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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Xiaolu Guo sul Sunday Times

Una recensione del Sunday Times sull’edizione inglese di Once Upon a Time in the East: A Story of Growing Up, libro di Xiaolu Guo che Metropoli d’Asia pubblicherà il prossimo autunno. L’articolo si concentra in particolare su alcuni aspetti drammatici della giovinezza di Xiaolu Guo, suggerendo un paragone con le esperienze narrate in Cigni selvativi, di Jung Chang.

Una recensione sul Financial Times del prossimo libro di Xiaolu Guo

Sul Financial Times, la prima recensione di Once Upon a Time in the East: A Story of Growing Up, libro di Xiaolu Guo che Metropoli d’Asia pubblicherà in autunno. Pochi giorni fa ne avevamo segnalato un estratto pubblicato sul Guardian, riguardante il trasferimento dalla Cina al Regno Unito. In questo articolo si parla anche di altri aspetti, come la sua infanzia molto difficile.

Xiaolu Guo si racconta sul Guardian

Il Guardian ha pubblicato un lungo estratto da Once Upon a Time in the East: A Story of Growing Up, di Xiaolu Guo, che Metropoli d’Asia pubblicherà in autunno. L’autrice ha già pubblicato con la nostra casa editrice La Cina sono io e 20 frammenti di gioventù vorace.

Nel testo si seguono le diverse tappe del suo percorso, partendo dal desiderio di andare via da Pechino e l’opportunità ricevuta vincendo la Chevening Scholarship che le ha permesso di trasferirsi nel Regno Unito per studiare regia. Troviamo la descrizione delle difficoltà di integrazione avute con il trasferimento nel dintorni di Londra, e in seguito – in misura minore – nel centro, in una società occidentale diversa da quella che aveva immaginato.

Si arriva poi alla fine della borsa di studio, alla decisione di rimanere nel Regno Unito, fino all’idea del primo romanzo, sfidando le difficoltà di dover scrivere non nella propria lingua madre, e per di più studiando da autodidatta. Ci sono diversi interessanti passaggi sulle differenze tra l’”immaginazione visuale” data dalla lingua cinese e l’uso dell’alfabeto in inglese, e sulle difficoltà incontrate nelle declinazioni verbali.

La penultima parte del racconto è incentrata sull’inaspettata pubblicazione del romanzo da parte di una casa editrice prestigiosa come Random House, dopo essersi rivolta a un agente, cosa invece piuttosto inusuale in Cina.

Infine, nell’ultima parte troviamo il tentativo di tornare a far visita alla famiglia in Cina, le preoccupazioni per cui questo potesse non accadere a causa delle sue pubblicazioni, e il ritrovarsi amaramente con in mano un visto di sole due settimane e soprattutto il passaporto cinese tagliato in ambasciata dal momento che ottenendo il passaporto britannico aveva implicitamente scelto quella nazionalità, e la legge cinese non prevede di avere due passaporti.

“Yes. Great Britain,” I confirmed.
“That’s great. Greater than United States, right?” my mother said, drawing her conclusions from her Maoist education of the 1960s. But I knew that she had no idea about either Britain or America. The only thing she knew about those countries was that they were in the west. “You should take a rice cooker with you. I heard that westerners don’t use rice cookers.”

(continua a leggere su The Guardian)

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

Un altro mese affonda nella sabbia che orla la Manica. La routine degli incontri con il suo assistente sociale Brandon frustra Jian. La conversazione si muove attraverso una densa melassa di accenti. Niente sembra poterla tagliare.
Brandon conciliante, con la sua inflessione di Glasgow:
«Devi avere pazienza, Jian! La tua richiesta non può essere valutata in un giorno. Dobbiamo aspettare il procedimento ufficiale…».
Jian disperato con il suo accento cinese:
«Avere pazienza non mi farà avere l’attenzione dei funzionari dell’immigrazione, e nemmeno il loro rispetto!».
«Ma perché?»
Finalmente Jian capisce cosa Brandon sta cercando di dirgli: da quando gli è scaduto il visto, finché non lo classificano come rifugiato politico non ha uno status. È una “non-persona”. Una “non-persona”? «Non appartieni a nessun Paese; non sei cittadino di nessun luogo», gli ha spiegato il funzionario dell’immigrazione.
Non-persona, pensa. È talmente assurdo che gli sembra quasi cinese.

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

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Xiaolu Guo sulla Brexit

Xiaolu Guo, autrice con Metropoli d’Asia di La Cina sono io e 20 frammenti di gioventù vorace, aveva pubblicato qualche tempo fa un testo, tradotto dal Corriere della Sera, con sue considerazioni sul referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’autrice, residente a Londra da diverso tempo, ci porta in un viaggio tra amici e conoscenti nei momenti successivi al voto.

