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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su citazioni

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

Era sempre stato un mestiere ereditario. Generazioni di matrimoni tra consanguinei all’interno delle famiglie appartenenti alla ristretta sottocasta dei portatori di cadaveri – insieme a un isolamento autoimposto e rafforzato dalla società – li avevano resi deformi, goffi e in generale di salute cagionevole. Quindi era davvero triste e disperante che i portatori di cadaveri continuassero a dibattersi nel tentativo di sfuggire alla tirannia che avevano ereditato. Certo, il mio era un caso del tutto inconsueto: di solito rimanevano tutti sbalorditi e increduli nello scoprire che avevo scelto di mia spontanea volontà di sposare la figlia di un khandhia, optando per una vita all’interno delle Torri del Silenzio.
Di diritto, in effetti, io mi colloco a un livello più alto rispetto a un semplice portatore di cadaveri. Prima di prendere servizio alle Torri ho seguito cinque settimane di preparazione nel tempio del fuoco eretto su un’altura di quest’ampia tenuta coperta di boschi, a un tiro di schioppo dalle Torri stesse. Dopo vari giorni di ritiro solitario e purificazione rituale, dopo aver imparato a memoria diversi inni misteriosi in una lingua morta, sono stato iniziato dal gran sacerdote del tempio e proclamato ufficialmente nussesalar.
Questo strano termine dell’avestico antico significa «Signore degli Impuri». Anche i nussesalar sono portatori di cadaveri, non ci sono dubbi, investiti però di vari compiti rituali simili a quelli dei sacerdoti. Nella nostra religione, la materia morta è considerata impura. Tra i miei vari compiti c’è la segregazione dei cadaveri, una volta purificati secondo il rito, per impedire che vengano di nuovo contaminati dalle mani di famigliari troppo emotivi. Ancora più importante è la responsabilità di proteggere i vivi dalle contaminazioni che si suppone emanino i cadaveri.
Secondo le scritture, tutti i cadaveri irradiano un effluvio invisibile ma nocivo. Tramite abluzioni rituali, profilassi e preghiere, io devo proteggere la popolazione – e me stesso – dagli effetti perniciosi dei morti; insomma, per così dire, il nussesalar fa da scudo alla comunità contro tutto quel male e quella putrefazione, assorbendoli nel suo stesso essere. In cambio di tale nobile servigio, assicurano le scritture, la sua anima non rinascerà. Il nussesalar che adempie con scrupolo ai propri compiti sfuggirà per sempre al ciclo di rinascita, decadimento e morte. Quello che le scritture tralasciano di specificare, però, è che durante quest’ultima incarnazione il suo prossimo lo tratterà come spazzatura, come l’incarnazione stessa della merda: in altre parole, come un intoccabile fino al midollo.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

