Ai primi di Marzo il nuovo staff del Man Asian Literary Prize ha annunciato una modificazione sostanziale nelle regole di ammissione al premio, il più importante nel continente per la narrativa tradotta in lingua inglese. Al concorso verranno infatti ammessi non più manoscritti inediti in inglese, ma libri già pubblicati in quella lingua. Il MALP, che ha base a Hong Kong, si era affermato negli ultimi anni come una importante vetrina per autori asiatici, che, cercando un grant di traduzione, potevano incrociare l’attenzione dell’editoria internazionale. Tra gli short listed degli ultimi anni abbiamo trovato autori birmani, vietnamiti, taiwanesi oltre che indiani e cinesi. La discussione era aperta: è questo un modo per invogliare gli autori a scrivere direttamente in inglese, e quindi, nei fatti, una sorta di attacco alle letterature in lingue locali? Si tendeva a rispondere di no: il Malp, anzi, creava un ponte tra quelle lingue e il mondo intero, che usa l’inglese come lingua di comunicazione globale. Questa ultima svolta imprime un’accelerazione, e nel la direzione sbagliata: solo romanzi già pubblicati in lingua inglese, che è come dire: se volete starci, dimenticate le vostre lingue d’origine.
Io ho l’impressione, molto semplicemente, che nei prossimi anni vedremo a Hong Kong pochi lavori dai paesi meno importanti. Di sicuro avremo molti romanzi indiani, paese dove oramai l’industria editoriale traduce la produzione narrativa nelle lingue locali (22 sono le lingue più importanti del paese, alcune parlate da più di 100 milioni di persone ciascuna come il Marathi, il Bengali, il Tamil) e dove comunque una gran parte della popolazione parla e legge l’inglese, che si è da tempo affermata come lingua dei media (sull’argomento, un bell’articolo pubblicato da Tehelka: http://www.tehelka.com/story_main44.asp?filename=hub030410the_trouble.asp , provate a leggere). E sicuramente avremo molti autori filippini, tradizionalmente legati agli Stati Uniti (la narrativa filippina contemporanea è eminentemente in inglese). Ma che senso avrà premiare un nuovo romanzo cinese solo dopo la sua traduzione e pubblicazione in UK o USA, cioè a qualche anno di distanza dalla sua uscita? O escludere i lavori di molti paesi? Questo tentativo un po’ goffo di riaffermare una predominanza linguistica andrà a mio parere a scontrarsi contro una tendenza vincente a non utilizzare l’inglese come lingua delle relazioni interasiatiche. I cinesi parlano molto poco e studiano molto poco l’inglese. Gli scrittori di Shanghai sono più inclini semmai a studiare il giapponese, anche perché è al Giappone e alle sue mode culturali che guardano i giovani cinesi, più che agli Stati Uniti. E nei paesi del sud est asiatico stanno facendo fortuna le minoranze cinesi, in grado di esprimere una nuova generazioni di interpreti capaci di mettere i businessmen in collegamento con il Dragone. Noi di MdA, come già annunciato, tendiamo invece ad associarci a premi letterari locali (l’abbiamo fatto in Indonesia http://www.metropolidasia.it/news-eventi-metropoli-asia-dettaglio.php?id_news=17&lang=it , a Singapore http://www.singaporewritersfestival.com/programmes-special-events.php e ora a Taiwan), affidandoci a giurie locali o miste, comunque in grado di leggere in quelle lingue. Se l’Asia rampante porta novità, lasciamo che si esprima nelle sue lingue, senza mutuare da slang, stereotipi , e rimasticati luoghi comuni occidentali.
Narrativa asiatica e lingua inglese
Posted by Andrea Berrini on aprile 1, 2010
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