Ho chiamato i miei migliori amici di Londra (sono per la maggior parte europei che vivono in Gran Bretagna da anni), e li ho invitati a una veglia post-referendum. Abbiamo bevuto birra belga e vino italiano (l’origine dei prodotti all’improvviso era diventata importantissima). È arrivata la mezzanotte e siamo finiti a camminare lungo il Regent’s Canal, in preda alla tristezza, sotto il cielo inglese senza stelle. Le luci si erano spente in tutta Europa e le nubi invisibili sopra di noi erano il presagio di un temporale imminente.

(continua a leggere sul Corriere della Sera)


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Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo

Puoi controllare e ricontrollare tutti i dizionari cinesi che vuoi: non troverai mai la parola che sta per “romanticismo”. Noi diciamo “Lo Man”, copiando la pronuncia inglese. E comunque, che razza di fottuta utilità poteva avere per me una parola come romanticismo? In Cina non ce n’era molto, e Pechino era il luogo meno romantico dell’universo. «Prima mangia e poi parla», come dicono gli anziani. In ogni caso, tra me e Xiaolin il romanticismo era pari a zero.
Ci siamo conosciuti quando recitavo in una serie televisiva ambientata nella corte imperiale della dinastia Qing. Tutto il set riproduceva il modo in cui si viveva trecento anni fa. Le peonie nei vasi erano di carta, e di plastica i fiori di loto nello stagno. Io avevo la parte di una delle tante ancelle della prin-cipessa, parte che mi imponeva di portare una folta treccia finta. Era pesantissima e mi faceva pendere la testa all’indie-tro. L’assistente al trucco mi aveva dato un’occhiata sdegnosa e aveva storto il naso davanti alla lunghezza dei miei capelli, poi li aveva afferrati in un pugno e aveva attaccato quell’enor-me treccia. Nelle scene in cui comparivo dovevo camminare solennemente nel palazzo, versare il tè per la mia principessa o acconciare i suoi capelli. Il tutto senza parlare, ovviamente.

Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xialu Guo

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Xiaolu Guo, la Svizzera e Heidi

In un numero di Internazionale di qualche tempo fa era comparso un articolo di Xiaolu Guo, autrice con Metropoli d’Asia di La Cina sono io e 20 frammenti di gioventù vorace, su una sua esperienza di vita con la sua famiglia in Svizzera, a Zurigo. Proprio poco prima di partire aveva comprato per la figlia un libro di Heidi, personaggio che la suggestiona e accompagna attraverso gli incantevoli paesaggi montanari.


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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

È mezzanotte passata; Londra irradia film drammatici televisivi e ululati di sirene nel panorama sonoro della tarda notte. La strade sono sature di ombre e luci. Sopra Chapel Market c’è un appartamento ancora illuminato. Iona è immersa in un mare di carta. Ha aggiunto alla pila sulla scrivania altri due dizionari e un libro sui dialetti del Nord della Cina. Mentre sta smistando i fogli, cercando di dar loro un senso, trova una lettera senza data.
A un primo colpo d’occhio pensa che sia una lettera degli anni Novanta, ma il tono è arrabbiato e ferito come nelle prime lettere che Jian sembra aver mandato a Mu dopo aver lasciato la Cina nel 2011. Sta lavorando su queste traduzioni da alcune settimane e non è ancora riuscita a dare un senso alla storia. Che cosa è andato storto nel loro rapporto? Sembravano così felici, così pieni di promesse ed entusiasmo. Ci sono indizi e allusioni a un manifesto che ha cambiato tutto, ma non dispone di alcuna informazione del contesto e le sue ricerche su internet si rivelano inutili.
Guarda ancora la lettera – il tono è piuttosto veemente. Iona si chiede se sia mai stata spedita. Nessun indirizzo, nessun sentimentalismo, solo franchezza.