Un gruppetto di giovani vestiti in modo strambo e appariscente, che si sgolano come pazzi, accorre disordinatamente dall’altro lato della strada simile a uno sciame di vespe. Gli sfaccendati riconoscono in Xiao Ding una faccia nota: anche lui, come loro, spesso e volentieri se ne va a zonzo per le strade e qualche volta si sono persino scambiati un’occhiata, loro da un lato della via e lui dall’altro. Si fanno largo a spintoni tra la folla assembrata tutt’intorno, piombano senza tanti complimenti addosso al forestiero e lo riempiono di botte. In men che non si dica quello si ritrova la faccia coperta di sangue, è tutto un patetico gnè gnè cui si mescola un persistente rumore di lenti che vanno in frantumi, mentre a terra sono sparsi dappertutto occhiali rotti e occhiali ancora integri. All’improvviso un tizio con una cintura da rockettaro tutta larga, che inizialmente non ha partecipato alla mischia e se n’è rimasto in disparte a guardare a braccia conserte, si impadronisce di uno sgabello e, facendolo roteare, si lancia con furia cieca su quel disgraziato di un forestiero che implora pietà, e glielo schianta in testa. Il venditore di occhiali da sole crolla barcollando a terra, incapace di muoversi. A questo punto si sente qualcuno gridare: Arriva la polizia! La reazione del branco di ragazzotti è fulminea: sbandano tra le grida e si mettono a correre, mentre qualcuno di loro non tralascia di arraffare da terra qualche paio di occhiali rimasti miracolosamente intatti. Xiao Ding se ne sta seduto in disparte su uno sgabello con lo sguardo fisso, del resto la rissa non lo riguardava più già da un bel pezzo. Un tizio del posto gli dice a bassa voce: Cosa fai qui impalato, mettiti a correre, aspetti di crepare? Lo sguardo di Xiao Ding cade sul forestiero che se ne sta raggomitolato a terra, proteggendosi ancora la testa con le braccia e sforzandosi di reprimere gemiti di dolore. Ha il corpo percorso da spasmi continui e rabbiosi, come un vecchio cane pestato fino a spezzargli la colonna vertebrale. Xiao Ding scatta in piedi, si dà un’occhiata intorno e comincia a correre a rotta di collo nella stessa direzione in cui è fuggito il branco. Dopo un po’ ha la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra. Si ferma e fa ancora qualche passo, ma poi pensa che tutto ciò è ancora meno logico, e riprende a correre più a perdifiato di prima. Finisce addosso a una signora di mezza età, appena uscita dal centro commerciale con una scatola di scarpe in braccio. Lo scontro gli dà il tempo per una pausa di riflessione: si intrufola nell’emporio tra gli strilli e gli improperi della signora, si fa strada in mezzo a una folla compatta, sbuca da un’uscita secondaria, attraversa la strada e si infila svelto nella pelletteria di fronte. È stipata di cittadini previdenti che si accingono a comprare vari articoli in pelle per l’inverno, approfittando dei convenienti prezzi estivi, e sudano copiosamente mentre esaminano la fattura della merce a caccia di difetti. Chissà perché, ma quella gente gli ispira una rabbia incomprensibile: in cuor suo maledice con tutto se stesso quella gentaglia capace di una vita così ben pianificata, mentre segue la strada indicata dai cartelli alla disperata ricerca di un bagno.

Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Non ricordo che ora fosse quando decisi di voltarmi e tornare nel mio appartamento; quel che è troppo è troppo; la gente continuava a camminare ma a questo punto avevo perso del tutto l’interesse per le loro faccende e desideravo solo l’intimità della mia casa, una tazza di caffè caldo e qualche spuntino; e così feci dietrofront; ma, me ne resi subito conto, questa era una delle tante decisioni poco sagge che mi capitava spesso di prendere perché, adesso, non si trattava più di andare nel verso della corrente, ma di contrastarla e per tenermi saldo su due piedi, evitando allo stesso tempo di morire travolto dalla marea di umanità che mi veniva addosso, dovevo raccogliere tutte le mie risorse fi siche e mentali; una delle strategie che sviluppai – per continuare con la metafora – fu di guadare tra la gente come si guada nell’acqua, muovendo le braccia come un nuotatore e, all’occasione, procurando piccoli danni come un cazzotto al naso o un pugno allo stomaco a un paio di persone; la cosa, ancora una volta, non era intenzionale per cui nessuno aveva da ridire ed io continuai a lottare con la corrente; mi venne in mente la solita scena quotidiana alla stazione quando tutta la città si muove verso il centro, scende dal treno e sgorga in un fl usso senza fi ne, rendendo impossibile ai pochi che, come me, vorrebbero dirigersi a nord, nei quartieri alti, raggiungere il binario e salire in treno; e devo ammettere che questo esercizio mi ha fatto spesso sentire orgoglioso a causa del suo implicito simbolismo: fare ciò che la massa non fa, essere così anticonformista da trovare un lavoro nei quartieri alti mentre tutti i lavori sono in centro; ma per tornare al racconto, mi sentivo, da un altro punto di vista, un perdente: mi trovavo adesso faccia a faccia con la folla, dovevo sopportarne gli sguardi indiscreti, curiosi di sapere chi fosse il tale che viaggiava da est a ovest mentre tutti si muovevano nella direzione opposta; vedevo i loro sguardi obliqui, i loro denti appuntiti, e nasi colanti molto più distintamente di prima, e visto che il fl usso di gente era costante, talvolta accadeva che mi trovassi vicino a quella creatura deforme con monconi per braccia, piedi bitorzoluti e, manco a dirlo, con una pelle adornata di pustole, porri e nei; e questo in un certo senso mi dava l’impressione che un enorme mostro con molte teste, occhi, nasi mani e piedi, mi stesse attaccando con ferocia, astio, sicuro di prendermi e divorarmi; nella mia mente si sviluppò così lo stesso malanimo che sarebbe naturale covare verso una creatura del genere e fu una sorpresa anche per me, oltre che una prova della mia maturità, il fatto che non aprii bocca per ringhiare, abbaiare, mordere nel folle tentativo di difendermi; inoltre, dato che la folla man mano per la pendenza premeva sempre più forte, scoprii con sconcerto che, grazie alla mia posizione, ero proprio io l’unica causa del parapiglia in cui, fi la su fi la, caddero, inciamparono, e trovarono la morte in uno dei modi meno dignitosi che si possa immaginare – per intenderci, come fossero lasciati in balia degli elefanti; la faccenda, dunque, si stava facendo pericolosa, ma continuai a camminare perché adesso non vedevo l’ora di avere il comfort del mio appartamento e di una bevanda calda.

