In una stanza grigia e quasi vuota, illuminata da un tubo bianco fluorescente, Jian sta scrivendo alla sede centrale una lettera seria riguardante il suo futuro.
Mentre scrive e riscrive le frasi, immagina un funzionario dell’immigrazione al Quartier generale del Controllo delle frontiere che apre pacchi di lettere. Probabilmente, quel funzionario stanco e usurato dalla routine darà semplicemente un’occhiata alla nazionalità del richiedente e all’indirizzo di ogni lettera, poi le butterà in un secondo mucchio di documenti che porterà a un altro funzionario dell’immigrazione; poi un altro funzionario in un altro ufficio aprirà quelle lettere, le leggerà ancora e le metterà in un altro mucchio, poi quel funzionario porterà i documenti a un altro funzionario… come un pazzo che sale a carponi una scala di Escher, incapace di raggiungere la cima.
Jian torna a sedersi e guarda i suoi compagni di stanza nella sua seconda scatola grigio-bianca in quello strano Paese. Durante il giorno il chiacchiericcio dei guardiani e il silenzio annoiato dei rifugiati nel Centro si differenziano poco dai quieti mormorii delle infermiere e dal torpore dei pazienti nel Lincolnshire. La situazione non è cambiata molto. In confronto perfino la sua umida cella di Pechino sembrava viva e pulsante. Mentre cerca di mettere le parole su carta, sforzandosi di ricordare la giusta sintassi inglese, sente in testa un rumore intermittente, quasi meccanico. È una sensazione penosamente familiare – gli ricorda quando al suo ultimo concerto è stato colpito da un manganello elettrico. Il suo corpo si indolenzisce, la penna gli si blocca tra le mani. Adesso quel suono intermittente spezza la quiete che aveva intorno e vede la casa della sua infanzia – una casa circondata da acacie, nascosta in un vicolo nei pressi del lago di Houhai nel centro di Pechino.
Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo