La scelta di privilegiare gli autori “residenti”

La scelta di privilegiare scrittori rimasti in patria

Nella presentazione dell’ospite d’onore sul sito del Lingotto ( http://www.salonelibro.it/it/salone/paese-ospite.html) , c’è una frase che mi è molto piaciuta: “Il Salone 2010 vuole privilegiare i narratori che sono rimasti in patria, a vivere e descrivere una realtà che con la sua debordante umanità resta un gigantesco serbatoio di storie capaci di coinvolgere il lettore.” E’ una scelta perfettamente in linea con la visione fondante di Metropoli d’Asia: cercare scrittori che in quelle città vivono, che ne battono le strade e i quartieri, che sono direttamente coinvolti e messi alla prova dal cambiamento in certi casi devastante delle loro città. Non solo in India, ma in tutta l’Asia, le grandi metropoli sono il centro e il motore di uno sviluppo economico e di una modificazione delle condizioni di vita che ne rende gli abitanti molto più simili a noi di quanto non accadesse un paio di decenni orsono. Ecco dunque imporsi una nuova generazione di narratori che trattano temi a noi vicini, superando quello stereotipo datato che vede nell’asiatico un altro da noi, distante, ancorato al premoderno, a una condizione di vita rurale, in qualche modo magica e sognante, di cui è utile raccontare il passato più che il presente perché questo ci porterebbe a toccare corde a noi inusuali, sopite e travolte dalla modernità e dallo sviluppo. E’ una visione che gli indiani, in particolare, hanno contestato e ancora contestano come orientalistic, e cioè esoticizzante (uno dei termini utilizzati, forse un po’ troppo enfatico è: neocolonialista). Gli scrittori contemporanei indiani ci chiedono invece di prendere atto dei mutamenti: e ci propongono delle storie che per noi sono sorprendenti e attraenti proprio perché ci cinvolgono in modo diretto, toccando temi che sono anche i nostri. E’ il caso, credo, de La Tigre Bianca di Aravind Adiga, che raccontando la vicenda di un servo e dei suoi padroni nell’india di oggi ci ricorda probabilmente i servi di casa nostra. O del Le Ceneri di Bombay di Cyrus Mistry, pubblicato da MdA qualche mese fa, nel quale il protagonista – scrittore a sua volta – si interroga sulla propria capacità o meno di narrare una Bombay dove fomentando le tensioni interetniche e interreligiose per costruire le proprie fortune politiche, gruppi di potere costruiscono furiose speculazioni edilizie e fortune industriali (e non è casa nostra questa?). O del nostro Il Mio Ragazzo di R Raj Rao, che ambienta le problematiche della discriminazione omosessuale nell’India delle caste e delle discriminazioni sociali.

Ecco, io penso che solo scrittori pienamente residenti siano in grado di interpretare queste nuove realtà e di raccontarcele trovando modo di tenerci legati alla loro narrazione. Per questo abbiamo scelto di non pubblicare autori della diaspora, residenti o perfino nati in Europa o negli Stati Uniti: non certo perché pensiamo che la distanza impedisca di costruire buona scrittura e buone narrazioni, ma perché siamo convinti che sentire sulla propria pelle i mutamenti abbia un effetto anche nel costruire la personalità artistica di un autore, e siamo curiosi di scoprirne il risultato. Nessun NRI – Non Resident Indian – dunque. Ma ci siamo spinti più in là, tendendo a scartare anche gli autori più giovani che abbiamo scoperto essere emigrati verso le più prestigiose High School anglosassoni quando ancora erano teen-ager, tornando nel loro paese solo per le vacanze: sulla base di quale esperienza, dopo ventanni lontani, ci possono raccontare la New Delhi, la Bombay, la Bangalore contemporanea? Abbiamo invece amato autori che vanno fieri della propria nazionalità al punto da sobbarcarsi l’inevitabile fatica dell’esistenza nei quartieri più affollati di Bombay pur di sentirsi in grado di raccontare la loro città. E ancora di più coloro sui quali la globalizzazione produce l’effetto opposto: la voglia di ritornare, la curiosità di vedere cosa succede nella nuova India.

