Troy Chin, turista residente

Trovare il modo giusto per descrivere questo artista non è semplice. Vorrei evitare di andare per frasi fatte.

Sul palco del Singapore Writers Festival era a confronto con altri due graphic novelists locali. Gli altri sorridevano soddisfatti, lui aveva l’aria più incazzata che mai.

Al centro della sua produzione artistica (cinque volumi intitolati The Resident Tourist, la storia di un sé stesso ritornato a Singapore a trent’anni, dopo un decennio a New York) sta una sensazione di perdita e di rancore: la Singapore della sua giovinezza non c’è più, i suoi amici di un tempo (erano compagni di scuola ma anche una rock band) li ritrova sfiniti dietro a un sogno o un progetto di vita che prevede unicamente – a dir lui – soldi soldi soldi. La carriera, la famiglia, ogni genere di consumo concesso.

Non c’era niente di cos’ straordinario, in questo suo dire: il rischio delle frasi fatte e del luogo comune lui lo corre tutto. Neppure è una novità trovare anche in lui quel po’ di narcisismo che, non appena gli viene messo tra le mani un microfono, lo illumina dall’interno, lo aiuta a pronunciare frasi argute da uditorio.

Ma se il Troy Chin protagonista del Tourist è davvero lo stesso Troy Chin che ho davanti io adesso (il banco del bar, per me una Guinness per lui un tè al limone perché, dice , alle otto va a correre tutte le sere: la disciplina dello scrittore), c’è molto di vero nell’incazzatura che esibisce.

Come ogni scrittore, se lo conduco su un piano di conversazione piatto, lui esibisce luoghi comuni che anche noi ci raccontiamo spesso nella nostra Italietta, le relazioni tra le persone che non sono più le stesse, la scomparsa dei luoghi di incontro, l’eterno telefonino o mail o Facebook, tutti in carriera insoddisfatti e consumatori.

Ma se lo imbroglio un po’, se lo conduco a parlar d’altro più semplicemente (che so, sua nonna, o gli autobus di Singapore) senza chiedergli dichiarazioni programmatiche, vien fuori una persona incazzata sinceramente, se pur con garbo.

Nel Resident Tourist, non a caso, tutto acquisisce spessore. A cominciare dagli occhi del protagonista Troy, rivestiti di un paio di occhiali dalle lenti CIECHE: cioè, lui è l’unico di cui non si vedono gli occhi.

Per continuare con la compassione con cui ascolta tante storie di delusioni e sfighe da parte dei suoi amici, e dalla misura con la quale si incazza con loro. O con una ragazza, Mint (ma questa è la storia che convince meno, come se ci fosse da parte dell’autore la necessità di raccontarsela, più che raccontarla).

Io, qui seduto al bar, cerco di andar di sguincio, di non farlo parlare di queste sue vere e proprie ossessioni. Per il passato, il presente e il futuro. Il passato che in questa storia in cinque volumi, scritta e disegnata in poco meno di tre anni, compare come passato distante (i dieci anni a New York, il fallimento di un aspirante musicista che si ritrova dietro una scrivania negli uffici di un produttore rock), o come passato presente (l’infanzia e la scuola superiore a Singapore, con i suoi luoghi e le sue relazioni).

E il futuro del suo progetto attuale: una striscia quotidiana, LOTI, su un gruppo di bambini e il loro cane volante, e c’è chi lo vede e chi invece non ci riesce: un modo – spiega lui all’uditorio – di ricordare come era più semplice essere bambini ai suoi tempi, quanto più gioco e immaginazione: come un monito, dice, ai genitori di oggi.

E sicuramente una voglia di futuro: lo confessa il personaggio Troy Chin alla sua Mint, in cima al Flyer di Singapore, la ruota panoramica più alta del mondo, dove lei gli dice, papale papale: tu non hai un lavoro, Troy, che futuro vuoi costruire con me? Perché così è: quando Troy tornò a Singapore non aveva in mente altro se non raccontare quel che ritrovava e quel che avrebbe voluto ritrovare.

Scrive le sue tavole, il personaggio Troy Chin del Tourist, e così fece l’omonimo artista, sentendosi dire da ciascuno: perché tu non lavori? Chi sei, se non lavori? E lui si incazza, ma scrive, disegna (senza che mai l’abbia saputo fare: e si vede la differenza tra il segno del primo volume e quello del quinto). Si è autopubblicato per tutti questi anni, i volumi sono in tutte le librerie, racimola qualche lira (Singaporean Dollars in verità) con lavori su commissione, ma non manca mai la sua LOTI-striscia quotidiana.

Che pubblica sul suo sito, naturalmente: nessun giornale, fino a ora, l’ha voluto (dice candidamente: il mio pubblico è fatto di adulti, tra i trenta e i quarantacinque, altro che bambini).

Venerdì, nel salone delle cerimonie del palazzo presidenziale, hanno consegnato gli Young Artists Award 2011: lui è uno dei cinque. Un paginone sullo Straits Times. Chissà che adesso Mint non cambi idea, e che non gli dica più: Troy, che futuro vuoi che diamo ai nostri figli, in QUESTA città? E lui risponda: è la MIA città. Qui voglio vivere.

A me, terminata la lettura del quinto Tourist, resta questa sensazione: percorro le strade di Singapore e la vedo disegnata dal tratto leggero, pulito, di Troy Chin: i grattacieli, i monumenti, gli autobus e le macchine: vuol dire che funziona no? O vuol dire che è Singapore, la città stessa, a essere un fumetto, un cartone animato?

Mi dice: ma questo è il centro, per i turisti e i businessmen. Un giorno ti porto su da me, nei quartieri residenziali, a nord. Dove c’era il mio parco giochi.

Il suo sito: DrearyWeary, che tradotto sta per: triste e annoiato. E in home page, non per caso, ha una muta di bambini ridanciani.

Foto: Eustaquio Santimano

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