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Il 21 giugno a Milano: Gay made in India. Incontro con lo scrittore R. Raj Rao, in collaborazione con il Milano Pride

 

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e, dopo averlo arrotolato in una bella striscia rettangolare, lo portò agli occhi del ragazzo.
«Che fai?», sbottò lui.
«Ti bendo», rispose tranquillo Yudi. «È giusto una precauzione. Lo faccio sempre con i miei partner. Perché non sappiano in che palazzo abito. E se poi tornano il giorno dopo per ricattarmi?».
Yudi si pentì di aver usato la parola «ricattare» nel preciso istante in cui l’aveva pronunciata. Era come mettere strane idee in testa alla gente.
«Ti sembro un ricattatore, io?», chiese il ragazzo, offeso.
Era buffo vederlo camminare bendato, la mano destra nella sinistra del compagno.
«Non ho detto che tu sei un ricattatore», spiegò Yudi. «Mi piace essere super prudente, tutto qui. In inglese si dice “prevenire è meglio che curare”».
Erano arrivati nella via in cui viveva sua madre, nel secondo palazzo a sinistra. Un anziano sindhi che portava soltanto camicie bianche e pantaloni neri e che abitava due piani sopra la madre, stava salendo in macchina. Conosceva Yudi sin da bambino, quando viveva con i genitori, e aveva sempre pensato che gli mancasse qualche rotella. Ciononostante, vederlo accompagnare nel palazzo un tizio bendato era una stramberia che andava al di là di ogni possibile spiegazione. Squadrò Yudi. Che significa?, chiedeva la sua espressione corrucciata.
«Il mio domestico», spiegò Yudi. L’ho portato all’ospedale di Bombay per un’operazione alla cataratta. Capita».
«Quando torna tua mamma?», sospirò il signore, mettendo in moto la Fiat.
«Fra un paio di giorni», disse Yudi, e si allontanò in fretta.
Entrò con il ragazzo nella Pherwani Mansion (così si chiamava lo stabile). Schiacciò il pulsante dell’ascensore, che per fortuna arrivò vuoto senza altri vicini indiscreti. Vi spinse dentro il ragazzo, chiuse la porta a soffietto in gran fretta e salì al terzo piano.
«Hai detto che sono il tuo domestico?», chiese il ragazzo nel breve intervallo in cui l’ascensore andava dal primo al terzo piano.
«Solo per chiudere il becco a quel grassone di un sindhi», rispose Yudi.
«Lo sa di te?»
«Non ne ho idea. Non è che la gente vada in giro a dire: “Ah, so tutto di te, dei bei maschioni che ti scopi nell’appartamento di tua madre mentre lei non c’è”».
Il ragazzo rimase in silenzio. Non gli andava che lo chiamassero «bel maschione». Non gli piaceva nemmeno che Yudi usasse la parola «scopare». Yudi aprì la porta dell’appartamento e lo accompagnò nel salottino. Gli sbendò gli occhi e gli portò un bicchiere d’acqua.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Il 21 giugno a Milano: Gay made in India. Incontro con lo scrittore R. Raj Rao, in collaborazione con il Milano Pride

 

 

