanghai che era stato ammesso a Harvard dopo aver imparato a memoria l’intero dizionario di inglese. Non riuscivo a farmi venire in mente il nome, ma era diventato il nostro eroe nazionale. Immaginavo che avrei potuto fare come lui – che quel dizionario dimenticato sarebbe potuto diventare un passaporto per il mondo anche per me. Ad ogni modo, ho incominciato a studiare le parole. Non era difficilissimo, ma dopo un po’ mi sono stufata e ho smesso. Comunque, riuscivo a dire qualche parola agli stranieri che venivano al cinema. E pensavo che vivere in un cinema fosse una figata. Spendevo tutti i miei risparmi per comprare riviste di film e andavo in altri cinema per vedere le ultime novità.
Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo
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Da dollari la mia passione, di Zhu Wen
«Visto che non abbiamo ancora deciso, perché cammini così in fretta?»
«Perché anche andare a zonzo così è un piacere. Ma adesso dimmi, dove si va?».
Non lo so nemmeno io dove convenga andare. Trascino mio padre a un chiosco di bibite e compro due lattine di Coca in due bicchieri di carta. Illuminata dal sole, la sua faccia è il ritratto della salute, sembra sprizzare radiosità da tutti i pori. È un po’ sudato, i capelli appiccicaticci hanno perso la fluente eleganza di prima. E se adesso cominciasse a scendergli un rivoletto nero sulla fronte? Oddio, fa’ che non succeda, per favore! La mamma ti ha detto di comprarle qualcosa?, gli chiedo. No, non sa neppure che sono venuto qui, risponde lui. Allora sei libero come me? Certo, siamo un uomo in compagnia di un altro uomo, che cosa facciamo? Ovvio che dovremmo fare cose da uomini. Ma è pomeriggio, il sole è ancora alto nel cielo. E che importa? Con due soldi in tasca la notte può anche arrivare in anticipo. Ci accovacciamo sul gradino del marciapiede con i nostri due bicchieri di Coca in mano. Continuiamo ad alzare la testa e a guardarci senza parlare, in un tacito dialogo ininterrotto. Dovrei sapere di che cosa ha bisogno mio padre, questo ci si aspetta da un figlio che sia un figlio. Se in futuro mi trovassi anch’io ad avere un momento di libertà e infischiandomene del ruolo conferitomi dall’età facessi una capatina da mio figlio, preferirei che avesse una qualche idea su come procurare attimi di piacere al suo provato padre, non che se ne stesse lì a mostrarmi rispetto formale come un idiota. Dammi retta, figliolo, il rispetto è una cosa troppo astratta. Invece dobbiamo imitare il romanticismo del dollaro americano, la forza dello yen giapponese, l’equilibrato ottimismo del franco svizzero: sono questi i valori veri, concreti, che dovremmo imparare.
Da Dollari la mia passione, di Zhu Wen
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Da E adesso?, di A Yi
Quando si accorgerà che ho svuotato la cassaforte, la zia caccerà un urlo e andrà su tutte le furie; se si dispera, tanto meglio. Se lo merita. Io e i miei non dobbiamo niente allo zio, sono venuto a stare nel capoluogo della provincia grazie a uno scambio di favori, tra i più importanti nella storia del-la famiglia. Quando era ragazzo, mio padre, nonostante fosse più bravo a scuola, aveva lasciato che fosse suo fratello a studiare e lo aveva mantenuto all’università lavorando in miniera, dove poi si era beccato un cancro ai polmoni. Eppure la zia, che prima era una mediocrissima bigliettaia di autobus, è con-vinta che siamo in debito con lei, soltanto perché è nata in città. Quando mi aveva accompagnato a casa loro, mia madre aveva portato in regalo alcuni prodotti locali, che la zia aveva rifiutato con spocchia: «Tienili tu, tienili tu, che non ve la passate bene». «Mia mamma ha molti più soldi di te!» avrei voluto gridare. A quell’epoca avrei preferito suicidarmi, tanto ero a disagio, e me ne stavo tutto il giorno rannicchiato nella veranda. Se facevo la doccia, lei spegneva il gas, e le rare volte che guardavo la tivù, lei camminava avanti e indietro sui suoi tacchi alti. Non mi proibiva di sedermi sul divano, però spolverava appena mi alzavo e, alla minima impronta sul pavimento, passava il mocio, con il gusto con cui un vecchio contadino raccoglie sterco di vacca per concimare.
