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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su in diretta dall’asia

Chisura di festival a Singapore

L’ultimo weekend del Singapore Writers Festival ha visto finalmente la presenza di qualche ospite di prestigio dall’Asia.

Il paradosso è stato però la discussione con Murong Xuecun e Xi Er sulle problematiche della traduzione dal cinese nelle lingua occidentali. Molti ne hanno parlato, a margine del festival, delusi dal fatto che la sessione fosse in cinese senza… traduzione.

In questo paese dalle molte lingue l’argomento potrebbe generare utile dibattito, anche perché qui si sta cominciando a fare esperienza di un ritorno al cinese, dopo decenni in cui l’inglese si è imposto come lingua franca e del sistema scolastico.

I ragazzi, abituati fino a pochissimi anni fa a parlare cinese tra di loro e in famiglia ma a leggere in inglese, ora trovano una produzione letteraria (e cinematografica) in cinese. Questo porta alla ribalta anche una narrativa singaporeana in cinese che in passato restava nell’ombra. Insomma, tra Chinese e English speakers, bisognerà che cominciamo a parlarci davvero. Qui e nel mondo intero.

Tra gli autori presentati, Bi Feyu si è trovato di fronte a un uditorio sorprendentemente striminzito. Bi Feyu è autore di due romanzi che in inglese sono stati tradotti con Moon Opera e Three Sisters. È un esponente di quella schiera di scrittori cinesi più famosi all’estero che in patria, perché capaci di andare a incontrare il gusto dei lettori occidentali narrando di cambiamenti a cavallo delle varie epoche storiche (la conquista del potere da parte dei comunisti, la Grande rivoluzione culturale, gli Anni ’80 delle speranze di cambiamento frustrate dalla repressione di Piazza Tien an Men, il boom economico recente delle metropoli).

Abbiamo già citato un’intervista di Jo Lusby, prestigiosa editor di Penguin a Pechino, che elencava questi elementi del gusto occidentale che a suo parere gli scrittori cinesi possono andare a incontrare con successo. Ma a Singapore casca l’asino: Bi Feyu interessa meno un popolo di lettori di origine cinese che non è disposto a mediazioni di quel tipo.

Sempre in tema di relazioni tra lingua inglese e lingue locali asiatiche, ecco l’annuncio della long list del Man Asian Literary Prize di Hong Kong. Il premio era nato in origine per favorire l’accesso al mercato globale di opere scritte in cinese, indonesiano, coreano, malese o hindi e tamil (infatti concorrevano opera non ancora pubblicate in inglese, ma per le quali fosse disponibile una traduzione in inglese che veniva commissionata appositamente dalle case editrici o dagli autori stessi).

Ora partecipano opere già pubblicate, con il risultato sì di innalzare il livello dei romanzi che concorrono, ma al contrario l’effetto di prensentare romanzi che già sono stati pubblicati o lo saranno a breve in italiano. Murakami, Gosh, Shin Kiung-sook e tanti altri. Insomma meno interessante per chi fa scouting, e forse anche fuori tempo massimo per qualche edizione europea.

Il Singapore Writers Festival diventa a partire da questa edizione annuale: vedremo che direzione saprà prendere nel 2012. Io spero che riesca a guadagnarsi, magari anche per la posizione geografica, un ruolo di crocevia asiatico. Certo però, con traduzione simultanea dell’inglese in cinese e del cinese in inglese.

Malesia Rock?

Brian Gomez vuole scrivere il sequel di Malesia Blues. Ma non trova il tempo.

Videomaker per la pubblicità, ha impegni continui e senza orari, spesso (crisi per tutti) non pagati o dilazionati allo sfinimento (cioè: mi dovevano tre e mi accontento di uno, dice lui). È stufo.

Tra l’altro ci sono buone prospettive per la realizzazione di un film da Malesia Blues (Devil’s Place in inglese): una importante casa di produzione (niente nomi per ora) gli ha comprato un trattamento, un regista è stato scelto. Naturalmente sarà in malay, per un pubblico locale. Ma l’industria cinematografica malese è una delle più importanti del continente, i suoi film girano il mondo, chissà.

La sua voglia di scrivere è genuina, urgente. Mi racconta la trama non solo del suo secondo romanzo, ma anche del terzo. Certi personaggi ritornano, altre figure secondarie divengono protagonisti di una narrazione che non disveliamo qui, lasciamola correre in libertà dentro alla testa di Brian e alle sue dita sui tasti del computer.

