• Chi siamo

    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
  • Libri

  • Parlano di noi

    • A Yi e Chan Ho Kei su Alias
    • Ayu Utami su Alias
    • L’impero delle luci segnalato su Internazionale
    • Metropoli d’Asia sulla Rivista Tradurre
  • Autori

Tutti i post su in diretta dall’asia

Art Studio

La presentazione a Singapore del suo romanzo era in cinese, ma a cena Pway Ngon mi parla in inglese. Una lingua imperfetta, ma sufficiente per raccontarmi di questo suo ultimo romanzo, Art Studio appunto.

C’è molta autobiografia. Ci sono le vite di un gruppo di artisti, seguiti dalla loro giovinezza (gli anni Sessanta) ai giorni nostri. Artisti, ma anche scrittori e giornalisti che Pway Ngon ha visto passare per trent’anni dalla sua libreria, piccola ma prestigiosa: la Grassroots Book Room.

Una libreria che ancora oggi combatte per la sopravvivenza, dentro a un mall (cioè a un edificio a più piani dove sui corridoi e sulle balconate si affacciano negozi di ogni tipo), oramai troppo vecchio: costruito negli anni Settanta, appunto, non in grado di competere con le nuove e magniloquenti architetture contemporanee, con l’esibizione del lusso.

Ma la Grassroots Book Room ha ancora un nome importante, il mall in questione è proprio di fronte alla National Library. Pway Ngon, stufo di passarci la giornata dopo più di trent’anni, la sta affidando in gestione, e finalmente si prenderà più tempo per scrivere.

Scrivere: di sé stesso, direi. È uno di quegli scrittori che della propria esistenza fanno il fulcro della narrazione. Pway Ngon, credo, ha bisogno di farci sapere quel che ha visto attorno a sé, e sa farlo senza indulgere in narcisismi esasperati anche quando si tratta di menzionare i suoi anni di galera, la miseria conseguente a questi, la difficoltà di affermarsi come scrittore.

Quando Pway Ngon mi racconta dei suoi anni giovanili, racconta raramente di sé: dice io, ma solo per introdurmi a ciò che lo circondava.

Qui a cena gli argomenti sono vari. Mi racconta Chennai, in India, dove lui è andato a stare per qualche settimana, per capire l’ambiente di provenienza di uno dei suoi personaggi, indiano di origine. Mi parla di un pittore, e io non riesco a distinguere il personaggio del romanzo dalla persona reale, l’amico che lo ha accompagnato per molti anni.

E poi, inevitabilmente, si torna a parlare della lingua, il cinese in cui scrive. Qui, di nuovo, la questione si fa complessa. Il cinese si basa sugli ideogrammi, ciascuno dei quali è foneticamente una sillaba, ma ha comunque un significato autonomo.

In sostanza: quando un cinese scrive o legge è come se avesse due piani di lettura, ogni parola ne contiene in sé altre due o tre. Quando scrive, invece di cercare una musica, un suono per le proprie parole, cerca una successione di immagini attinenti alla narrazione. Per questo la letteratura cinese è di così difficile traduzione nelle nostre lingue.

Ma da Pway Ngon scopro qualcosa di nuovo. Perché la domanda è: scrivendo al computer, cosa succede? Che tastiera usi? Come fai ad avere a disposizione centinaia di ideogrammi? E la risposta è sorprendente: io scrivo con il vostro alfabeto. Pway Ngon, e così tutti coloro che scrivono direttamente al computer, traslittera automaticamente. Pensa una parola pronunciandola dentro di sé, la scrive su una tastiera qwerty come tutti noi, e un programma fa comparire sulla pagina l’ideogramma corrispondente.

A me sembra un processo faticoso, pazzesco: lui mi dice, mentre scrivo è come se cantassi. Mentre rileggo, come se guardassi un mio dipinto.

Foto: Singapore Writers Festival

Un indovino gli disse

L’abbiamo già sentita: la minacciosa profezia valse a Terzani un libro, uno dei suoi migliori (ma io non stravedo per Terzani), perché fu costretto a viaggiare un anno intero senza prendere aerei, quindi via terra, attraversando le frontiere più remote e battendo le strade più dissestate.

