Sui nostri media si parla sempre più spesso della Cina (era ora!). Come sempre, ci si concentra su argomenti più facilmente spendibili: i dissidenti, ad esempio, e quindi Ai Weiwei, l’artista recentemente incarcerato. Il suo arresto ha in realtà colto abbastanza di sopresa la comunità artistica e intellettuale cinese, che negli ultimi anni si è data una regola non scritta: criticare la società, e singoli funzionari, o aspetti del potere, ma non esprimere mai una opposizione esplicita alla mancanza di democrazia (il Partito Unico), o a temi “sensibili” quali il Tibet e Taiwan.
Così fa il nostro Han Han. La sua rivista Party, Un coro di assoli aveva ospitato numerosi scritti critici (tra quali uno dello stesso Ai WeiWei) ed è stata chiusa dopo il primo numero. Ma senza arresti: Han Han, quando l’ho incontrato a Shanghai, non si mostrava per nulla preoccupato.
Pochi giorni prima aveva postato sul suo blog la ripresa live di un grosso incendio a a Shanghai al quale la tv di stato aveva rinunciato (su richiesta dall’alto) a dare copertura. Risultato: il suo blog, e tutti gli altri che lo hanno ripreso, sono stati inondati di commenti (si parla di 80.000 persone) di protesta contro la televisione e le ingerenze del potere (che si giustifica dicendo: non bisogna deprimere il morale delle masse con notizie negative…!). Insomma: è così che si esprime la protesta in Cina.
E’ inutile andare a cercare gelsomini dove non ci sono (i media occidentali ripresero la notizia che in certi giorni prestabiliti alcuni giovani si riunivano nelle piazze principali delle città, senza segni di riconoscimento se non l’esibizione di un fiore). E’ inutile immaginare che il potere venga sfidato apertamente: mi diceva il giovane critico Shi Jian Fang: dell’arresto di Ai WeiWei in Cina non ne sa niente nessuno, e noi abbiamo paura di parlarne, ma se io scrivo un articolo che denuncia la corruzione delle istituzioni che controllano il mondo dell’editoria, posso farlo senza paura, facendo nomi e cognomi. E allora, perchè intestardirsi a parlare di democrazia formale? Meglio occuparsi di temi concreti.
E’ per questo che gli scrittori cinesi (quelli, intendo dire, che in Cina vivono e lavorano) non amano il termine “dissidente”, che invece è riservato a coloro che sono espatriati, e che magari scrivono in inglese o in francese da qualche capitale dell’occidente. E allora non usiamolo più neanche noi.
In India invece, la protesta si è espressa recentemente nella batosta elettorale presa dai partiti comunisti (ce n’è più d’uno) nelle elezioni statali (East Bengal e Kerala), che ha punito queste macchine burocratiche, vere e proprie caste (altro che le nostre…) come quella al governo da decenni nello stato di Kolkata. Che, peraltro, si rese tre anni fa colpevole della brutale repressione deille rivolte dei contadini espulsi dalle loro terre per far posto a nuovi impianti industriali.
Ricordo una conversazione con Urvashi Butalia, di Zubaanbooks, storica casa editrice dedicata alla letteratura femminile, che mi spiegava come la sinistra sociale indiana fosse rimasta scioccata dai più recenti comportamenti del/dei partiti comunisti indiani. E anche lei diceva la stessa cosa: meglio occuparsi di temi concreti, come la condizione femminile. A Milano dal 24 maggio, è aperta al pubblico la mostra Women Changing India, allo Spazio Forma, di cui Zubaan ha curato il catalogo.
E a Singapore il partito di opposizione ha ottenuto alle recenti elezioni legislative il miglior risultato della sua storia. Ne parla Toh Hsien Minh nell’editoriale su QLRS.
E in Tailandia sono state indette le elezioni: godetevi il blog di Max Morello. Tornano le camicie rosse.
Ma, davvero: non facciamo il solito errore. Non guardiamo a quel che accade in Asia con occhi occidentali (cioè attraverso i nostri pre-giudizi, solo per confermare I nostri schemi mentali). Guardiamo e basta.