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

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Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo

Quando ho lasciato il mio villaggio, è stato come aver fatto un passo con il piede destro e aver impiegato quattro anni per farlo raggiungere dal sinistro. Durante quei quattro anni sono stata una specie di sedia di riserva abbandonata nell’angolo buio di un magazzino. Il mio primo lavoro a Pechino è stato come inserviente in un albergo chiamato Ostello del popolo. Non ero autorizzata a pulire le stanze, soltanto i corridoi e i cessi, ma se non altro potevo dividere una camera da letto con altre quattro inservienti. Sono rimasta lì per circa un anno, ma alla fine ho mollato. Poi ho lavorato in una fabbrica statale di giocattoli che produceva pistole di plastica e aeroplanini. Eravamo grosso modo cinquemila operaie, non sopportavo il rumore e la puzza del dormitorio e perciò ho lasciato anche quel lavoro. Da allora, ho praticamente vagato da un lavoro all’altro. Ho trascorso qualche mese in una fabbrica di lattine monitorando le macchine di assemblaggio, quando a un certo punto sono approdata in un vecchio cinema fatiscente chia-mato I Giovani Pionieri. A dispetto del nome, non proiettava pellicole in stile giovani pionieri ma soltanto film hongkonghesi di arti marziali. Monaci che se le danno e cose del gene-re. Dopo ogni proiezione dovevo spazzare scorze di canna da zucchero, ali di pollo smangiucchiate, gusci di arachidi, bucce di melone e altra merda che la gente si lasciava dietro – a volte perfino rane fritte.
Quel lavoro però non mi dispiaceva. Dormivo su un di-vano sgangherato nella sala proiezioni e guardavo film tutto il giorno. Inoltre, potevo tenermi le cose dimenticate dagli spettatori sotto i sedili. Una volta ho trovato un dizionario di inglese. È stata una scoperta elettrizzante. C’era quel famoso liceale di Shanghai che era stato ammesso a Harvard dopo aver imparato a memoria l’intero dizionario di inglese. Non riuscivo a farmi venire in mente il nome, ma era diventato il nostro eroe nazionale. Immaginavo che avrei potuto fare come lui – che quel dizionario dimenticato sarebbe potuto diventare un passaporto per il mondo anche per me. Ad ogni modo, ho incominciato a studiare le parole. Non era difficilissimo, ma dopo un po’ mi sono stufata e ho smesso. Comunque, riuscivo a dire qualche parola agli stranieri che venivano al cinema. E pensavo che vivere in un cinema fosse una figata. Spendevo tutti i miei risparmi per comprare riviste di film e andavo in altri cinema per vedere le ultime novità.

Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xialu Guo

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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

Il padre di Jian è il segretario amministrativo dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo di Pechino. Il giorno della conferenza annuale, decide di portare il figlio in ufficio con sé. Mentre suona la campana della Dongcheng Tower dietro l’ufficio di suo padre, cominciano ad arrivare nella sala conferenze centinaia di delegati con i loro lucidi completi scuri e le loro lucide facce accaldate. Il padre di Jian gli ordina di stare tranquillo e di restare in cucina, dove i cuochi preparano tè e cibo. È una giornata torrida, e i calzoncini di cotone gli si incollano dietro le cosce. Fa i compiti e aspetta. E aspetta. Due ore dopo, però, Jian si annoia a morte. Riesce a passare sotto il naso del guardiano che doveva tenerlo d’occhio e scappa dal cancello dell’Assemblea. Vagando tra i vicoli sonnacchiosi, il ragazzino di dieci anni prova la libertà e lo smarrimento di un cane randagio. Vede una banda di ragazzi più grandi in sella alle bici e vuole unirsi a loro, che lo accettano. È il solito gioco di guerra che i ragazzi fanno spessissimo nelle strade di Pechino: soldati cinesi contro soldati americani nella guerra di Corea. Jian si unisce al gioco un po’ tardi, perciò gli viene assegnato il ruolo di un contadino coreano che sta ai margini. Lui però si rifiuta. Si annoia, ha caldo e vuole schierarsi nel conflitto. Chiede di unirsi al gruppo dei soldati cinesi. Tuttavia, per essere assegnato a una unità, deve ricevere una funzione e, cosa più importante, recitare il “Giuramento del soldato”. Jian è negato per queste cose, ma è impaziente di provarci. Alzando il pugno destro chiuso, parla forte come un vero soldato: «Sono un membro dell’Esercito di Liberazione Popolare. Giuro che seguirò le direttive del Partito comunista cinese, servirò il popolo con tutto il cuore, obbedirò agli ordini, lotterò eroicamente; in nessuna circostanza io…». A questo punto Jian non riesce a ricordare i versi successivi, quelli cruciali sul tradimento della propria madrepatria. Lo prendono in giro. Macchiato dall’umiliazione, deve fare la parte di un soldato americano e i ragazzini gli si rivoltano contro: diventa il bersaglio di tutti. Il gioco della guerra si fa violento, e Jian le prende di brutto, busca dei pugni in faccia che lo fanno sanguinare. Qualcuno lo colpisce al volto con un ramo – riesce a evitare la punta acuminata ma si fa un taglio profondo che gli lascerà una cicatrice sotto l’occhio, come uno spicchio di luna.

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

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standing-quyen lucken@mailxu.com