Qui abbiamo un giovane indiano di 28 anni, trapiantato a Singapore dove si è laureato in ingegneria, e dove ci è rimasto: a fare film, a dipingere, a racimolare qualche soldone come consulente finanziario part-time (sic!), perfino a scrivere un romanzo, The Diary of an Unreasonable Man, che Penguin India pubblicò qualche anno fa.

La domanda che pongo a Madhav Mathur è: non ne fai troppe? Tra l’altro lui esibisce sempre un paio di occhiaie che denotano sonno arretrato (dormo due tre ore per notte, mi confessa): il suo primo film, uscito in sala a Singapore, si intitolava The Insomniac e raccontava uno scrittore alle prese con una sindrome da autodistruzione, incapace di staccarsi mentalmente dal proprio romanzo, che finisce col vagare la notte per le strade di Singapore inseguito da mostri di vario tipo, suoi e altrui.

Lo salverà una donna? Tra l’altro Madhav ha una bellissima giovane moglie, una consulente finanziaria (sic2!) russa, biondissima insieme a lui nero negli occhi nei capelli e nella pelle, che lavora per Deutshe Bank.

Ripeto: non ne fai troppe, Madhav Mathur? The Outsiders, l’ultimo film, è stato a Venezia a un evento collaterale alla mostra, poi in California, e ovviamente al Singapore Film Festival. I suoi quadri sono stati esposti (e dice lui molto ben venduti) anche a Delhi e Hong Kong. Ora mi parla di un suo script nelle mani di una produzione di Bollywood, forse con regia addirittura di Anurag Kashyap.

E la storia che ha per la testa in questo momento non sa se diverrà un libro, un film o più probabilmente un testo teatrale: una storia ambientata in un India del futuro, dominata dal fascismo induista.

Digressione: quando un intellettuale laico in Asia vuole definire l’oppressione fondamentalista, sia essa islamica, induista o perfino cristiana, usa il termine “fascismo”. Non integralismo o fondamentalismo. Perché non ne sottolinea la costrizione esercitata da una morale arbitraria, sul piano del comportamento individuale, ma sente piuttosto l’esercizio del potere, la dittatura dentro a ogni segmento della società. Insomma: del velo gli frega meno. E quest’uso del termine “fascismo” l’ho ritrovato in India, in Malesia, in Bangladesh.

Mathav è comunque uno che si diverte un mondo a fare quel che fa: e la conversazione corre sciolta, veloce, intorno al mestiere dello scrittore, al rapporto con la famiglia e la religione (induista appunto) di sua madre, con il pubblico giovanile e meno, con le ossessioni che spesso muovono gli artisti.

Ed ecco comparire l’indovino: non uno solo, ma cinque! Cinque indovini che a sua madre dissero: tuo figlio morirà a trent’anni. È forse per questo, dice ridacchiando, che penso di dover fare tutto subito, senza perdere tempo. E capisco che non lo dice mica per scherzo. Con un sospirone dice: beh, se mia madre avesse evitato di portarmeli per casa, quelli, mi avrebbe fatto un piacere.

Io penso, e non gli dico: questa è quasi la maledizione di una madre. Poi pero’ glielo dico. Lui conferma, senza esitazioni. E aggiunge: comunque uno di questi cinque recentemente ha detto che no, le cose son cambiate, non morirò più. Provo a fargli raccontare di più: la sua famiglia. C’è un blocco, strada chiusa, non si procede.

Chiedo: ma tu ci credi, agli indovini?

Lui: direi proprio di no. Però, chissà cosa ho per la testa, io. E poi: ma gli indovini, dai! Non sono mica matto!

Il segno di Troy

Ho raccontato, nel post precedente a questo, la mia impressione, una volta terminata la lettura del suo Resident Tourist, di ritrovarmi dentro alle sue tavole.

Come quando si guardava il Blob dei bei tempi su Rai3, e poi ogni trasmissione ti pareva finta, un Blob di sé stessa, perché ne veniva fuori la comicità involontaria, la fiera delle assurdità.