Ma come trovare il tempo per lavorare ogni giorno, quattro o cinque ore? Capisco che non sia solo questione di tempo, ma di tempi: Brian, che virava sul grassottello come tutti gli indiani alla sua età, è dimagrito per la frustrazione di un lavoro che lo costringe a lunghe trattative, a orari che non può controllare, a continui scambi di informazione via cellulare.

Me ne ha mostrato la cronologie e dice: come faccio a scrivere se mi chiamano ogni venti minuti, e molte volte è per dirmi che di un dato lavoro non se ne fa nulla, o che non possono pagarmi prima di sei mesi?

Quindi ci vuole un lavoro a orari fissi, possibilmente la sera. Brian Gomez, che come il Terry Fernandez di Malesia Blues ha passato un molti dei suoi anni giovanili a suonare blues nei locali, ha il suo progetto.

Cinque sere la settimana, una band già avviata, richieste da tutte le parti e un chitarrista disposto a tenere i contatti con i proprietari dei locali. Si chiamano Have-Nots, eccoli qua.

Li ho sentiti un sabato sera al ChillOut, un grosso bar all’aperto sulla terrazza di uno shopping mall, Subang Parade, che fa da centro di gravità per Petaling Jaya, un sobborgo residenziale da classe media a un bel venti chilometri dal centro di Kuala Lumpur.

Bassista cinese, seconda voce e chitarra solista malay, batterista bianco. Brian Gomez è di origine indiana. Suonano evergreen del pop anni settanta per scaldare il pubblico, e poi un sacco di roba sua, composta da lui, riarrangiata e vissuta da lui, a metà strada tra il rock e le sonorità del pop malay. Mooolto interessante!

Cronache (tardive) dal Singapore Writers Festival

Due weekend, e in mezzo un mercoledì festivo (Diwali, il festival indiano delle luci, perché qui un bel pezzo della popolazione è Tamil).

Il primo weekend del Singapore Writers Festival è dedicato agli ospiti anglosassoni: Australia e UK soprattutto, paesi che sono ancora riferimenti culturali imprescindibili per una popolazione all’80% di origine cinese (ma che usa l’inglese come lingua ufficiale e del sistema scolastico).

Noto una certa condiscendenza nel corso degli incontri, certo qualcuno (per esempio Andrew Motion, poeta) è anche baronetto, ma è chiaro che sia per i poeti locali che per il pubblico a uno scrittore inglese ci si rivolge in un modo, a uno asiatico in un altro.

Mica male il panel “Cosa significa appartenere”, con tre donne. Alice Pung, concepita nella Cambogia di Pol Pot da genitori cambogiani ma fortunatamente nata in Australia.

Poi la spettacolare (perdonate l’esagerazione) poetessa Grace Chia Krakovic, singaporeana moglie di un diplomatico che ha condotto la propria vita cambiando casa ogni tre anni (intendiamoci: Brasile, Finlandia, Filippine, Perù…) portandosi dietro tre figli tre e conquistandosi uno spaesamento che si trasforma in parola, una di quelle persone che non si finirebbe mai di ascoltare, una specie di aliena che sicuramente prefigura un futuro che ci riguarda.

E Oka Rusmini, Indonesiana che come tutti gli indonesiani non parla inglese. Rusmini è una delle autrici/autori tradotti in inglese dalla Lontar Foundation. Ne abbiamo già parlato sul blog. Bella iniziativa, almeno l’editoria internazionale si può leggere un po’ di narrativa indonesiana. Una pecca: mancano autori più giovani, narrativa degli ultimi dieci anni.

Mercoledì, bella festa per i dieci anni della Quarterly Literary Review of Singapore, magazine online che abbiamo da tempo tra i nostri siti consigliati. Presenti i maggiori poeti e critici letterari di Singapore, musica, vino, chiacchiere.

Sabato e Domenica 29-30, una pattuglia di asiatici, finalmente: Bi Feyu, Vikas Swarup (che dopo Q & A –  Slumdog Millionaire è come il prezzemolo, lo trovi dovunque), Kunal Basu e Jose Dalisay dalle Filippine. Vi racconteremo.

Non possiamo invece raccontarvi di una discussione sicuramente interessantissima tra Murong Xuecun, Xi Er e lo stesso Bi Feyu, sul tema della difficoltà di tradurre narrativa dal cinese: la discussione è in cinese. Così come sono in malay tutti i panel con scrittori di lingua malay. Non pare una furbata.
Singapore multilingual…

Toh Hsien Min

Da un anno cerco di scrivere un post su Toh Hsien Min, uno dei maggiori poeti di Singapore, probabilmente il più interessante nella generazione entro i cinquantanni.