E che il risultato di questa scelta sia, in tempi di comunicazione virtuale e delocalizzazione, il suo esatto contrario, e cioè riscoprire il legame con il luogo e il genius loci che di volta in volta a quello presiede, beh non mi dispiace per nulla.

  • patrizia

    son appena tornata da Mumbai e non faccio che divorare tutto quel che si scrive e dice sull’India. la vostra collana è preziosa e il vostro blog lo è ancor più, se possiible. Grazie! Patrizia

  • elisabetta

    Beh, mi sembra di un perfetto tempismo questo parlare del rapporto tra locale e globale anche rispetto a quell’immenso generico calderone che è ancora l’Asia nel nostro immaginario, nonostante la sua presenza sia sempre più evidente e dirompente nella nostra realtà, quotidiana proprio.
    Intanto l’Asia che vuol dire? Un’etichetta che appiccichiamo a tutto quello che sta a est (oltre Instanbul forse) fino a quella grande distesa ocenanica che attraversata ci riporta sulle più familiari strade dell’America… una massa di terre divise in decine di nazioni, talune vaste come un continente, popolate da miliardi di persone, tutto questo va sotto il nome di Asia. Certo, sappiamo diligentemente fare delle distinzioni: India, Cina, Giappone, soprattutto. Il cinema americano ci aiuta a ricordare anche Vietnam, Corea e Cambogia; chi legge i giornali conta anche Tibet e, se attento, Birmania. Ma anche questi nomi rimangono etichette, talvolta arrivano a prendere la forma di un fotogramma, di un paesaggio, un’immagine puramente visiva, che resta in superficie.
    Oltre l’etichetta, dentro l’Asia, ci orientiamo a tentoni, aggrappandoci a qualche stereotipo, continuamente tentati dalla sua storia, e dunque sempre con la testa indietro.
    Eppure continuamente siamo allertati che il presente, ma soprattutto il futuro, appartengono all’Asia, All’India, alla Cina, a… Di quale presente stiamo parlando e chi ne sia attore sono questioni che non sappiamo inquadrare, perché abituati a credere che, diversamente dalla storia, il presente sia l’opera quotidiano e in progresso di singoli, di individui. Ma, per come la conosciamo noi, l’Asia non è mai associata all’idea di individuo, anzi è madre di una cultura anti-indivuidualistica per eccellenza, che soverchia il singolo, utile solo a fare numero a favore della massa (operaia, rivoluzionaria, affamata, pezzente, obbediente, cieca… a seconda).
    Quando però ci troviamo tra le mani un libro come quello di Zhu Wen i nostri stereotipi subiscono un tracollo: “dollari la mia passione” non racconta saghe di famiglia ma storie di individui, ferocemente determinati a farsi strada, all’interno di una società composta da milioni di individui mossi dallo stesso desiderio. L’inevitabile conflitto raggiunge i toni del grottesco, dell’ironia amara e della tragicommedia grazie allo stile, di nuovo estremamente individuale, dello scrittore, che ci stupisce pagina dopo pagina rivelandoci una Cina inaspettata e davvero tutta nuova.

  • http://greatgame emanuele

    sto leggendo con piacere il vostro “il mio ragazzo”. Ottima scelta direi

  • rob

    ho letto ‘Il mio ragazzo’, tanto per partire leggero.
    da buon provinciale dovrei fare dei paragoni?
    beh, sarò severo: Rosso malpelo mi faceva capire meglio la Sicilia dell’800 oppure ‘Ultima fermata a Brooklin’ la NY degli anni ’70.
    detto questo pensare di capire l’India con un solo libro è un po’ troppo, lo so… magari qualcuno può darmi buoni consigli

  • http://tabaccherieorientali.blogspot.com/ Klara

    L’India non si capisce. L’India si vive, se è possibile farlo, altrimenti si può solo filtrare attraverso i libri, i film, le riviste.

    Tehelka è un’ottima impresa, a mio avviso. Spietata nella rappresentazione del divario sociale. E i libri di Metropoli d’Asia sono un bel punto di partenza. Si apre un libro, si comincia una storia, no? Tutto ciò che si avvicina il più possibile alla realtà indiana contemporanea è un gran tentativo di capire l’altro.

