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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su citazioni

Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Prima di arrivare in questa città, non sapeva bene cosa aspettarsi. Forse nutriva una speranza ingenua che la città le cadesse ai piedi, spalancandosi come uno scrigno di gioielli e lasciando rotolare fuori tutti i suoi tesori, mentre resta ostinatamente e impenetrabilmente chiusa di fronte a lei. Le lunghe ore in laboratorio le lasciano poche occasioni per socializzare; la cosa più simile a un amico che abbia è il signor He.
Il suo anonimato in città è al tempo stesso liberatorio e demoralizzante. Alla sera, dopo il lavoro, ha preso l’abitudine di girare per la città, guardare le vetrine, osservare le persone, contemplare la vita delle strade come se fosse un suo diorama privato. La città non è una delle grandi metropoli, non ancora, almeno; è una arrivista sfacciata, che abbatte e ricostruisce tutto quanto c’è in vista, freneticamente, l’aria stessa elettrizzata e carica di promesse sfuggenti, come doveva essere stata New York agli albori del ventesimo secolo, una città pulsante avviata verso un’ambizione di grandezza. In città, Ling coglie qualche ombra, qualche indizio di una vita che per lei rasenta la fantasia, tanto è distante dal mondo in cui abita. Intorno alla circonvallazione principale della città c’è un agglomerato di alberghi a cinque stelle. La sera un flusso ininterrotto di auto di lusso scarica uomini in completi su misura e donne che indossano abiti luccicanti con varie gradazioni di trasparenze. Lei osserva soprattutto le donne, il modo in cui emergono dai veicoli, un tacco a spillo alla volta, sondando esitanti il terreno prima di allontanarsi volteggiando in una nuvola di seta o jacquard e di un profumo così intenso da permetterle di sentirlo anche a quella distanza. Le guarda e pensa: Potrei essere io, quella.

Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

L’auto con a bordo C e Giuditta era ferma ormai da cinque ore sull’autostrada all’altezza del valico di Hangye. Al suo interno i due non facevano nulla, se non attivare ogni tanto il tergicristallo per rimuovere la neve che si accumulava sul parabrezza. Alla radio stavano dicendo che una bufera del genere non si vedeva da vent’anni. La causa apparentemente era una saccatura formatasi in Cina che si era scontrata con una massa d’aria proveniente dalla Siberia. Le auto in fila sulla carreggiata non si muovevano di un millimetro e le catene non potevano nulla contro quella neve che si era depositata fin sul paraurti.
Nei paraggi non si scorgevano abitazioni e, come se non bastasse, stava calando il buio. Il cielo era stato plumbeo fin dalla mattina, e dopo le cinque l’oscurità aveva completamente inghiottito il paesaggio circostante. Quando C fece per mettere in moto il tergicristallo, Giuditta, intenta a limarsi le unghie, interruppe quel lungo silenzio.
«Lascia perdere. È meglio non vedere quello che c’è  fuori».
Quando il tergicristalli si fermò, bastarono pochi attimi perché tutto il parabrezza si coprisse di neve. L’interno dell’auto era buio e a malapena si vedevano, diafane, le luci dei fari. C riusciva a distinguere solo il profilo di Giuditta. In fin dei conti, sebbene la vista fosse affaticata dall’aria secca dell’auto, quell’atmosfera era confortevole.

Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

Rincasando, Xiao Ding trova Xiao Chu in salotto davanti alla libreria di bambú, intenta a darsi una truccatina veloce: sul ripiano più alto è appoggiato uno specchietto grande quanto il palmo di una mano. Coprendosi con la sinistra il viso gonfio e bluastro, Xiao Ding fila dritto in bagno, con uno sforzo immane si china sul rubinetto del lavandino e si sciacqua via dalla faccia e dalle mani le tracce di sangue. Com’è che oggi non sei al lavoro?, chiede dal bagno in tono decisamente aggressivo. Xiao Chu si giustifica: Adesso ci vado, al lavoro, ma che dici? Stasera c’è un cliente che ci invita a cena al «Città di Chaozhou», non lontano da qui, così già che c’ero sono passata a dare un’occhiata. Hanno vissuto insieme in quella casa per un anno, ma per evitare litigi Xiao Chu è tornata a trasferirsi nel dormitorio aziendale e ora si fa vedere solo il fine settimana o il mercoledì. Come volevasi dimostrare, il loro rapporto – che aveva imboccato ben presto una fase discendente – ne è uscito notevolmente rafforzato. Cena?, protesta lui, ma è ancora presto per cenare. Ma se ti ho detto che sto peruscire! ribatte Xiao Chu spazientita senza smettere di pettinarsi. Ho dimenticato delle cose e devo prima fare un salto in ufficio. Ma che razza di cliente è questo qui che ti invita a cena, eh, che razza di cliente è? A quanto pare i clienti sono tizi che non fanno altro che invitare a cena la gente.

Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

La mia passione per i treni risale al tempo in cui mio padre, un funzionario delle ferrovie, portava a casa alcune copie degli orari e poi le lasciava in giro. Avevo appena otto o nove anni. Raccoglievo quei volumi uno a uno e li studiavo attentamente, con un entusiasmo che di rado ho rivolto ai testi scolastici. Spesso mio padre commentava che se avessi studiato per gli esami con la stessa meticolosità con cui leggevo gli orari ferroviari, sarei stato il primo della classe. Voleva che diventassi dottore. Ma libri ed esami erano faccende noiose. Rabbrividivo all’idea che un giorno sarei stato sufficientemente istruito da saper badare a me stesso. A tenermi incollato agli orari era l’idea eccitante che collegavo alla possibilità di viaggiare, il senso di libertà e di avventura che prometteva ogni viaggio verso posti sconosciuti. L’immagine di tre locomotive convergenti, a vapore, elettrica e diesel, sulla copertina di alcuni opuscoli è un ricordo che mi resterà per tutta la vita. Mentre scorrevo le pagine, i nomi dei treni avevano un effetto magico sulla mia mente. Scoprii così che c’erano due postali per Calcutta da Bombay, uno via Nagpur, l’altro via Allahabad. Decisi che se un giorno fossi andato a Calcutta, avrei preso il Postale che passava da Allahabad, così la tratta più lunga mi avrebbe permesso di restare di più sul treno. Conoscevo a memoria il nome di ogni stazione tra Bombay e Pune e alcune dal suono buffo, tipo «Vangani», mi facevano ridere tra me e me.

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

Il morto era steso su un catafalco di ferro al centro del pavimento all’interno del padiglione di pietra.
Accanto, in un turibolo su un vassoio d’argento, crepitavano le braci. L’odore purificante di fumo, incenso e sandalo si diffondeva ovunque. Su tre lati della stanza – Buchia aveva ragione: i famigliari erano già presenti e in attesa – si accalcavano donne di età diverse, avvolte in sari bianchi freschi di bucato, eleganti come cigni pur nel loro dolore. Sedevano spalla a spalla su seggiole di legno accostate l’una all’altra, con i capelli coperti dai foulard o dai lembi del sari fissati da una spilla. Si trattenevano, come il loro lutto, in un decoro composto e curato. Alcune dialogavano a sussurri.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

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Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

«Come mai non hai ancora la barba?»
«Perché da piccolo avevo l’abitudine di mangiare direttamente dalla tava», rispose, stupendo Yudi. Non aveva mai sentito una risposta tanto assurda, per quanto sapesse che ai maratti mancava un venerdì.
«Che c’entra la tua barba con una pentola calda?», domandò, per poi pentirsene, vedendo il ragazzo a disagio.
«Non so, ma al mio villaggio dicono così».
«Dove si trova?»
«Khed Taluka, distretto di Raigad».
«Ah ma allora sei un discendente di Shivaji».
«Neanche per idea. Shivaji non mi piace», il ragazzo fece un sorriso a ventiquattro denti.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Da Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya

Teste mozzate rotolavano in fila sulla sponda del Gange. Doveva essere successo qualcosa di spaventoso, quella notte. Forse un mucchio di teschi ammassati come sacchi di patate aveva deciso di darsela a gambe? E in tal caso, che avevano fatto con il resto del corpo? I crani li avevano recisi con un colpo di sciabola, oppure tagliati con una sega? I teschi appartenevano a uomini o a donne? Sulla faccenda era in corso un dibattito.
Dall’altra parte del fiume, ai piedi del cielo torbido scaturito dal ciclone, ballavano crani di teste dotate del malizioso dono della parola. Prima erano in tante a ballare, ma poi è arrivata la polizia; molte sono svanite nel nulla, e ne sono rimaste solamente tre. E mentre la polizia considerava se procedere, se invischiarsi in un altro scandalo, se pensare a questo o a quell’altro, anche gli ultimi tre teschi sono spariti con un sorrisetto nel gonfiore dell’alta marea, senza lasciare traccia.

