Una sera a cena con Ambarish Satwick e sua moglie Ruma, a Milano. Un mio amico ha voglia di parlare di induismo, della sua passione per quelle mitologie. Ambarish e Ruma appaiono imbarazzati. Rudhra, il loro bambino di tre anni e mezzo, fa le bizze finchè finalmente si addormenta. Noi siamo atei, rivelano. E non sappiamo cosa fare con lui: vorremmo mettrlo in condizione di decidere da solo, quando sarà grande, se credere nell’induismo, nel cristianesimo, o essere ateo come noi. Ma la scelta va fatta subito, una scuola o un altra. E come spiegare a Rudhra la differenza di opinioni tra i suoi genitori e i nonni? Molti di noi, in Italia, si sono trovati nella stessa situazione. Non sappiamo se sia giusto, dice Ambarish, farlo crescere come un bambino diverso dagli altri, si rischia di metterlo in difficoltà. Ruma racconta la sua meraviglia nel sentire che tanti occidentali scelgono il buddismo, per sè e per i propri figli.
Zhu Wen partecipa a un incontro pubblico a Milano. La domanda di rito non manca mai: quali sono le radici culturali profonde della Cina? (L’amica che siede di fianco a me mi dice: se ti ponessero una domanda simile sull’Italia cosa risponderesti?). Zhu Wen, da buon scrittore residente uso alla censura, risponde spesso in modo obliquo, usando il suo umorismo come leva per deragliare da risposte standard. Paragona il buddismo cinese a una sorta di supermarket dove tutto e il contrario di tutto può essere comprato. Il taoismo, dice, va bene sopratutto per chi ha qualche malattia difficile da curare. Confucio? Alla sua risposta il traduttore chiede conferma due volte: ho capito bene, posso tradurre alla lettera?
Quel cazzone di Confucio, ha detto Zhu Wen. Dice banalità che potrei dire anch’io. Beh, in effetti, aggiunge, io sono un grande scrittore.