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

I due uomini tornarono a bordo della mia barca improvvisata dopo una “ricognizione”, come la chiamavano loro. Avevo costruito l’imbarcazione con alcuni fusti per sostanze chimiche tagliati nel senso della lunghezza: tre metà unite con un cordino di nylon preso dai fili per il bucato di Beevi. Inoltre comprendeva uno scafo e una copertura fatta con alcuni rami e un vecchio ombrello a pois. Devan la manovrava con racchette da ping-pong inchiodate su manici di scopa.
La barca poteva trasportare due adulti di corporatura minuta. Leong era basso ma corpulento e temevo che l’imbarcazione non reggesse il suo peso. Con lui a bordo affondava di altri venti centimetri, ma resisteva e mi congratulai con me stesso per aver saputo realizzare una pseudoimbarcazione che galleggiava così bene.
Leong scese dalla barca e salì sulla veranda della casa di Beevi, con i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia e la maglietta fradicia che intrappolava una sacca d’aria tra la pancia e il petto.
Gridò: «Salve salve, buongiorno buongiorno», per comunicare la sua presenza. Aggiunse: «Ho buone notizie per voi, gente. Abbiamo due cataste di assi di legno, larghe dieci centimetri e lunghe quindici. In tutto sono circa trecento».
«Quanto ci vorrà?» chiese Shan.
«Un giorno, credo. Ecco il piano: costruiremo partendo dalla casa qui dietro», indicò con il pollice, «fino a questa cucina. Poi continueremo da questa veranda diritto fino alla strada principale verso la collina».
«Ma partiamo domani mattina».

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

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Da Malesia Blues, di Brian Gomez

«Sta’ zitto e apri le orecchie, Joe. Io ho ventisei anni di esperienza nello spaccare le ossa di gente molto più grossa e più forte di te. E sono bravo, Joe. Cazzo se sono bravo. L’esperienza, come dici tu, è tutto. Ho smesso perché non mi piace più. Ma nel tuo caso, Joe, credo che mi potrebbe tornare la voglia.
«Quello che voglio che tu faccia ora è andare al microfono, visto che evidentemente essere al centro dell’attenzione non ti dispiace, a scusarti con i gentili clienti di questo bar per esserti comportato da stronzo rompicoglioni. Poi voglio che ti scusi con Terry per aver interrotto la sua esibizione. E infi ne, Joe, voglio che ti scusi con i Deep Purple per aver massacrato la loro canzone. E poi voglio che scendi da questo cazzo di palco. Ce la fai, Joe, oppure no?».
Mentre Pak Jam parlava, Joe sentì qualcosa di caldo sgocciolargli giù per i pantaloni. Non ci poteva credere. Avrebbe voluto correre via, ma non poteva andarsene così. Non c’entravano più Arun e Siva. Andassero affanculo, quei due. Erano le donne. Le donne lo stavano guardando. Doveva salvare la faccia almeno un po’. Cercò di pensare a una risposta brillante.
«E che cazzo pensi di fare se non scendo?», fu tutto quello che riuscì a dire, e rimase immediatamente deluso di se stesso.
«Ti slogo un pollice», disse Pak Jam. Cosa mi fa? si chiese Joe. Era l’idiozia più grossa che avesse mai sentito, eppure la specificità della minaccia lo terrorizzò. Cercò un’altra replica sagace.
«Ma vaffanculo, lah», disse, pentendosene all’istante. Il pugno di Pak Jam lo colpì dritto in bocca, e mentre crollava a terra Joe si sentì cascare di bocca due incisivi.