Gli ammutinati di Calcutta, Nabarun Bhattacharya

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Da Malesia Blues, di Brian Gomez

Che diavolo c’era di tanto divertente? si chiese. Non era la prima volta che aveva visto persone ridere del suo biglietto. Era il «Servizio Massaggi»? E perché faceva tanto ridere? Il suo numero di telefono era ridicolo? Non poteva certo essere il suo nome! Si chiamava come Fellatio: il Dio Greco del Potere e della Sapietanza!
Ripensò al periodo delle scuole medie. Era stata quella mezza sega di Dominic Chan a suggerirgli quel nome, dicendogliene il signifi cato. Di certo Dominic non poteva avergli mentito. Non avrebbe osato. Aveva riempito di botte quello sfi gato e gli aveva portato via i soldi della merenda un’infi nità di volte a scuola.
Allora era solo un Lim Boon Fatt qualsiasi. Quant’era poco fi go un nome così! Come molti altri ragazzini cinesi della sua età, voleva un nome dal suono occidentale. Accarezzava l’idea di un Johnny o un Ricky, soprattutto perché Jacky se l’erano già messo in troppi.
«Che ne dici di Fellatio?», disse Dominic, che non vedeva l’ora di vendicarsi. Era sicuro che nessuno tra gli amici di Boon Fatt avrebbe mai saputo l’inglese a suffi cienza da conoscere il signifi cato di quella parola. E aveva ragione.

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

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Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

La coda dell’alluvione e le imminenti elezioni straordinarie portarono nella nostra cittadina un altro gruppo di persone: i candidati della coalizione nazionale e di un partito dell’opposizione. Entrambe le parti giunsero cariche di sacchi di riso e telefoni cellulari per addolcire la loro retorica. Inoltre escogitarono diversi sistemi per distribuire denaro come parte della campagna elettorale. Diedero soldi ai pensionati; ai disabili e alle loro madri; agli orfanotrofi, alle scuole e alle organizzazioni benefiche; agli studenti che avevano ottenuto buoni voti agli esami; agli impiegati statali in pensione e alle vedove di impiegati statali; agli agricoltori, ai pescatori e ai raccoglitori di lattice dell’albero della gomma; agli sportivi e ai proprietari di negozi di alimentari; alle madri single e agli orfani; ai malati in ospedale; ai cittadini che avevano superato gli ottant’anni e ai Buoni Samaritani. La lista era lunga. Una dichiarazione del tipo “Verrà dato qualcosa a tutti, tranne a chi ha un lavoro retribuito e paga le tasse” sarebbe stata più semplice e più breve.

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

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Da Le tre porte, di Han Han

Lin Yuxiang era uno di quelli cui rodeva il fegato. Al suo primo tentativo di ammissione al circolo, fu scartato perché lì per lì non era riuscito a ricordarsi il nome dell’autore di Padri e fi gli. Al secondo giro, presentò due elaborati, ma commise il passo falso di affrontare il tema della fuga dei cervelli dimenticandosi di cantare le lodi del governo, e fu segato di nuovo. La terza volta aveva imparato la lezione e si profuse in elogi del sistema, arrivando a sfi orare la possibilità di essere selezionato, ma incappò inaspettatamente in un tizio che, al momento cruciale, ebbe la meglio su di lui, che non era ancora suffi cientemente allenato a esprimersi in materia con passione e originalità. Ritrovatosi nuovamente fuori della rosa, abbandonò qualsiasi ambizione letteraria. Ma ora che era riuscito a entrare nel circolo letterario, la felicità era tale che gli fece scordare ogni traversia.

Da Le tre porte, di Han Han

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jefferysmorton@mailxu.com vanmarter