Intendevo cominciare con una panoramica sui grattacieli che circondano il bacino di Marina Bay, quello dove si è costruito negli ultimi dieci quindici anni – con una accelerazione recente che ne sta facendo un’icona turistica per l’Asia intera.

La panoramica dovrebbe terminare sui parallelepipedi blu – o trasparenti, o meglio ancora translucenti di luci da scrivania, scrivanie che ospitano gli operatori finanziari di una tra le piazze appunto finanziarie più importanti dell’Asia, e svelare che su una di quelle importanti scrivanie siede il mio importante poeta.

Dedito, mi spiega lui, a “costruire modelli di aggiustamento dei default”. Gli ho chiesto: sarai mica uno di quelli che han combinato il megacrac? Dice no, semmai i miei modelli servirebbero a rientrare. Ma io sono solo un matematico, di soldi non ne so nulla. Dunque finanziario, matematico, poeta, di cognome fa Toh e Hsien Min di nome.

Mi piace spendere del tempo con lui, ma la difficoltà a raccontarlo deriva dalla difficoltà nel parlargli. Uno slang stretto in quello che loro definiscono Singlish, bofonchiato da un piccoletto incline al gioco di parole, e che le parole, come si dice, se le mangia, e mi rende quasi impossibile mantenere l’attenzione accesa per più di un’ora o due.

Insomma: si resta ai preliminari. Che sono una cena autenticamente local (questa piazza finanziaria è anche turistica e gourmet, ma lui mi porta in un quartiere popolare, dove sotto una grande tettoia stanno le baracchette degli hawkers, come dicono qui, sportelli dietro ai quali si confezionano pietanze insuperabili: altro che chef internazionali!) Insomma io mangio, lui si mangia le parole. Non la Parola, che è il suo vero mestiere e la sua passione: ma questa me la regala solo in forma scritta, sorry.

Il lavoro piu importante di Hsien Min è Means to an End, una raccolta di poesie che l’anno scorso era tra i tre finalisti del Singapore Literature Prize, assieme a una raccolta di racconti e a un romanzo (e a quello, City of Small blessings di Simon Tay, è andato il premio). Alcune sue poesie sono uscite anche in una curiosa antologia si Ethos Books: singaporeani tradotti in italiano e un italiano, Tiziano Fratus da Torino, tradotto in inglese. L’antologia si chiama Double Skin, forse in qualche libreria di Torino…

Peccato, noi non ce la facciamo a fare poesia. Ma forse, con l’imporsi dell’e-book…

Mannaggia, riuscissi a parlarci con più facilità. Qui mi confermano: sì lui spesso si esprime in modo criptico, poco comprensibile. È quasi un gergo underground. Mi domando che gergo usi nel suo ufficio di luci e vetri (però di giorno appare di un blu intenso).

Isa Kamari

Isa Kamari è uno scrittore di lingua malese. E dovrei aggiungere: di razza malese, di cultura malese, e musulmano come tutti i malesi. Dei suoi otto romanzi, tre sono stati tradotti in inglese.

Due di questi, curiosamente, hanno lo stesso soggetto: l’adozione da parte di una famiglia malese e musulmana di una bambina olandese (il titolo del romanzo è Nadra) in un caso, e cinese (One Earth) nell’altro.

Kamari vuole raccontare le persecuzioni sofferte dal suo gruppo etnico, in diversi momenti storici, durante la dominazione coloniale olandese e britannica, durante l’occupazione giapponese, ma anche, a Singapore, con l’indipendenza.

Come molti autori musulmani dell’area (in Malesia avevo incontrato e poi letto in traduzione Samad Said e Faisal Teherani) l’intenzione è talmente soverchiante da rendere la lettura difficile a un laico. Non c’è niente da fare: la religione rivelata impedisce allo scrittore di dispiegare pienamente le sue capacità, che pure sono notevoli. Solo in One Earth questo nucleo indiscutibile riesce a restare sullo sfondo.

I romanzi di Kamari sono sempre a tesi, e quindi imprigionati entro uno spazio ristretto, le storie non prendono il volo. Come per i due autori malesi che ho citato, l’autore non sa mai prendere distanza dall’oggetto del suo racconto, non è in grado di cogliere i chiaroscuri.