Ma Singapore perché rende questa impressione, da fumetto? Troy Chin ha un segno nitido, quasi geometrico, iperrealistico ma allo stesso tempo virato sulla leggerezza.

Allora mi sono chiesto: forse perché così è Singapore? Una città semplificata, una città giocattolo? È noto come le forme del design contemporaneo vadano d’abbrivio verso un segno infantile (mi vengono in mente le nuove Mini, o le 500, che sembrano la replica dei modelli originali ad opera dei disegnatori di Topolino, con tutte quelle belle curve e i fanaloni; o tanti oggetti d’uso quotidiano che sembrano prodotti dalla Chicco, senza spigoli perché non si faccian male i bambini).

Troy non compie questa deriva (né le architetture di Singapore lo fanno), ma aggiusta il tiro comunque su un segno giocattolo che è ESATTAMENTE quello sui cui si innestano le architetture di Singapore: grattacieli sulle cui forme ci si interroga invano (il famoso Marina The Sands si compone di tre torri oblique, ondeggianti come belle signore, sulla cima delle quali si posa una specie di barca!), una altissima ruota panoramica da luna park, un peraltro bellissimo teatro e sala da concerti che assomiglia a un porcospino (qui lo chiamano il Durian, un frutto locale), i grattacieli di vetro sotto ai quali, orizzontale, la mole di un ex ufficio postale coloniale sembra rifatto dagli architetti di Disneyland.

Insomma, la bravura di Troy Chin è quella di far muovere le esistenze giocattolo dei suoi personaggi (scuola, università, ufficio, matrimonio, centro commerciale, e il tutto disperatamente, e senza pensiero critico) dentro a questo segno giocattolo.

Segno che si è inventato da solo, da completo autodidatta, disegnando cinque libri l’ultimo dei quali, il quinto, gli fa venir voglia di ridisegnare i primi due. Bravo Troy.

Troy Chin, turista residente

Trovare il modo giusto per descrivere questo artista non è semplice. Vorrei evitare di andare per frasi fatte.

Sul palco del Singapore Writers Festival era a confronto con altri due graphic novelists locali. Gli altri sorridevano soddisfatti, lui aveva l’aria più incazzata che mai.

Al centro della sua produzione artistica (cinque volumi intitolati The Resident Tourist, la storia di un sé stesso ritornato a Singapore a trent’anni, dopo un decennio a New York) sta una sensazione di perdita e di rancore: la Singapore della sua giovinezza non c’è più, i suoi amici di un tempo (erano compagni di scuola ma anche una rock band) li ritrova sfiniti dietro a un sogno o un progetto di vita che prevede unicamente – a dir lui – soldi soldi soldi. La carriera, la famiglia, ogni genere di consumo concesso.

Non c’era niente di cos’ straordinario, in questo suo dire: il rischio delle frasi fatte e del luogo comune lui lo corre tutto. Neppure è una novità trovare anche in lui quel po’ di narcisismo che, non appena gli viene messo tra le mani un microfono, lo illumina dall’interno, lo aiuta a pronunciare frasi argute da uditorio.

Ma se il Troy Chin protagonista del Tourist è davvero lo stesso Troy Chin che ho davanti io adesso (il banco del bar, per me una Guinness per lui un tè al limone perché, dice , alle otto va a correre tutte le sere: la disciplina dello scrittore), c’è molto di vero nell’incazzatura che esibisce.

Come ogni scrittore, se lo conduco su un piano di conversazione piatto, lui esibisce luoghi comuni che anche noi ci raccontiamo spesso nella nostra Italietta, le relazioni tra le persone che non sono più le stesse, la scomparsa dei luoghi di incontro, l’eterno telefonino o mail o Facebook, tutti in carriera insoddisfatti e consumatori.

Ma se lo imbroglio un po’, se lo conduco a parlar d’altro più semplicemente (che so, sua nonna, o gli autobus di Singapore) senza chiedergli dichiarazioni programmatiche, vien fuori una persona incazzata sinceramente, se pur con garbo.

Nel Resident Tourist, non a caso, tutto acquisisce spessore. A cominciare dagli occhi del protagonista Troy, rivestiti di un paio di occhiali dalle lenti CIECHE: cioè, lui è l’unico di cui non si vedono gli occhi.

Per continuare con la compassione con cui ascolta tante storie di delusioni e sfighe da parte dei suoi amici, e dalla misura con la quale si incazza con loro. O con una ragazza, Mint (ma questa è la storia che convince meno, come se ci fosse da parte dell’autore la necessità di raccontarsela, più che raccontarla).

Io, qui seduto al bar, cerco di andar di sguincio, di non farlo parlare di queste sue vere e proprie ossessioni. Per il passato, il presente e il futuro. Il passato che in questa storia in cinque volumi, scritta e disegnata in poco meno di tre anni, compare come passato distante (i dieci anni a New York, il fallimento di un aspirante musicista che si ritrova dietro una scrivania negli uffici di un produttore rock), o come passato presente (l’infanzia e la scuola superiore a Singapore, con i suoi luoghi e le sue relazioni).

E il futuro del suo progetto attuale: una striscia quotidiana, LOTI, su un gruppo di bambini e il loro cane volante, e c’è chi lo vede e chi invece non ci riesce: un modo – spiega lui all’uditorio – di ricordare come era più semplice essere bambini ai suoi tempi, quanto più gioco e immaginazione: come un monito, dice, ai genitori di oggi.

E sicuramente una voglia di futuro: lo confessa il personaggio Troy Chin alla sua Mint, in cima al Flyer di Singapore, la ruota panoramica più alta del mondo, dove lei gli dice, papale papale: tu non hai un lavoro, Troy, che futuro vuoi costruire con me? Perché così è: quando Troy tornò a Singapore non aveva in mente altro se non raccontare quel che ritrovava e quel che avrebbe voluto ritrovare.

Scrive le sue tavole, il personaggio Troy Chin del Tourist, e così fece l’omonimo artista, sentendosi dire da ciascuno: perché tu non lavori? Chi sei, se non lavori? E lui si incazza, ma scrive, disegna (senza che mai l’abbia saputo fare: e si vede la differenza tra il segno del primo volume e quello del quinto). Si è autopubblicato per tutti questi anni, i volumi sono in tutte le librerie, racimola qualche lira (Singaporean Dollars in verità) con lavori su commissione, ma non manca mai la sua LOTI-striscia quotidiana.

Che pubblica sul suo sito, naturalmente: nessun giornale, fino a ora, l’ha voluto (dice candidamente: il mio pubblico è fatto di adulti, tra i trenta e i quarantacinque, altro che bambini).

Venerdì, nel salone delle cerimonie del palazzo presidenziale, hanno consegnato gli Young Artists Award 2011: lui è uno dei cinque. Un paginone sullo Straits Times. Chissà che adesso Mint non cambi idea, e che non gli dica più: Troy, che futuro vuoi che diamo ai nostri figli, in QUESTA città? E lui risponda: è la MIA città. Qui voglio vivere.

A me, terminata la lettura del quinto Tourist, resta questa sensazione: percorro le strade di Singapore e la vedo disegnata dal tratto leggero, pulito, di Troy Chin: i grattacieli, i monumenti, gli autobus e le macchine: vuol dire che funziona no? O vuol dire che è Singapore, la città stessa, a essere un fumetto, un cartone animato?

Mi dice: ma questo è il centro, per i turisti e i businessmen. Un giorno ti porto su da me, nei quartieri residenziali, a nord. Dove c’era il mio parco giochi.

Il suo sito: DrearyWeary, che tradotto sta per: triste e annoiato. E in home page, non per caso, ha una muta di bambini ridanciani.

Foto: Eustaquio Santimano

Inchiostro

L’editore più socievole e simpatico che abbia mai incontrato in Asia si chiama Chu An Min, ha fondato una casa editrice indipendente col nome di INK, e io non sono mai riuscito a parlargli.