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Un giorno, dopo aver chiuso a chiave, come al solito, la porta del mio appartamento a Bombay, a Soul City, ed esser uscito sulla strada su cui affaccia il mio palazzo – strada che per l’appunto è un’arteria traffi cata – notai un gran quantità di gente andare a piedi da ovest a est, tutti nella stessa direzione, e dato che non avevo un granché da fare, e senza molte alternative del resto, visto che la folla, piuttosto numerosa, affl uiva con tale irruenza da impedirmi di andare altrove, mi unii a quello sciame e cominciai ad avviarmi senza avere idea di dove stesse andando e del perché; mentre camminavo, mi passarono per la testa un’infi nità di pensieri, e analizzandone la natura, scoprii che la maggior parte riguardava il desiderio di scoprire dove fosse diretta quella massa, congettura oziosa che mi occupava la mente, ma alla quale cionondimeno mi abbandonai, dal momento che tutto ciò ormai stuzzicava la mia curiosità: si stavano dirigendo a un comizio in un parco pubblico per ascoltare un pezzo grosso della politica? O si trattava piuttosto delle riprese di un fi lm in cui il protagonista era impegnato in una sequenza in cui cantava con la protagonista – o magari con un altro attore? O ancora, era possibile che fosse scoppiato da qualche parte un incendio gigantesco e che la gente volesse vedere con i propri occhi i danni causati dal fuoco? Intervenne poi un’altra parte del mio cervello a mettere in ridicolo quelle stupide ipotesi su comizi, set cinematografi ci e incendi, e accantonandole tutte, avanzò la sua teoria: se la gente camminava, era semplicemente perché non c’erano taxi né autobus a portarla in giro. E realizzando all’improvviso che effettivamente di autobus e taxi per strada ce n’erano pochissimi, concluse che era un bandh, un giorno di protesta contro questa o quella minaccia per la vita in città, come una rivolta o un’esplosione, evenienze piuttosto comuni al giorno d’oggi; malgrado il caldo, continuai a camminare, spintonato dalla folla che aumentava di minuto in minuto, e mentre mi muovevo le mie braccia oscillavano e sfi oravano i corpi di estranei, perlopiù di uomini, ma anche di donne, quelle poche al seguito del marito/fratello/padre/fi glio, e a volte mi trovavo a urtare parti sconvenienti come fi anchi, cosce e chiappe; siccome però la cosa non era intenzionale e dipendeva dall’enorme quantità di gente, nessuno aveva da ridire e continuava a camminare tranquillo; per spezzare il tedio di questa camminata senza meta, cominciai a spassarmela studiando i tratti fi sici della folla, piccoli dettagli come la curvatura della spina dorsale, lo spessore dei palmi delle mani, il grasso debordante dei fi anchi, o la sporcizia incastrata sotto le unghie, e il risultato di questo esercizio fu davvero illuminante, mi portò alla scoperta della sostanziale bruttezza del corpo umano, che in quel momento mi apparve assolutamente privo di grazia con quel modo che aveva di trotterellare qua e là sui piedi, senza preoccuparsi di apparire goffo a chiunque si desse la pena di guardarlo attentamente per fare paragoni; pensai che, messe a confronto, certe specie di animali come il cervo o il cavallo, note per l’agilità delle zampe, risultassero più evolute; mentre proseguivo con il passatempo di scrutare i corpi, così vicini ormai che si aveva l’impressione di essere avvolti dagli altri, e mi giravo di tanto in tanto per dare un’occhiata anche a quelli dietro di me, vidi teste con incipienti calvizie, piedi screpolati, narici pelose zeppe di moccio, e tanto altro ancora; presto, però, il mio senso dell’olfatto prevalse sulla vista e dopo una sorta di lotta interiore il primo ebbe, naturalmente, la meglio; come infatti fa notare un articolo recentemente pubblicato dal «Times of India», l’odore penetra nella parte emotiva del nostro essere molto più effi cacemente di quanto non facciano il suono o la vista: e infatti l’articolo parlava dell’olfatto come del più antico e misterioso dei sensi e proseguiva ricordandoci che era stato l’odore della madeleine inzuppata nel tè tiepido a far scrivere a Proust La ricerca del tempo perduto in sette volumi!