Ho incontrato Isa Kamari di fronte a una tazza di caffè. Mi ha descritto il suo ultimo romanzo, Embracing the Eclipse, fortemente autobiografico, centrato sulla propria giovanile adesione (erano gli anni settanta) a un islam militante – se pur ancora non integralista e fondamentalista – che però gli appariva come l’unica strada percorribile per cercare un riscatto dall’oppressione subita dalla sua razza.

È un romanzo autocritico, così come Kamari è critico con ogni forma di integralismo contemporaneo (si dice convinto che dopo due decenni i movimenti fondamentalisti abbiamo i giorni contati, e ne è contento). «Vorrei far capire quanto ingenua ma onesta fosse la mia carica di ribellione, e come sia stato un errore cadere preda degli assolutismi».

Purtroppo, e lo dico con rammarico, la sua scrittura non riesce a discostarsi da un registro apologetico, da un afflato religioso mai messo in discussione.

Mi regala una perla: non riesce a capire l’ossessione del cattolicesimo nei confronti del piacere sessuale, che l’Islam invece esalta come cemento nelle relazioni, anche familiari, tra l’uomo e la donna. E la negazione del diritto al divorzio, che l’Islam invece accetta come normale, prevedendo, a suo dire, modi e regole per proteggere le donne.

Ho fantasticato su un romanzo che tratti l’argomento: che so, una donna musulmana che sposa un cattolico e non capisce le sue reticenze. Lui rideva.

Le librerie di Singapore

A una anno di distanza, una verifica dei cambiamenti in atto a Singapore. Ha chiuso Borders, qui come altrove. Ma nessuno ha cercato di rimpiazzarla, non sembra essere nato un nuovo spazio di quel livello.

La libreria più grande resta Kinokuniya, catena giapponese presente in tutto il Sud-est asiatico. Ci sono due entrate: quella, diciamo così, casuale, dalle scale mobili che risalgono piano dopo piano il centro commerciale, e quella principale, accessibile direttamente dalla strada.

Quella casuale è posizionata sui reparti dell’illustrato e del cosiddetto self-help: tomi di vario tipo che insegnano a sopravvivere nella modernità raggiunta di recente.

L’entrata dalla strada è invece sulla fiction (qui definita come Literature). Sui primi banchi e nello scaffale bestsellers spiccano romanzi americani, britannici, australiani, insieme all’ultimo di Aravind Adiga, indiano nato in australia.

Però subito a seguire c’è una scaffalatura nuova di zecca: letteratura cinese, giapponese, asiatica, indiana e “local“. Segnale di attenzione da parte dei lettori per il proprio continente in ascesa.

Naturalmente stiamo parlando dei volumi in lingua inglese, perchè in un paese dove l’inglese è la lingua del sistema scolastico, la più grande libreria conserva ancora quasi la metà dello spazio ai libri in cinese. Che, mi dicono, sono per la maggior parte di editori cinesi, ma con una buona presenza dei taiwanesi. In ogni caso la literature cinese o inglese che sia, occupa non più di un quinto dello spazio totale.

Foto: penguincakes

Esangui esistenze a Singapore

È un piccolo paese, Singapore: quattro milioni di abitanti su un’isola di 40 chilometri per 30. Praticamente un centro città degli affari, un’ampia fascia residenziale, una piccola e forse residua zona industriale, e una periferia dove vivono i lavoratori immigrati. Molto turismo, sopratutto asiatico: parchi giochi e casinò.

Il mio amico Fong Hoe Fang, di Ethos Books, mi dice: è difficile che emerga della buona narrativa da un paese di centri commerciali e pendolari. In effetti la scena dei romanzi locali è spesso asfittica.

Come in Heartland, di Daren Shiau, che lui ha pubblicato qualche anno fa, dove un gruppo di ragazzi alle soglie della laurea confrontano le loro esistenze. Razze diverse, culture e religioni lontane tra di loro (qui ci sono cinesi, bianchi di origine inglese, Malay e un po’ di immigrati anche recenti dall’India), in fondo ciò che è più interessante è proprio la capacità di convivere senza conflitti da parte dei personaggi del romanzo, a causa di un appiattimento che pare senza scampo, dove il passaggio dalla scuola al lavoro sembra non avere soluzione di continuità, così come quello dalla giovinezza all’età adulta.

In questa sorta di Svizzera asiatica gli artisti e gli scrittori più acuti restano concentrati su un minimalismo del quotidiano (un buon esempio è il poeta Cyril Wong), e la loro via di fuga sembra essere il viaggio verso l’Occidente, e recentemente anche verso la Cina.