L’ho incontrato la prima volta un anno fa, a Taiwan. Il mio amico Yeng Pway Ngon volava su Taipei, andava a incontrare il suo, di editore. Aveva sentito parlare di INK, voleva incontrarli, e mi ha proposto di accompagnarlo.

Chu An Min, entusiasta, ci ha invitato subito a cena. A metà pomeriggio, come si usa da loro. Io mi sono trovato davanti un uomo con un abito blu e una camicia bianca, senza cravatta, scarpe di marca, occhiali spessi, che ha cominciato a versarmi birra nel bicchiere. E a berla, dimostrando una certa tenuta. Purtroppo Pway Ngon parla un inglese stentato, e Chu An Min non ne sa una parola. Quasi impossibile comunicare se non a gesti (versar la birra nel bicchiere, alzarlo per un brindisi), dopo pochi minuti Pway Ngon si è stufato di tradurre, An Min di parlare a frasi mozze e spezzettate da una traduzione che io non capivo.

INK è anche una rivista letteraria, sicuramente anomala. Più di cento pagine su carta patinata, monografie su scrittori da tutto il mondo, che i suoi collaboratori o amici (ne ha dovunque) riescono a intervistare e magari a convincere a lasciargli tradurre un inedito (a Taiwan). Pubblicità d’alto profilo, cadenza mensile: una rivista letteraria non in perdita. Pazzesco, considerata la qualità del prodotto, testo stampa confezione.

A vederlo (l’ho già detto parlando di altri, l’Asia gira così) penso che forse in questo modo si presentavano i Flaiano, i Bianciardi all’epoca in cui facevamo boom economico noi. Persona alla mano, che se la beve (ho declinato l’offerta per i bagordi successivi, e sono tornato in albergo al capezzale di una moglie con l’influenza), che mi dà di gomito in continuazione e io rispondo di sì, rido di non so che. Editore lui, che negli ultimi anni ha saputo pubblicare e valorizzare i nomi più importanti della narrativa taiwanese e è presente massicciamente nelle librerie (il logo INK è scritto all’occidentale, lo riconosco anch’io). Grafica di copertina raffinatissima, beati loro che hanno quei caratteri che da soli fanno disegno.

Durante questi dodici mesi ci siamo scritti (meglio: un mio amico gli ha scritto per conto mio in cinese), abbiamo ricevuto qualche libro. Vi diremo più avanti. Quel che conta è che ora io son di nuovo a Taipei, e finalmente lo posso incontrare di persona, con un traduttore italiano al mio fianco che sicuramente sarà capace di veicolare la nostra chiacchierata non di lavoro, ma libera: che mi racconti quel che vuole di lui, di Taiwan. Che ci porti un po’ in giro.

Il mio traduttore attende conferma telefonica per l’appuntamento della mattina successiva, il telefono di Chu An Min suona a vuoto. Ci presentiamo negli uffici come previsto, alle 10. Chu An Min non c’è. Non sanno dove sia. A volte non dice dov’è, si scusano. Forse è a Pechino. Forse è sbronzo, pensiamo noi? Ci riceve una responsabile editoriale e capiamo che è lei che tiene in mano l’ufficio, è lei che ci ha scritto a nome di Chu An Min, secondo le sue indicazioni, in tutti questi mesi. Ma oggi di indicazioni non ne ha.

Ci sciorina un catalogo: il meglio. Un editore affidabile, un editore vero.

PS Questo post non ha link. Non ci sono link a INK. Intorno a noi, Taipei non a caso è una città a pianta ortogonale di palazzoni anni cinquanta, sessanta (i ricchi cinesi si erano portati fuori dalla Cina comunista i loro averi, e lì si sono costruiti la loro città dal niente o quasi). Alti sette otto piani, grigi, tutti uguali ma vivacizzati dagli ideogrammi che impazzano, colorati, al livello della strada. Cielo bigio d’autunno. Un sacco di gente che fuma. Che nostalgia…

Foto: Levi Durbidge

Chan Ho Kei (o Chen Haoji, in mandarino)

C’è una scala mobile a Hong Kong. È famosa. In realtà è una successione di passerelle in salita, e i tratti in pendenza sono scale mobili o nastri trasportatori. Ogni tanto qualche gradino.