    Buone letture

    • http://www.facebook.com/ Shirl

      Free knowledge like this doesn’t just help, it pormote democracy. Thank you.

  • http://tabaccherieorientali.blogspot.com/ Klara

    “Ecco, io penso che solo scrittori pienamente residenti siano in grado di interpretare queste nuove realtà e di raccontarcele trovando modo di tenerci legati alla loro narrazione. Per questo abbiamo scelto di non pubblicare autori della diaspora, residenti o perfino nati in Europa o negli Stati Uniti: non certo perché pensiamo che la distanza impedisca di costruire buona scrittura e buone narrazioni, ma perché siamo convinti che sentire sulla propria pelle i mutamenti abbia un effetto anche nel costruire la personalità artistica di un autore, e siamo curiosi di scoprirne il risultato. Nessun NRI – Non Resident Indian – dunque”.

    E questa mi sembra un’ottima scelta. Finora in Italia, a parte qualche sporadica e casuale eccezione, si è sempre pubblicato il mainstream che viene dall’India o dagli scrittori indiani residenti all’estero. Chi resta in India, chi decide di non migrare a ovest, si porta nel sangue e nelle parole tutte quelle sfumature – dolorose e non – che chi parte dimentica, edulcora o trasfigura.

  • http://www.globalstories.it/ Cristina

    Complimenti per la scelta editoriale e anche per il blog. Condivido la scelta di pubblicare solo scrittori residenti: leggere i loro romanzi è utile non solo per capire i nuovi cambiamenti che stanno avvenendo là ma anche per capire come stiamo cambiando noi, e magari anche come potremmo cambiare in meglio. Ci aiutano a guardare non solo quei paesi, ma anche l’occidente, “da fuori”.
    E’ per questo che tengo un blog dove racconto i libri non occidentali che leggo: http://www.globalstories.it/
    Ho letto con piacere Le Ceneri di Bombay e l’ho raccontato su globalstories e ora comincerò Dollari la mia passione.

    Tanti auguri e buon lavoro,
    Cristina

  • http://indian-words.blogspot.com Silvia

    Anche io convido in pieno la vostra scelta di cercare di pubblicare autori che vivono nel subcontinente o nelle città asiatiche.

    E’ incredibile notare quanto siano diverse le nostre letture “indiane” da quelle degli indiani stessi.

    Penso che l’India sia (editorialmente) ancora molto inesplorata: linguisticamente conosciamo solo le sue storie in lingua inglese e geograficamente non sappiamo praticamente niente di tutte le altre numerosissime metropoli indiane che non siano Mumbai o Delhi.
    Per esempio, che cosa succede a Hyderabad e come viene raccontato in telugu?

  • consuelo

    sono meravigliosamente entusiasta del Vostro stile editoriale che rimanda un pò alla mia esperienza di traduttrice dall’ hindi all’ italiano SENZA BISOGNO DI PASSARE NECESSARIAMENTE DALL’ INGLESE. Non si tratta certamente di una novità, in molti prima di me hanno parlato della questione. Ma forse ci sarebbe bisogno di ribadire il concetto!
    Complimenti a Metropoli d’ Asia perchè con questa scelta ci offre la giusta chiave di lettura per entrare nella vita contemporanea dei paesi asiatici!

  • Andrea

    Beh, delle quattro notizie postate finora, questa è la più commentata. E’ evidente che abbiamo tutti una ‘abitudine’ all’India già radicata, e voglia di discuterne.
    Grazie dei commenti positivi, e anche di quelli negativi (Rob, prova Le Ceneri di Bombay, comunque l’India è un continente e già riuscire a raccontare Mumbai…). Mi è molto piaciuto il commento di Cristina, sul ‘guardare l’occidente da ‘fuori’, perchè è esattamente quiel che mi attendo dalla crescita dei giganti asiatici: non più noi al centro, alla ricerca dell’Altro, ma invece… E vi assicuro che da là, proprio per le somiglianze tra i nostri mondi, ora si han davvero delle aperture sul mondo nostro

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