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Da Le tre porte, di Han Han

Il padre di Lin Yuxiang selezionava le letture come se strappasse foglie a un cavolo, facendo piazza pulita della magnifi cente storia della letteratura cinese. Alla fi ne, racimolò alcune opere senza imperfezioni da far studiare a Lin Yuxiang che, nonostante il suo odio per il cinese classico, fu costretto a imparare a memoria roba come «Ciascuno stenta a sopportare delle cose, compierle è segno di benevolenza. Ciascuno tende a non volere fare delle cose, adempierle è segno di giustizia» o frasi un po’ più semplici, tipo: «Non c’è passato, non c’è presente, nessun inizio e nessuna fi ne». Dopo un anno e passa di studio, Lin Yuxiang sapeva a memoria centinaia di citazioni, possedeva in sostanza la stessa preparazione di un fi losofo, anche se gliene mancava la maturità. Quando aveva sette anni, andò a casa loro un amico del padre, un tizio che lavorava nella redazione di un giornale di Shanghai città. L’uomo si lamentò delle diffi coltà incontrate nel rinnovamento della testata e delle enormi preoccupazioni correlate all’operazione. A Lin Yuxiang scappò detta una citazione a casaccio: «Se temi il capo e temi la coda, cosa rimarrà?». Il redattore, a essere ammonito così da un bambino, con un riferimento tratto dallo Zuo zhuan, si ringalluzzì, sentendosi spronato a non perdersi più d’animo per delle quisquilie. Riempì Lin Yuxiang di complimenti e gli chiese su due piedi di scrivere una fi lastrocca per il giornale. Lin Yuxiang aveva la metà degli anni del poeta Wang Bo quando rivelò il proprio genio e, ovviamente, non ne era in grado. A otto anni Lin Yuxiang conosceva tanti caratteri quanti uno di prima media e le maestre lo trattavano da bambino prodigio, cosa che riempì di superbia il padre che smise di obbligarlo a studiare il cinese antico. Fu una liberazione per la sua fantasia, tanto che compose una poesia:
L’anatroccolo fa qua qua
Niente pappa niente nanna fa
Chissà perché ci si chiederà
I compiti fatti lui non ha
Quando suo padre la lesse andò in visibilio, defi nendola una poesia simbolista, e la spedì all’amico redattore perché la pubblicasse quanto prima.

Da Le tre porte, di Han Han

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Da Duplice delitto e Hong Kong, di Chan Ho Kei

Ma che mi era preso? Tutti i poliziotti sanno benissimo che non devono mai togliersi pistola e distintivo. E se qualcuno avesse approfi ttato del fatto che dormivo come un sasso per entrare in macchina e rubarli? Allora sì che sarebbero stati guai. Mi riscossi e rimisi la pistola nella fondina intorno alla vita, appesi il distintivo al taschino della camicia, indossai la giacca e le scarpe sporche, dopo di che uscii. Mi stiracchiai e le ossa risposero scricchiolando. Forse ero andato a bere qualcosa al pub dopo il turno; ma per quanto mi sforzassi, non mi ricordavo assolutamente nulla della sera prima: dove ero stato, con chi mi ero incontrato, a che ora ero tornato al parcheggio. Il vuoto più totale. Ad ogni modo, mi ritenevo più che fortunato per essermi svegliato nella mia macchina e non in un letto d’ospedale. Considerate le mie condizioni, non aver fatto neanche un incidente era un vero miracolo. «Da poliziotto, conoscere le regole e allo stesso tempo violarle è decisamente degradante», dissi all’improvviso con un sorriso amaro.

Da Duplice delitto a Hong Kong, di Chan Ho Kei

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Da I miei luoghi, di Annie Zaidi

Il viaggio non mi risollevò granché il morale, peraltro. Seduta sul pullman che portava da Gwalior a Shivpuri, lessi l’avvertenza scritta con la vernice sullo schienale del sedile dell’autista: «Si prega di non portare armi cariche sul pullman». Benvenuti nel Chambal. Una regione in cui ci sono più armerie che alimentari. Una città di dimensioni ridotte come Bhind1, conta almeno ottanta rivendite d’armi: le munizioni abbondano e non costano quasi niente, e chi è dotato di un’arma non si fa certo problemi a sprecarne. (Tra l’altro, questa è la regione i cui amministratori locali a un certo punto hanno escogitato la brillante idea di regalare fucili e pistole, a mo’ d’incentivo per gli uomini che si presentavano per le «procedure di pianifi cazione familiare»: un modo per permettergli di sentirsi ancora virili.) Ecco spiegate le cortesi avvertenze sui mezzi pubblici: probabilmente autisti e controllori si erano rassegnati al fatto che la gente, le armi, se le sarebbe portate dietro comunque. Avevano solo esposto educatamente quelle poche righe per chiedere almeno di tenerle scariche.

Da I miei luoghi. A spasso con i banditi e altre storie vere, di Annie Zaidi

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