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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su citazioni

Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

Da circa due decenni la vita di Marisa suscitava l’ammirazione e la benevola invidia di un’intera generazione di donne thai, perché era una favola divenuta realtà. Le sue fan conoscevano la leggenda a memoria. Originaria di un’umile famiglia di Saraburi, a sedici anni era stata scoperta da un agente che un pomeriggio, casualmente, l’aveva vista aiutare la madre al suo banchetto di zuppe. La bellezza e il portamento di Marisa l’avevano colpito al punto che, tornato nella capitale, aveva persuaso uno studio di produzione a occuparsi di lei e a pagarle lezioni di canto e recitazione. Quella fiducia fu ricompensata quando, meno di un anno dopo, ottenne la sua prima parte in un musical romantico chiamato Dignità e passione e rubò la scena alla protagonista. Prima di compiere venticinque anni, Marisa aveva già girato diversi film ed era una delle star più famose della Thailandia. Il suo volto sorridente appariva sulle copertine delle riviste e sui cartelloni pubblicitari di tutto il Paese. La sua pelle chiara, i lineamenti affilati che suggerivano un sangue misto, l’onda morbida dei capelli corvini, i denti scintillanti, gli occhi sorridenti e la figura perfettamente proporzionata diventarono il parametro di bellezza con cui tutte dovevano misurarsi. La sua era la storia di un successo nazionale. Per i dieci anni successivi le offerte piovvero. Appariva ovunque: film di kung-fu, storie d’amore, telenovele. Se una produzione straniera girava un film in Thailandia e aveva bisogno di una bellezza locale, di solito sceglieva lei. Si disse che l’unico motivo per cui non aveva mai raggiunto la fama internazionale fosse la sua paura di volare, che le impedì di viaggiare fuori dalla Thailandia. La fama che aveva nel suo Paese, tuttavia, era più che sufficiente. Quando il suo nome era legato a un progetto, il successo di pubblico era garantito.

Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

Mi risveglio che è sera, apro la minuscola finestra ed entra una brezza leggera. Mi soffermo a guardare fuori: è un paesino anonimo con tetti di tegole grigie, la strada è fatta di negozietti con brutte insegne e un viavai di camionisti in cerca di un posto per mangiare. Davanti all’albergo si ferma un camion vuoto; accanto c’è un bambino che gioca con la palla. Un treno corre lungo la ferrovia, che sarà a cento metri da qui, conto i vagoni: ventitré. Contare i vagoni è un gran bel passatempo; l’unica pecca è che non c’è modo di fare la verifica. Ma che importa, almeno si trascorre il dannato tempo totalmente concentrati, senza pensieri. Anche il bambino di sotto li ha contati. Dopo l’ultimo si gira verso il padre per dirgli: «Papà, erano ventiquattro».
L’uomo non gli dà retta, intento com’è ad aiutare il camion nelle manovre.

Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

Con prontezza sorprendente il poliziotto sfilò dalla tasca un pacchetto e glielo porse. Sigarette al mentolo: chi avrebbe pensato che un tipo come lui potesse fumarne? Mari ne prese due e gli rivolse un sorriso, come in attesa di un suo consenso: il poliziotto apparentemente non sembrava contrariato. Gli restituì il pacchetto, e lui commentò divertito: «Si vede che anche lei gradisce quelle al mentolo…».
Mentre lo ringraziava, il poliziotto le avvicinò l’accendino. Mari rifiutò con garbo e tornò ad accomodarsi in macchina. Accese la sigaretta e fece un tiro. Se il braccio sinistro non le avesse dato problemi, avrebbe potuto tranquillamente godersela mentre guidava, ma quel giorno purtroppo non le era possibile. Il suo cervello reagì alla nicotina ancora prima che potesse arrivare ai polmoni, mentre a pochi passi il poliziotto e il conducente della jeep fissavano, attraverso il parabrezza, il piccolo bagliore della sua sigaretta. Il fumo usciva a lunghi sbuffi dal tettuccio apribile dell’auto, come dalla ciminiera di un forno crematorio. Subito dopo tornò a pensare alle sue prime volte. Quand’era stata, per esempio, la prima volta che aveva saputo che le persone muoiono? Quasi subito, come se quel ricordo fosse già pronto nella sua testa in attesa da chissà quanto tempo che qualcuno formulasse la domanda giusta, le balenò nella mente un episodio del suo passato.