Collega il porto dei vaporetti che attraversano la baia con i vari livelli di una città addossata alla collina, sul cui versante si alzano i grattacieli residenziali alti e stretti: sembrano alberi, non è un cliché.

La risalgo insieme a Chan Ho Kei (chiamami Simon, ripete), il giallista di Hong Kong che pubblicheremo tra qualche mese. Lui mi cita il film di Wong Kar-wai (a me sembra fosse Hong Kong Express, lui pronuncia un titolo diverso, probabilmente la traduzione letterale del titolo cinese), una lunga scena a due sull’Escalator. E Batman, il secondo, che io però non ho visto.

Qui non mi ci ha portato lui, sono io che gli ho chiesto di fare questa camminata (agevolata). Mangiando i nostri dumplings sopraffini lo avevo visto un po’ ingessato, timoroso. Io gli ho spiegato che ormai è tutto fatto. I diritti sono nostri, prima o poi lo tradurremo in italiano, e lo rivenderemo in tutta Europa e in Asia. Sono curioso di capire chi sei, tutto qui: ma non glielo si può dire in questo modo.

Ha trent’anni, ha lavorato nel software, ora si concederà di fare lo scrittore a tempo pieno. Non che prima non scrivesse in abbondanza: ma scriveva per piccole case editrici. Quella che davvero si può definire pulp fiction: carta leggera, soldini per l’autore quasi niente, editing zero e refusi a manetta, distribuzione nei mercati più che in libreria.

Insomma su una scala mobile avveniristica, dentro a una città che somiglia a quelle descritte dai nostri fumetti di fantascienza anni settanta, tra alcune delle architetture più famose del mondo, Ho Kei (chiamami Simon), si lancia in una appassionata difesa dell’editoria popolare, che non si può definire underground perché sa vendere migliaia di copie.

L’avveniristica Asia ha delle formidabili somiglianze con i nostri anni Sessanta, Settanta (nei Cinquanta ero troppo piccolo per ricordarmeli). Qui spopolano gli Urania e i Gialli Mondadori. E giustamente lui mi dice che sono poco esplorati, che tutti si lamentano di come si legga sempre meno (uff, in Italia non hai idea i pianti, gli dico…), e che gli autori veri si nascondono lì.

Come i nostri Bradbury, le Ursula Le Guin, i Vonnegut (gialli non so, io leggevo solo fantascienza). Che importa se son solo storie di vampiri, horror, fantasy con legioni di guerrieri e semidei. Credono che i ragazzi debbano cominciare solo leggendo i classici? (E qui mi sovviene il protagonista di Le tre porte, cresciuto a lettere classiche cinesi, e finito e rotoli).

Gli racconto che in fondo quello è stato anche il mio percorso: monomaniacalmente fantascientifico, no gialli, no adventures (Salgari: giammai), tutta la meglio ma anche la peggio sci-fi (le saghe di Asimov, di Brunner, mamma mia…). Poi improvvisamente, a ventitrè anni suonati Il castello e a seguire tutto Kafka.

Insomma, era ora che Metropoli d’Asia inciampasse nel romanzo di genere (sì, anche Malesia Blues, è vero…) e ci inciampasse a Hong Kong. Perché qui si respira quel che mi aspettavo di trovare in Asia: un futuro che comincia da un certo punto del nostro passato. Tipo: modernità atto secondo (la vendetta?).

Oppure semplicemente: altro giro, altro regalo. Speriamo di riuscire a salire sulla giostra.

Ma lui, Ho Kei, Haoji, Simon? È lì, alto, con i suoi occhiali dalla montatura spessa, una dentatura smisurata (nerd, direbbero in USA?), sì un’aria da secchione sfigato che ha appena vinto uno dei più importanti premi asiatici, consegnato dalle mani di un autore giapponese di culto come Soji Shimada.

