Il primo pensiero in questa città non riguarda le narrazioni scritte, ma le forme, le architetture. Il suo centro d’attrazione è il Bund, un lungofiume di architetture art déco nelle quali si è in modo evidentente fuso quello che nei primi decenni del secolo scorso era un gusto europeo con quello cinese. E non si può fare a meno di notare che anche le architetture nuove della shining Shanghai spesso ripropongono forme neoliberty: a me verrebbe da definirle FlashGordoniane.
Bisogna avere la mia bella età per ricordare quel fumetto americano di fantascienza nella quale il futuribile eroe (Flash Gordon, appunto) aveva a che fare con il cattivissimo Ming (appunto), in un’epoca strana nella quale i razzi avevano la forma di pagodine e le città, tanto per inventare un futuro altro rispetto a quel presente di allora, erano segnate da acciai orientalizzanti e infiorescenze meccaniche.
Oggi a Shanghai sembra che il nuovo consumismo tanto lodato dal Partito Comunista, sposando la postmodernità delle griffe occidentali al segno cinese (con tanto di dragoni e bestiole di vario tipo ovunque), spinga verso un’identità grafica FlashGordoniana, post art déco.
E allora a me viene in mente uno dei racconti d’esordio di William Gibson (quello di Johnny Menemonics,per intenderci), The Gernsbak Continuum. Lì Gibson spiegava bene come l’architattura degli anni venti americani (forse art déco non è il termine giusto) tipo quella del Chrysler Building, rappresenti un’idea di futuro, valida allora, ma poi superata.
Superata appunto: da Internet, dalla comunicazione diffusa, dal postmoderno insomma. E allora che succede in Cina? Non è il paese dove 400 milioni di utenti entrano quotidianamente in rete?
Allora forse il FlashGordonismo è la forma che assume lo strano totalitario connubio di industria del consumo multinazionale e Comunismo realizzato.
Mamma mia.
Domani ne parliamo con qualche scrittore: loro, qui, di cosa scrivono?
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