La liberazione di Ai Weiwei (che ancora non sappiamo se sia definitiva), dà spazio a una riflessione circa le voci critiche in Cina – non m piace usare la parola “dissidente” che è venuta via via indicando personalità in esilio all’estero.
Ai Weiwei (anche se imputato in questo caso in veste di operatore immobiliare) è un artista. Dello scrittore e premio Nobel Liu Xiao Bo si è detto, e noi stiamo per presentare al pubblico italiano il romanzo del blogger Han Han, capofila di una lunga lista di scrittori e giornalsti che si fanno sentire in Rete.
Non economsti, scienziati, sociologi o ricercatori, ma narratori, perché anche l’arte è una narrazione. La loro capacità, e la loro scelta, è quella di restare entro certi limiti invalicabili (mai criticare in modo diretto il regime a partito unico, o perorare la causa della democrazia, e mai nominare le questioni inerenti alla nazionalità, quindi Tibet e Taiwan), ma sbizzarrirsi poi nell’osservazione critica del proprio paese, molto spesso forti – come lo sono i bloggers – di un buon numero di seguaci.
Questo prevalere della narrazione (avete letto i racconti del nostro Zhu Wen?) non ha eguali in altri paesi del mondo. In Cina è dal mondo della cosiddetta finzione che viene lo sguardo più penetrante e acuto sulla realtà sociale e politica del paese. E forse per questo le storie narrate stanno diventando così interessanti, pregnanti, divertenti.