«Come?» ha urlato la mia povera madre. «Hai appena partorito?»
«Sì. È mezza cinese e mezza occidentale».
«Santo cielo! Eri incinta?»
Dopo qualche secondo di silenzio da parte sua, ho pensato che, se non altro, forse avrebbe chiesto quale fosse il nome della bambina, e invece ha detto: «Pensi di tornare per la festa del Qingming?».
Qingming è un giorno di aprile in cui rendiamo omaggio ai defunti. Puliamo le loro tombe, bruciamo incenso e preghiamo. Io non rispondevo, stavo solo a sentire i suoi singhiozzi arrabbiati attraverso il telefono.
«Dovresti tornare! Non sai neanche dov’è sepolto tuo padre! Voglio spostare le ceneri di tua nonna dal villaggio e metterle vicino a tuo padre. La tua presenza sarebbe opportuna».
Stavolta, ho pensato, non ho scuse da opporre. Nessuna. Potrei andare a chiudere definitivamente i conti in sospeso. Sono solo dodici ore di volo, posso farcela. Durante tutta la mia vita adulta ho evitato il più possibile di tornare nella mia casa d’infanzia. Shitang, il paesino di pescatori nel quale sono stata testimone della povertà e della depressione dei miei nonni, è un luogo che ho finito per detestare. Wenling, dove ho trascorso l’adolescenza, culla dei miei rapporti travagliati con le autorità, mi ripugnava. Quando nel 1993 me ne sono andata per studiare a Pechino, ho promesso a me stessa: è finita, in questo buco soffocante non ci torno più. Dieci anni dopo, quando ho lasciato la Cina per l’Inghilterra, mi sono detta: d’ora in poi, basta lavaggi del cervello ideologici. Non mi lascerò intralciare dalle mie putride radici contadine. Ora però è giunto il momento di affrontare il passato.
Da I nove continenti, di Xiaolu Guo