I romanzi che sanno alzare lo sguardo sono quelli di autori più in là con gli anni, che parteciparono ai movimenti pro democrazia negli anni ottanta, come Su-Chen Christine Lim, il cui Rice Bowl bene racconta quegli anni.

Foto: AndyLeo@Photography

Il punto sull’Ubud Festival

L’Ubud Writers & Readers Festival ha aperto ieri, in tono minore rispetto alle ultime due edizioni che lo avevano visto crescere per la qualità degli ospiti e delle discussioni suscitate.

Un programma ristretto a soli quattro giorni, una nutrita pattuglia di autori indonesiani con molte assenze di rilievo, la consueta sfilata di nomi dall’Australia (le cui Università continuano a imporre il proprio ruolo di chioccia al mondo editoriale del sudest asiatico), una spruzzata di americani e britannici (direi Junot Diaz su tutti).

Kunal Basu dall’India, Tariq Ali dal Pakistan. Lo sponsor principale, City Bank, è venuto a mancare a pochi mesi dal festival e il programma ne risente. Peccato, perchè l’occasione, e il luogo, meritano di più: una cittadina in mezzo alla foresta e alle risaie dell’isola di Bali i cui alberghi, sulla soglia della stagione delle piogge, aprono gratuitamente le loro stanze agli ospiti.

Per questo nelle ultime edizioni Ubud era riuscito a imporsi come crocevia delle scritture asiatiche, una sorta di seconda Jaipur (che invece si tiene in febbraio).

Ricordo l’anno scorso l’esultanza di molti autori nel trovarsi in questo luogo magico: di fatto una strada che percorre una cresta tra due valloni verdeggianti, gli hotel e le guest houses aggrappati sui due versanti.

Qui sono alcune gallerie d’arte tra le più importanti dell’Indonesia: l’arte contemporanea non risente della crisi, fiumi di denaro continuano a essere riversati su pittori, scultori e performers e gli scrittori cominciano a domandarsi se abbiano scelto il mestiere giusto. Insomma: cosa fare per rendere trendy la narrativa asiatica?

Dissidenze

Sui nostri media si parla sempre più spesso della Cina (era ora!). Come sempre, ci si concentra su argomenti più facilmente spendibili: i dissidenti, ad esempio, e quindi Ai Weiwei, l’artista recentemente incarcerato. Il suo arresto ha in realtà colto abbastanza di sopresa la comunità artistica e intellettuale cinese, che negli ultimi anni si è data una regola non scritta: criticare la società, e singoli funzionari, o aspetti del potere, ma non esprimere mai una opposizione esplicita alla mancanza di democrazia (il Partito Unico), o a temi “sensibili” quali il Tibet e Taiwan.

Così fa il nostro Han Han. La sua rivista Party, Un coro di assoli aveva ospitato numerosi scritti critici (tra quali uno dello stesso Ai WeiWei) ed è stata chiusa dopo il primo numero. Ma senza arresti: Han Han, quando l’ho incontrato a Shanghai, non si mostrava per nulla preoccupato.

Pochi giorni prima aveva postato sul suo blog la ripresa live di un grosso incendio a a Shanghai al quale la tv di stato aveva rinunciato (su richiesta dall’alto) a dare copertura. Risultato: il suo blog, e tutti gli altri che lo hanno ripreso, sono stati inondati di commenti (si parla di 80.000 persone) di protesta contro la televisione e le ingerenze del potere (che si giustifica dicendo: non bisogna deprimere il morale delle masse con notizie negative…!). Insomma: è così che si esprime la protesta in Cina.

(continua…)

Un invito

Amruta Patil da qualche mese è tornata a Goa, dove è nata e dove ha passato gli anni della primissima infanzia. Aveva bisogno di concentrazione per finire la sua nuova graphic novel, Parva, tratta dal Mahabarata.

Voleva anche smetterla di rispondere al telefono quaranta volte al giorno, e di sentirsi piena di impegni dei quali le importava poco o nulla. Ci ha guadagnato il suo blog, sul quale posta con regolarità, parole e segno grafico.

L’ho incontrata ancora a Delhi prima di natale, mi aveva detto: spero che questo spostamento mi porti fortiuna. Per ora direi di sì: Amruta è stata invitata al Festival di Internazionale, a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre, manifestazione prestigiosa come la testata che la organizza. Bentornata in Italia, Amruta!

glasgow.rosaura@mailxu.com aguire_kerry