Chiacchieriamo, discutiamo, fermi in piedi sui tratti di scala mobile, o camminando col fiatone su un tapis roulant in salita, o discendendo improvvisamente una decina di anomali scalini. Ci fermiamo ai molti pianerottoli, ci appoggiamo alla ringhiera, bello spettacolo l’acqua, i grattacieli. Il ritmo della conversazione si adatta al ritmo della camminata: o viceversa. Buon ritmo, buoni pensieri.

In cima io prendo un taxi che ridiscende i tornanti, lui se na va, scompare nell’iperspazio (che non è male per un giallista).

Foto: evan.chakroff

Premiazione a Taiwan

Metropoli d’Asia e’ entrata a far parte di un pool di editori asiatici che ha recentemente assegnato un premio a quello che viene considerato il miglior giallo dell’Asia orientale.

Lo abbiamo gia menzionato: si chiama Soji Shimada Mystery Award. Prende il nome da un autore giapponese di culto, una icona del pubblico giovanile, cultore di quelli che qui vengono definiti “gialli a chiave”: quelli in cui c’e’ un mistero, un enigma da risolvere.

Il pool si e costituito attorno a un editore taiwanese, Crown, e vede la partecipazione di editori dalla Cina, Giappone, Corea, Tailandia, Malesia e, appunto, Italia: Metropoli d’Asia pubblichera il romanzo vincitore e ha incarico di rivenderne i diritti in Europa e in alcuni paesi asiatici.

Il vincitore e’ di Hong Kong, si chiama, a seconda dei casi, Chen Haoji, oppure Chan Ho Kei, a seconda che lo si pronunci in mandarino o in cantonese.

Lo incontrerò a Hong Kong nei prossimi giorni, ne parleremo. Intanto possiamo dire che il titolo provvisorio del giallo e’ “Dimenticare. Polizia criminale”. Nella foto ecco Soji Shimada con il nostro Ho Kei, a destra.

Lui è di Hong Kong, dove si parla cinese cantonese, e non mandarino (ma scritto nella versione tradizionale, non in quella semplificata). La questione è… complessa. Sostanzialmente succede questo: il cinese è una lingua unica, ma nel sud della Cina si pronuncia in modo differente che nel resto del paese. I due nomi che ho citato rappresentano appunto, le due pronunce di un nome scritto allo stesso modo.

Naturalmente quando si traslittera nel nostro alfabeto, ecco che spuntano due nomi diversi. Noi scegliamo il secondo. Ce lo ha chiesto Chan Ho Kei, scrivendomi: se preferisci, chiamami Simon.

La forza di Taiwan

Ho enfaticamente intitolato un recente post La guerra (fredda) delle lingue, riferendomi al confronto in atto tra prevalenza dell’inglese e del cinese nella narrativa (e in genere nelle pubblicazioni) di questa parte del continente.

Relativamente al campo della lingua cinese, la piccola Taiwan, che vive gli ultimi anni in uno stato di attesa, ormai preparata a un quasi inevitabile ricongiungimento con la Cina continentale, ha un ruolo di primo piano.

In Cina continentale è stato introdotto decenni fa il cinese semplificato, e cioè una versione della lingua scritta che prevede una drastica riduzione del numero dei caratteri e una loro semplificazione grafica, questo per facilitarne la sua diffusione a livello di massa, e cancellare l’analfabetismo.

Taiwan restò ancorata al cinese tradizionale (o complesso). Lo stesso accadde nelle numerose comunità cinesi dislocate in altri paesi asiatici e non solo (si parla di 140 milioni di cinesi residenti all’estero da generazioni), emigrate (in Asia) come rappresentanti delle classi commerciali, ma in seguito anche come reazione alle trasformazioni in atto in Cina (la rivoluzione anti-imperiale dell’inizio del secolo scorso, e quella comunista nel dopoguerra).