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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen
Rincasando, Xiao Ding trova Xiao Chu in salotto davanti alla libreria di bambú, intenta a darsi una truccatina veloce: sul ripiano più alto è appoggiato uno specchietto grande quanto il palmo di una mano. Coprendosi con la sinistra il viso gonfio e bluastro, Xiao Ding fila dritto in bagno, con uno sforzo immane si china sul rubinetto del lavandino e si sciacqua via dalla faccia e dalle mani le tracce di sangue. Com’è che oggi non sei al lavoro?, chiede dal bagno in tono decisamente aggressivo. Xiao Chu si giustifica: Adesso ci vado, al lavoro, ma che dici? Stasera c’è un cliente che ci invita a cena al «Città di Chaozhou», non lontano da qui, così già che c’ero sono passata a dare un’occhiata. Hanno vissuto insieme in quella casa per un anno, ma per evitare litigi Xiao Chu è tornata a trasferirsi nel dormitorio aziendale e ora si fa vedere solo il fine settimana o il mercoledì. Come volevasi dimostrare, il loro rapporto – che aveva imboccato ben presto una fase discendente – ne è uscito notevolmente rafforzato. Cena?, protesta lui, ma è ancora presto per cenare. Ma se ti ho detto che sto peruscire! ribatte Xiao Chu spazientita senza smettere di pettinarsi. Ho dimenticato delle cose e devo prima fare un salto in ufficio. Ma che razza di cliente è questo qui che ti invita a cena, eh, che razza di cliente è? A quanto pare i clienti sono tizi che non fanno altro che invitare a cena la gente.
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Da Le tre porte, di Han Han
Lin Yuxiang era uno di quelli cui rodeva il fegato. Al suo primo tentativo di ammissione al circolo, fu scartato perché lì per lì non era riuscito a ricordarsi il nome dell’autore di Padri e fi gli. Al secondo giro, presentò due elaborati, ma commise il passo falso di affrontare il tema della fuga dei cervelli dimenticandosi di cantare le lodi del governo, e fu segato di nuovo. La terza volta aveva imparato la lezione e si profuse in elogi del sistema, arrivando a sfi orare la possibilità di essere selezionato, ma incappò inaspettatamente in un tizio che, al momento cruciale, ebbe la meglio su di lui, che non era ancora suffi cientemente allenato a esprimersi in materia con passione e originalità. Ritrovatosi nuovamente fuori della rosa, abbandonò qualsiasi ambizione letteraria. Ma ora che era riuscito a entrare nel circolo letterario, la felicità era tale che gli fece scordare ogni traversia.
Da Le tre porte, di Han Han
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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han
Alla fine l’atmosfera si stempera. Tra lo scompiglio di quelli che, a quanto pare, stanno raccogliendo delle prove, sento un urlo: è il cameraman. Guarda tutti con imbarazzo, poi si scusa: nelle riprese girate poco prima ha dimenticato di aprire l’obbiettivo della telecamera, quindi ha registrato solo il sonoro. «Secondo voi andrà bene lo stesso?»
Uno del gruppo gli si avvicina contrariato, scambia qualche parola con lui sottovoce e poi si rivolge a me, dicendomi che hanno avuto un contrattempo con la raccolta delle prove e quindi rientreranno da capo; io devo rimanere fermo nella posizione in cui mi trovo. «E quello che avevi in mano? La roba che avevi in mano poco fa? Ecco qui, tieni le mutande e resta immobile così».
«Con lei come fate, che è già ammanettata?», chiedo indicando Shanshan.
Lui rimugina, poi suggerisce: «Lasciamola così, non mi fido, non si sa mai che scappi e via dicendo, le donne non sono buone a niente. Rimane com’è, ammanettata alla lampada».
Io replico, esasperato: «Non vorrete farmi passare per sadomasochista, l’avete incatenata voi, non io!»
Lui mi da un calcio: «Parli troppo».
Finalmente sgomberano la stanza ma la serratura non tiene e la porta resta aperta, il cameraman tira fuori un fazzoletto e lo sistema nell’interstizio per bloccarla. Alla fine si chiude.
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Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
Quando Liu Yuejin andava con la madre a trovare la nonna materna, lo zio, che ci vedeva ancora, lo ignorava e gli metteva anche un po’ paura. Era un semplice cuoco di prigione, ma si dava un sacco di arie. Non per il mestiere in sé, ma per il luogo in cui lo esercitava. Nelle trattorie intorno al mercato i cuochi dovevano sempre preoccuparsi di cucinare bene, in prigione invece lui cucinava e basta. Anche volendo non c’era modo di fare meglio: sempre verdure in salamoia, pappa di riso e panini di farina di granturco cotti al vapore, tre volte al giorno per trecentosessantacinque giorni l’anno. Al ristorante, se il cibo è scadente, te la prendi con il cuoco; in galera i carcerati non fiatavano, anzi, quando lo incontravano abbassavano la voce in segno di rispetto. Gli altri cuochi disprezzavano Niu Decao, e lui li ricambiava con la stessa moneta: «E che cazzo, dappertutto chi cucina è al servizio di chi mangia, avete mai visto il contrario?».
Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
Il padre di Jian è il segretario amministrativo dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo di Pechino. Il giorno della conferenza annuale, decide di portare il figlio in ufficio con sé. Mentre suona la campana della Dongcheng Tower dietro l’ufficio di suo padre, cominciano ad arrivare nella sala conferenze centinaia di delegati con i loro lucidi completi scuri e le loro lucide facce accaldate. Il padre di Jian gli ordina di stare tranquillo e di restare in cucina, dove i cuochi preparano tè e cibo. È una giornata torrida, e i calzoncini di cotone gli si incollano dietro le cosce. Fa i compiti e aspetta. E aspetta. Due ore dopo, però, Jian si annoia a morte. Riesce a passare sotto il naso del guardiano che doveva tenerlo d’occhio e scappa dal cancello dell’Assemblea. Vagando tra i vicoli sonnacchiosi, il ragazzino di dieci anni prova la libertà e lo smarrimento di un cane randagio. Vede una banda di ragazzi più grandi in sella alle bici e vuole unirsi a loro, che lo accettano. È il solito gioco di guerra che i ragazzi fanno spessissimo nelle strade di Pechino: soldati cinesi contro soldati americani nella guerra di Corea. Jian si unisce al gioco un po’ tardi, perciò gli viene assegnato il ruolo di un contadino coreano che sta ai margini. Lui però si rifiuta. Si annoia, ha caldo e vuole schierarsi nel conflitto. Chiede di unirsi al gruppo dei soldati cinesi. Tuttavia, per essere assegnato a una unità, deve ricevere una funzione e, cosa più importante, recitare il “Giuramento del soldato”. Jian è negato per queste cose, ma è impaziente di provarci. Alzando il pugno destro chiuso, parla forte come un vero soldato: «Sono un membro dell’Esercito di Liberazione Popolare. Giuro che seguirò le direttive del Partito comunista cinese, servirò il popolo con tutto il cuore, obbedirò agli ordini, lotterò eroicamente; in nessuna circostanza io…». A questo punto Jian non riesce a ricordare i versi successivi, quelli cruciali sul tradimento della propria madrepatria. Lo prendono in giro. Macchiato dall’umiliazione, deve fare la parte di un soldato americano e i ragazzini gli si rivoltano contro: diventa il bersaglio di tutti. Il gioco della guerra si fa violento, e Jian le prende di brutto, busca dei pugni in faccia che lo fanno sanguinare. Qualcuno lo colpisce al volto con un ramo – riesce a evitare la punta acuminata ma si fa un taglio profondo che gli lascerà una cicatrice sotto l’occhio, come uno spicchio di luna.
Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo
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E adesso? su Valdichiana Oggi
E adesso?, di A Yi, ha ricevuto una recensione dal sito Valdichiana Oggi, all’interno della rubrica L’Angolo del Bibliotecario. Prima di parlare del libro, il curatore della rubrica Andrea Vignini ha speso parole di elogio per il lavoro della nostra casa editrice.
Tra i molti titoli interessanti presenti nel catalogo di Metropoli d’Asia ho scelto un libro cinico, tagliente e in qualche misura anche provocatorio che ha il merito, secondo il mio modesto parere, di mostrare in filigrana le tante contraddizioni della Cina contemporanea, dilaniata dal contrasto tra l’antica tradizione e l’incipiente modernità, tra la miseria delle masse e la ricchezza smodata dei potenti, tra comunismo di facciata e capitalismo invadente.
(continua a leggere su Valdichiana Oggi)
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Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo
Sicché ero la seimilasettecentottantasettesima persona in cerca di un lavoro nell’industria cinematografica e televisiva di Pechino. Tra me e un copione c’erano seimilasettecentottantasei altri candidati – giovani e belli, vecchi e brutti. Sentivo la concorrenza, ovvio, ma in confronto al miliardo e passa della popolazione cinese, seimila e rotti non mi sembrava poi un numero così scoraggiante. Equivaleva agli abitanti del villaggio che avevo lasciato. E avvertivo l’urgenza di conquistare quel nuovo mondo.
Sempre senza guardarmi, l’eroe del popolo armato di scacciamosche si è messo a osservare la mia fototessera sulla scheda macchiata. «Mica male, ragazzina. In confronto al resto della faccia, la tua fronte ha qualcosa di speciale: è spaziosa quasi come Piazza Tienanmen. Anche le mascelle sono ok, comunque. Ti porteranno fortuna, credimi. Succede così, con le mascelle squadrate… Bene bene. Anche i lobi delle tue orecchie – belli grassi come quelli di Budda. Più sono grassi e più portano fortuna, lo sapevi? Mmm… Non sei da buttar via. Non puoi immaginare la montagna di cessi che viene qui ogni giorno. Non capisco: ma non si guardano allo specchio, prima?».
L’ho ascoltato con pazienza e alla fine l’ho ringraziato. Lasciandomi dietro le comparse N. 6788, 6789 e 6790, sono uscita. Il sole pomeridiano era talmente forte da friggermi i capelli. L’asfalto sprigionava afa estiva e inquinamento. E io ero intrappolata nel bel mezzo di questa lotta di calore, tanto che sono quasi svenuta nella strada rumorosa. Forse sono svenuta per davvero, non ricordo, e comunque è irrilevante. L’importante è che mi avevano dato un numero. A partire da quel giorno non avrei più vissuto come una patata dolce dimenticata dentro la terra scura. Mai più.
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