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

A quell’ora si incontravano lì anche Sixian e Ningfang; mangiavano un piatto di spaghetti di riso saltati o qualche focaccina indiana, bevevano una tazza di caffè e poi facevano una passeggiata fino all’atelier. In quel momento erano seduti uno davanti all’altra a un tavolino all’aperto e mangiavano in silenzio la colazione che avevano di fronte. Intorno c’era un gran fermento, come una pentola di zuppa che bolle sul fuoco, loro invece erano silenziosi come i protagonisti di un film muto, non sembravano far rumore neppure le loro bocche che masticavano.
Di solito non era così. Anche se si vedevano almeno due volte alla settimana avevano sempre molte cose da dirsi, ma poiché la sera prima avevano fatto una brutta litigata, quel giorno si comportavano come estranei. Sixian aveva addirittura temuto che quella mattina Ningfang non lo raggiungesse, invece era arrivata come al solito; però non avevano detto una parola, se non per ordinare la colazione al cameriere. I loro sguardi si incrociavano di rado per rivolgersi invece a un grande albero di casuarina intorno al quale giocava chiassoso un gruppo di bambini.

Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

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Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun

Al cantiere sapevano tutti che Liu Yuejin era un furfante. I borseggiatori agiscono per strada, i ladri nelle case, mentre il suo territorio era il cantiere. Lui però non prendeva rotoli di vergella, cavi elettrici o giunti per i ponteggi, faceva il cuoco e quindi rubava in mensa. Non proprio all’interno della mensa, bensì al mercato. Ogni giorno si alzava di buon’ora per andare a fare la spesa. Erba cipollina, rape, cavoli, patate, carne e cipolle avevano i prezzi esposti ma, in un cantiere di centinaia di persone, si compravano quantità enormi e si poteva trattare sulle cifre. Cinque centesimi per mezzo chilo, quando si tratta di decine di chili diventano qualche yuan e, se uno compra sempre dallo stesso banco, può ricavarci anche qualcosa in più. Poi c’era la carne: filetto, pancetta o capocollo hanno prezzi diversi. Nel cantiere si diceva che a tutti gli operai era venuto il collo taurino a forza di mangiare i tagli scadenti rifilati da Liu Yuejin. Per dare del ladro a uno, tuttavia, bisogna prenderlo in flagrante: lui non si faceva beccare, quindi non era un ladro. Erano tutti furiosi non a causa dei furti, ma perché non riuscivano a coglierlo sul fatto. Il capomastro Ren Baoliang diceva: «Pensavo che i furfanti fossero quelli che riesci ad acchiappare, invece il più furfante di tutti è quello che riesce a farla franca».

Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun

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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

Avevo iniziato a seguire, presso un centro culturale, un corso tenuto da un poeta mio coetaneo, il quale alla prima lezione aveva esordito con un tono solenne e un’affermazione che mi parve ridicola: «Il poeta è come un killer provetto: cattura il linguaggio e alla fine lo ammazza». All’epoca avevo già “catturato e ammazzato” decine di prede e di loro non era rimasto altro che polvere. Mai una volta però mi era passato per la mente di aver “fatto poesia”. Un omicidio ha più attinenza con la prosa. Chi l’ha sperimentato lo sa. Uccidere qualcuno è quanto di più improbo e prosaico si possa immaginare. Comunque non posso negare che, se ho cominciato a interessarmi di poesia, è stato grazie a quell’uomo. Aveva il merito di possedere il senso dell’umorismo, l’unica cosa che mi fa abbassare le armi.

Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

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Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan

«Perché?» aveva domandato Margio, riluttante a consegnare il suo giocattolo. «È solo un ferro vecchio che non serve a nessuno».
«Ma potresti comunque uccidere qualcuno con quella spada, se volessi», aveva risposto il Maggiore Sadrah.
«Infatti è quello che voglio fare».
Benché il ragazzo avesse dichiarato così apertamente di voler uccidere un uomo, il Maggiore Sadrah non aveva dato peso a quell’affermazione. Aveva cercato di convincerlo e, dopo averlo minacciato di portarlo al distretto militare, era riuscito a farsi consegnare la spada, che aveva poi gettato sopra la gabbia dei cani dietro casa sua.
Per tutto il pomeriggio non aveva più pensato a quell’episodio e non aveva notato nessun presagio di catastrofe: forse era diventato vecchio e non era più attento come una volta. Era quasi dispiaciuto di aver confiscato quell’inutile spada. Con quell’arma logora tra le mani di Margio, forse Anwar Sadat non sarebbe morto. Anche se il ragazzo l’avesse colpito più volte al collo, al massimo gli avrebbe fatto qualche livido o rotto qualche osso. Rabbrividì mentre immaginava come Margio avesse ghermito Anwar Sadat e con quanta forza le sue mascelle avessero stretto il collo del pover’uomo.

Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan

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Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

In una stanza grigia e quasi vuota, illuminata da un tubo bianco fluorescente, Jian sta scrivendo alla sede centrale una lettera seria riguardante il suo futuro.
Mentre scrive e riscrive le frasi, immagina un funzionario dell’immigrazione al Quartier generale del Controllo delle frontiere che apre pacchi di lettere. Probabilmente, quel funzionario stanco e usurato dalla routine darà semplicemente un’occhiata alla nazionalità del richiedente e all’indirizzo di ogni lettera, poi le butterà in un secondo mucchio di documenti che porterà a un altro funzionario dell’immigrazione; poi un altro funzionario in un altro ufficio aprirà quelle lettere, le leggerà ancora e le metterà in un altro mucchio, poi quel funzionario porterà i documenti a un altro funzionario… come un pazzo che sale a carponi una scala di Escher, incapace di raggiungere la cima.
Jian torna a sedersi e guarda i suoi compagni di stanza nella sua seconda scatola grigio-bianca in quello strano Paese. Durante il giorno il chiacchiericcio dei guardiani e il silenzio annoiato dei rifugiati nel Centro si differenziano poco dai quieti mormorii delle infermiere e dal torpore dei pazienti nel Lincolnshire. La situazione non è cambiata molto. In confronto perfino la sua umida cella di Pechino sembrava viva e pulsante. Mentre cerca di mettere le parole su carta, sforzandosi di ricordare la giusta sintassi inglese, sente in testa un rumore intermittente, quasi meccanico. È una sensazione penosamente familiare – gli ricorda quando al suo ultimo concerto è stato colpito da un manganello elettrico. Il suo corpo si indolenzisce, la penna gli si blocca tra le mani. Adesso quel suono intermittente spezza la quiete che aveva intorno e vede la casa della sua infanzia – una casa circondata da acacie, nascosta in un vicolo nei pressi del lago di Houhai nel centro di Pechino.

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

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Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo

La mia gioventù è iniziata a ventun anni. O per meglio dire l’ho fatta iniziare io in quel momento, ossia quando ho cominciato a pensare possibili anche per me tutte le classiche cose luccicanti della vita – e se non proprio tutte, almeno qualcuna.
Se pensate che ventun anni sia un po’ tardino come inizio di gioventù, be’, vi basti pensare alla gran parte degli insulsi contadini cinesi, i quali passano dall’infanzia dritti alla mezza età. Casomai mi fossi persa qualcosa, sarebbe stata la mezza età. Il mio piano era: o giovane o sotto terra.
Comunque, a ventun anni la mia vita è cambiata compilando una scheda per comparse. Prima ero soltanto una campagnola ignorante che non sapeva fare niente tranne raccogliere patate dolci, pulire cessi e tirare leve in fabbrica. Ok, stavo già a Pechino da qualche anno, però ero rimasta una contadina.
La mia trasformazione radicale è avvenuta negli Studios di Pechino. Era un pomeriggio afosissimo. Le pareti dell’ufficio di selezione del personale erano ancora impiastricciate con gli slogan del Presidente Mao: “Servire il Popolo!”. Alcuni mosco-ni verdi ronzavano sugli avanzi di noodles di un cestino per il pranzo. Dietro al cestino, un eroe del popolo sonnecchiava sul-la sedia. Aveva l’incarico di gestire le iscrizioni delle comparse. Quel compito l’aveva chiaramente logorato. Non ci filava per niente. Mosconi verdi anche noi.

Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xialu Guo

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Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

La stanza era ingombra di oggetti accumulati nel corso di molti anni. Contro la parete erano allineate sei sedie di paglia, quasi tutte sfondate. Un grosso armadio munito di specchio, con una zampa anteriore spezzata, pendeva inclinato a un’angolazione preoccupante. In un cassettone di mogano scuro si notava una grossa fessura nera rettangolare in corrispondenza di un cassetto mancante. Sul ripiano del mobile erano disposte una decina di boccette di preparati medici, vuote o mezze vuote. Un letto a baldacchino occupava il centro della stanza, con un materasso sottile arrotolato da una parte. Sulle assi a vista dell’altra metà, sopra uno strato di vecchi giornali, c’erano un fornello da campeggio annerito, un tagliere e un grosso coltello da cucina. Sotto il letto, la sagoma concava e vuota del coperchio di una macchina da cucire. Accanto, un tavolino ingombro degli oggetti più svariati: un lume a cherosene, una tazzina di porcellana scheggiata, un cacciavite, una grossa vite, una dentiera in un vasetto pieno d’acqua, un libro di preghiere spiegazzato, un grosso gomitolo di filo, una scarpina rossa da bambino e, in un piattino, un ammasso verde di muffa che era probabilmente un pezzo di formaggio. Alla parete ticchettava forte una pendola vetusta. Con una certa sorpresa, Jingo notò che segnava l’ora esatta. Accanto all’orologio era appeso, un po’ di sbieco, un vecchio calendario che raffigurava Nehru nell’atto di annusare una rosa rossa fiammeggiante.
Invitato ad accomodarsi, Jingo scelse un panchetto di legno dalle decorazioni bizzarre: non appena seduto, gli sorse il dubbio di essersi piazzato sul coperchio chiuso di un pitale di foggia antiquata. Ebbe l’impulso di spostarsi. Nessuna sedia nella stanza, però, pareva in grado di reggere il suo peso, e alla vecchia non sembrava importare dove si era seduto. La donna montò sul letto in fretta e furia, senza fiato per l’emozione, in attesa che Jingo iniziasse a parlare.

Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

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