In tutta l’Asia del sud-est si utilizzava il cinese complesso, fino a pochi anni fa, e solo la nuova generazione ha cominciato a adottare il semplificato. Il risultato è che scrittori appartenenti alle grandi comunità cinesi di Singapore, d Hong Kong e della Malesia sopratutto, ma anche alle minoranze cinesi di altri paesi del Sud-est asiatico, non trovando una editoria cinese locale, si rivolgono agli editori di Taiwan, capaci poi a loro volta di distribuire nel Sud-est. Una narrativa della diaspora che dunque si rivolge più verso Taipei che verso Pechino.

Foto: robbed

La guerra (fredda) delle lingue

Una delle architetture piu belle della scintillante Singapore è la National Library, un raffinato esercizio di equilibri di vetro e acciaio bianco, sulla cima del quale spicca, tondeggiante, il POD, una struttura che ricorda lo Scrigno del Lingotto a Torino, appoggiato su un angolo dell’edificio, sporto sulla citta.

Ci si appoggia alla balaustra e ci si gode il passaggio dal giorno alla notte, in questa metropoli che sta diventando una delle piu belle del mondo.

Del resto, non si puo far altro che guardar fuori: la presentazione del nuovo romanzo di Yeng Pway Ngon è interessante, un’ora di discussione serrata, ma rigorosamente in cinese… Non sono l ‘unico sorpreso dalla scelta, ma il romanzo è scritto in cinese complesso (quello di Taiwan, per intenderci, che perfino i nostri traduttori piu esperti fan fatica ad affrontare), il mio amico Pway Ngon si sente piu a suo agio in cinese che in inglese, e…

E a questo punto anche a Singapore si comincia a sentire l’influenza del Dragone. Arriva la letteratura cinese in cinese, se ne prendono le televisioni, e la sua popolazione di origine cinese si chiede perché fare la fatica di comunicare sempre e cominque in inglese, visto che in casa si parla il dialetto Hokkien, Cina meridionale.

Mi avevano detto che la narrativa di lingua cinese e malese qui sta riducendosi al lumicino. In tutto il mondo dove l’inglese è disponible (penso all’India, a tanti paesi africani, alle Filippine della diaspora), prima o poi l’inglese vince. Ora invece, in Asia, comincia a regredire: l’altroieri ho postato su Fixi, la collana in malese di Amir Muhammad a Kuala Lumpur. E ora questo segnale chiaro.

In ogni caso daremo in lettura a un esperto di cinese complesso il romanzo di Pway Ngon: una storia che si nutre nella sua autobiografia, e segue un gruppo di personaggi dagli anni Sessanta ai Dieci, da una giovinezza ribelle di mobilitazioni per lindipendenza prima e per la democrazia poi, alla Singapore odierna, dove nasce un’opposizione parlamentare che prende il 40% dei voti e il Web detta legge. Singapore comincia a lievitare nella mediasfera: se ne e’ accorto anche Pascale, sul Post.

Foto: inju

Amir Muhammad

Abbiamo già parlato di Amir Muhammad, su questo blog. Un cineasta malese, noto in tutto il mondo per i suoi documentari, e da pochi anni anche un editore di qualità, con la sua Matahari Books, che pubblica saggi sul suo paese.

Non ultimo questo Growing up with ghosts che, raccontando di una coppia mista in un passato di discriminazioni razziali, sta spopolando in tutto il multirazziale Sud-est asiatico. Ma Amir non è contento, e ne ha inventata una nuova. Si chiama Fixi, termine indonesiano che naturalmente significa fiction.

Guardate questo sito, avviate la traduzione automatica e qualcosa se ne capisce. Da intellettuale intelligente qual è, Amir cerca di raggiungere un pubblico più vasto possibile, giovane, che legge solo in malese. Lo fa con una serie di gialli, mistery, spystories scritti da esordienti assoluti (quanto meno per quanto riguarda la scrittura). L’ultima uscita parla di zombie! E, ovviamente, già sono in coda le case di produzione cinematografica per farne un film.

Ho incontrato Amir in un ristorante sotto gli uffici della radio più ascoltata di Kuala Lumpur, BFM. Mi ha giocato uno scherzetto: siamo entrati in uno studio di registrazione ed è partita l’intervista. A Metropoli d’Asia.

moussacamila@mailxu.com romines_perla tellado.christy@mailxu.com